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giovedì 28 febbraio 2019

«Fermati, pensa, non sei eterno, è questa la saggezza della vita... Non aspettare a convertirti al Signore» - Papa Francesco - S. Messa Cappella della Casa Santa Marta - (video e testo)

S. Messa - Cappella della Casa Santa Marta, Vaticano
28 febbraio 2019
inizio 7 a.m. fine 7:45 a.m. 

Papa Francesco:
“Cinque minuti di saggezza”


Nel vortice di una vita in cui l’uomo tende a confidare «nel potere», «nella salute», «nelle ricchezze», egli va avanti, «temerario», pensando di poter fare quello che vuole. E perde consapevolezza della «relatività della vita». Occorre invece — ha suggerito Papa Francesco nell’omelia della messa celebrata a Santa Marta la mattina di giovedì 28 febbraio — avere la saggezza di fermarsi, ogni giorno, anche solo 5 minuti, per fare un esame di coscienza che ricostruisca una corretta gerarchia di valori e permetta di ripartire più «sovrani di se stessi».

La riflessione del Pontefice ha preso le mosse dalla lettura del Vangelo del giorno (Marco, 9, 41-50) nel quale si incontra Gesù che offre un «insieme di consigli». Di questi, ha sottolineato Francesco, «l’ultimo è un bel consiglio: “Abbiate sale in voi stessi, siate in pace gli uni con gli altri”». Con l’espressione “Abbiate sale”, ha spiegato il Papa, «il Signore vuole dire: abbiate saggezza, che la vostra vita sia saggia». Un invito necessario, perché «la saggezza non è scontata», non è garantita, ad esempio, dal fatto di essere «andato all’università». No, «la saggezza è una cosa di tutti i giorni», che viene dal riflettere sulla vita e dal trarre «le conseguenze dell’esperienza della vita».

È un aspetto, questo, su cui si sofferma anche la prima lettura (Siracide 5, 1-10). Il brano esordisce proprio con l’espressione: «Non confidare...». In cosa? si è chiesto il Pontefice: «Nel tuo potere, nella tua salute, nelle tue ricchezze, nelle cose che hai... Questo è molto buono ma non fidarti di questo perché queste cose sole non ti porteranno al successo». Recita la Scrittura: «Non confidare nelle tue ricchezze e non dire: “Basto a me stesso”». È come leggere, ha notato il Papa, «un consiglio di un padre al figlio, di un nonno al nipote», si tratta di «un consiglio saggio», e cioè: «Fermati ogni giorno un po’ e pensa a come hai vissuto quella giornata. Non seguire il tuo istinto, la tua forza, assecondando le passioni del tuo cuore».

Di fatto, ha detto il Pontefice approfondendo il concetto, «tutti abbiamo passioni. Ma stai attento, domina le passioni. Prendile in mano, le passioni non sono cose cattive, sono, diciamo così, il “sangue” per portare avanti tante cose buone ma se tu non sei capace di dominare le tue passioni, saranno loro a dominarti».

Ecco allora l’appello accorato: «Fermati, fermati». Non bisogna lasciarsi vincere dalla superbia: «Non dire: “Chi mi dominerà? Chi riuscirà a sottomettermi per quello che ho fatto?”» perché, ha aggiunto, «Mai si sa che cosa succede nella vita».

Soffermandosi a riflettere sulla «relatività della vita», il Papa ha ricordato, parafrasandoli, i versetti di un salmo che lo «colpisce tanto» (37, 35-36): «Ieri sono passato e ho visto un uomo; oggi sono tornato a passare e non c’era più». E ha suggerito: «Pensiamo ai nostri nonni. Forse pochi di noi ancora hanno dei nonni, ma loro vivevano la vita concreta di tutti i giorni, e oggi non ci sono più». E ancora: «I nostri nipotini diranno: “Ah, i nostri nonni”, noi. E non ci saremo più…». Aggiungendo un consiglio a ogni uomo: «Fermati, pensa, non sei eterno», è questa «la saggezza della vita».

L’uomo non deve farsi vincere dalla tentazione di dire: «Ma si può fare un po’ di tutto perché ho peccato... e che cosa mi è successo?», non deve essere «così temerario, così azzardato da credere» che comunque se la caverà: «Non si può contare sul fatto che “Ah, me la sono cavata fino a adesso, me la caverò...”. No. Te la sei cavata, sì, ma adesso non sai… Non dire: “La compassione di Dio è grande, mi perdonerà i molti peccati”, e così io vado avanti facendo quello che voglio. Non dire così».

Cosa fare? il consiglio viene dal brano del Siracide, che il Papa considera come «il consiglio ultimo di questo padre, di questo “nonno”: “Non aspettare a convertirti al Signore”, non aspettare a convertirti, a cambiare vita, a perfezionare la tua vita, a togliere da te quell’erba cattiva, tutti ne abbiamo...». Un richiamo che giunge chiaro all’uomo dalla Scrittura: «Non aspettare a convertirti al Signore e non rimandare di giorno in giorno perché improvvisa scoppierà l’ira del Signore». Così come si legge: «Ieri sono passato e ho visto un uomo; oggi sono tornato non c’era più», e ancora: «Non confidare in ricchezze ingiuste, non ti gioveranno nel giorno della sventura».

Si tratta, ha sottolineato il Papa, di «una parola positiva, che ci aiuterà tanto: “Non aspettare a convertirti al Signore”, non rimandare di giorno in giorno il cambiamento della tua vita». perciò «Se tu sai che hai questo difetto, fermati, prima di andare a letto, un minuto; esamina la tua coscienza e prendi il cavallo per le redini, comanda tu». Ogni uomo è chiamato a fare un esame di coscienza e a dire a se stesso: «Sì, ho sbagliato, ho avuto tanti fallimenti, tanti insuccessi, ma domani vorrei che questo non succeda». Occorre «prendere coscienza dei propri fallimenti. Tutti ne abbiamo e tutti i giorni e tanti. Ma non spaventarti, soltanto non credere che sono cosa comune, che sono il sale di ogni giorno, no».

Se, ha aggiunto il Pontefice, «prendo dalla redini questa passione e il dominatore sarò io, io sarò il responsabile delle mie azioni». Bastano «soltanto 5 minuti, prima di andare a letto». Chiedersi: «Cosa è successo oggi? Cosa è successo nella mia anima?» per «imparare ad essere più “sovrano” di me stesso, il giorno dopo».

Ha concluso quindi Francesco esortando: «Facciamo questo piccolo esame di coscienza ogni giorno, per convertirci al Signore: “Ma domani cercherò che questo non accada più”. Accadrà, forse, un po’ meno, ma sei riuscito a governare tu e non ad essere governato dalle tue passioni, dalle tante cose che ci succedono, perché nessuno di noi è sicuro di come finirà la propria vita e quando finirà».

Si tratta di soli «5 minuti alla fine della giornata» che, però, «ci aiuteranno, ci aiuteranno tanto a pensare e a non rimandare il cambiamento del cuore e la conversione al Signore. Che il Signore ci insegni con la sua saggezza ad andare su questa via».
(fonte: L'Osservatore Romano)

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Liturgia penitenziale che conclude la terza giornata dell'incontro per la protezione dei minori nella Chiesa - 23.02.2019

Liturgia penitenziale che conclude la terza giornata dell'incontro 
per la protezione dei minori nella Chiesa


23.02.2019


Dalla Sala Regia del Palazzo Apostolico,
 In Vaticano,
Liturgia Penitenziale con le Conferenze Episcopali 
presieduta da Papa Francesco





«Siamo come il figlio prodigo del Vangelo, abbiamo chiestola nostra parte di eredità, l’abbiamo ricevuta e ora la stiamo sperperando con impegno. Questa crisi degli abusi ne è una espressione». Monsignor Philip Naameh commenta il Vangelo di Luca durante la liturgia penitenziale nella quale al Chiesa chiede perdono confessando «che vescovi, diaconi e religiosi hanno commesso violenze nei confronti di minori e giovani e che non siamo riusciti a proteggere coloro che avevano maggiormente bisogno della nostra cura», che «abbiamo protetto dei colpevoli e abbiamo ridotto al silenzio chi ha subito del male, che «non abbiamo riconosciuto la sofferenza di molte vittime e non abbiamo offerto aiuto quand’era necessario».

Nella sala Regia del palazzo apostolico risuonano, dolenti e tragiche le note del violino di una delle vittime. struggenti come le sue parole: «L’abuso è l’umiliazione più grande che un individuo possa subire. Ci si deve confrontare con la consapevolezza di non potersi difendere contro la forza superiore dell’aggressore. Non si può fuggire a ciò che succede, ma si deve sopportare, non importa quanto sia brutto. Quando si vive l’abuso si vorrebbe porre fine a tutto. Ma non è possibile». E «non c’è sogno senza ricordi di ciò che è successo, nessun giorno senza flashback». Ora «cerco di concentrarmi sul mio diritto divino di essere vivo. Io posso e devo essere qui».

Più di uno tra i 190 che partecipano alla liturgia non trattiene l’emozione. «Per tre giorni», dice il Papa invitando all’esame di coscienza, «ci siamo parlati e abbiamo ascoltato le voci di vittime sopravvissute a crimini che minori e giovani hanno subito nella nostra Chiesa. Ci siamo chiesti l’un l’altro. “Come possiamo agire responsabilmente, quali passi dobbiamo ora intraprendere”. Per poter entrare nel futuro con rinnovato coraggio, dobbiamo dire, come il figlio prodigo: “Padre, ho peccato”. Abbiamo bisogno di esaminare dove si rendono necessarie azioni concrete per le Chiese locali, per i membri delle Conferenze episcopali, per noi stessi. Ciò richiede di guardare sinceramente alle situazioni createsi nei nostri Paesi e alle nostre stesse azioni».

E poi una serie di domande cui ciascuno deve rispondere interrogando se stesso: «Quali abusi sono stati commessi dal clero e da altri membri della Chiesa nel mio Paese? Cosa so delle persone che sono state abusate e violate da preti, diaconi e religiosi?». E ancora: «Come nel mio Paese la Chiesa si è comportata con quanti hanno subito violenze di potere, di coscienza e sessuali? Quali ostacoli abbiamo messo nel loro cammino? Li abbiamo ascoltati? Abbiamo cercato di aiutarli? Abbiamo cercato giustizia per loro? Sono stato all’altezza delle mie responsabilità personali?». Infine le domande: «Nella Chiesa del mio Paese, come ci siamo comportati con vescovi, presbiteri, diaconi e religiosi accusati di violenze carnali? Come, nei riguardi di coloro i cui crimini sono stati appurati? Che cosa ho fatto di persona per impedire le ingiustizie e garantire la giustizia? Che cosa ho trascurato di fare?».

Domande che i presenti si porteranno dietro anche dopo la conclusione dell’incontro per fare davvero pulizia all’interno della Chiesa. «Cosa dobbiamo fare in maniera diversa?», si chiede monsignor Naameh,mostrando come esempio proprio il figlio prodigo. «Per lui», dice il vescovo, «la situazione incomincia a volgere al meglio quando decide di essere molto umile, di svolgere incarichi molto semplici e di non pretendere alcun privilegio. La sua situazione cambia quando egli si riconosce e ammette di avere fatto un errore, lo confessa al padre, ne parla con lui apertamente ed è pronto a subirne le conseguenze. In questo modo, il Padre sperimenta la grande gioia per il ritorno del suo figlio prodigo e aiuta a far sì che i fratelli si accettino vicendevolmente». E noi, si chiede, «saremo capaci di fare questo? Lo vorremo fare? L’attuale Incontro lo rivelerà, deve rivelarlo se vogliamo dimostrare che siamo degni figli del Signore, il nostro Padre celeste. Come abbiamo ascoltato e discusso oggi e nei due giorni precedenti, questo implica assumere responsabilità, fare mostra dell’accountability (del dovere di rendere conto) e istituire la trasparenza. La strada davanti a noi per attuare veramente tutto questo in maniera sostenibile e appropriata, è lunga. Abbiamo ottenuto progressi diversi camminando a velocità diverse. L’Incontro attuale è stato soltanto un passo di tanti. Non crediamo che solo perché abbiamo iniziato a scambiare qualcosa tra di noi, tutte le difficoltà siano eliminate. E come per il figlio del Vangelo che ritorna a casa, non tutto è risolto – quanto meno, dovrà riconquistare suo fratello. Noi dovremo fare la stessa cosa: dobbiamo riconquistare i nostri fratelli e sorelle nelle congregazioni e nelle comunità, riconquistare la loro fiducia e ri-ottenere la loro disponibilità a collaborare con noi, per stabilire insieme il Regno di Dio».

(Fonte: Annachiara Valle per Famiglia Cristiana)


Omelia di S.E. Mons. Philip Naameh, 
Arcivescovo di Tamale
Fratelli e sorelle,
Tutti conosciamo la parabola del Figlio prodigo. L’abbiamo raccontata spesso, e spesso ci abbiamo fatto delle omelie. La si dà praticamente per scontata nelle nostre congregazioni e nelle nostre comunità: la si recita ai peccatori per indurli al pentimento. Forse ormai è diventato talmente un’abitudine che dimentichiamo una cosa importante. Dimentichiamo prontamente di applicare questa Scrittura a noi stessi, di vederci per quello che siamo, cioè dei figli prodighi.

Proprio come il figlio prodigo del Vangelo, abbiamo chiesto la nostra parte dell’eredità, l’abbiamo ricevuta e ora la stiamo sperperando con impegno. Questa crisi degli abusi ne è un’espressione. Il Signore ci ha affidato la gestione dei beni della salvezza, lui si fida e crede che noi compiremo la sua missione, proclameremo la Buona Novella e contribuiremo a stabilire il Regno di Dio. Invece, noi cosa facciamo? Rendiamo giustizia a quanto ci è stato affidato? Non potremmo rispondere a questa domanda con un “sì” onesto, non c’è dubbio. Troppo spesso siamo stati fermi, abbiamo guardato dall’altra parte, evitato conflitti – eravamo troppo compiaciuti per confrontarci con il lato oscuro della Chiesa. Abbiamo perciò tradito la fiducia che era stata riposta in noi, in particolare riguardo all’abuso nell’ambito della responsabilità della Chiesa, che è sostanzialmente la nostra responsabilità. Non abbiamo garantito alle persone la protezione a cui hanno diritto, abbiamo distrutto la speranza e la gente è stata brutalmente violata nel corpo e nello spirito.

Il figlio prodigo del Vangelo perde tutto: non solo la sua eredità ma anche il suo stato sociale, la sua buona posizione, la sua reputazione. Non ci dovremmo sorprendere se ci toccasse un destino simile, se la gente parla male di noi, se c’è sfiducia nei nostri confronti, se alcuni minacciano di ritirare il loro sostegno materiale. Non dobbiamo lamentarcene; piuttosto, chiederci cosa dovremmo fare in modo diverso. Nessuno si può esimere, nessuno può dire: ma io personalmente non ho fatto niente di male. Noi siamo fratelli (nell’episcopato) e non siamo responsabili solo di noi stessi, ma anche per ciascun altro membro della nostra fratellanza e per la fratellanza in se stessa.

Cosa dobbiamo fare in maniera diversa, e da dove dobbiamo incominciare? Guardiamo ancora il figlio prodigo del Vangelo. Per lui, la situazione incomincia a volgere al meglio quando decide di essere molto umile, di svolgere incarichi molto semplici e di non pretendere alcun privilegio. La sua situazione cambia quando egli si riconosce e ammette di avere fatto un errore, lo confessa al padre, ne parla con lui apertamente ed è pronto a subirne le conseguenze. In questo modo, il Padre sperimenta la grande gioia per il ritorno del suo figlio prodigo e aiuta a far sì che i fratelli si accettino vicendevolmente.

Saremo capaci di fare questo? Lo vorremo fare? L’attuale Incontro lo rivelerà, deve rivelarlo se vogliamo dimostrare che siamo degni figli del Signore, il nostro Padre celeste. Come abbiamo ascoltato e discusso oggi e nei due giorni precedenti, questo implica assumere responsabilità, fare mostra dell’accountability (del dovere di rendere conto) e istituire la trasparenza.

La strada davanti a noi per attuare veramente tutto questo in maniera sostenibile e appropriata, è lunga. Abbiamo ottenuto progressi diversi camminando a velocità diverse. L’Incontro attuale è stato soltanto un passo di tanti. Non crediamo che solo perché abbiamo iniziato a scambiare qualcosa tra di noi, tutte le difficoltà siano eliminate. E come per il figlio del Vangelo che ritorna a casa, non tutto è risolto – quanto meno, dovrà riconquistare suo fratello. Noi dovremo fare la stessa cosa: dobbiamo riconquistare i nostri fratelli e sorelle nelle congregazioni e nelle comunità, riconquistare la loro fiducia e ri-ottenere la loro disponibilità a collaborare con noi, per stabilire insieme il Regno di Dio


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La Liturgia integrale



«Dio è come quelle mamme a cui basta uno sguardo per capire tutto dei figli: se sono contenti o tristi, se sono sinceri o nascondono qualcosa…» Papa Francesco Udienza Generale 27/02/2019 (foto, testo e video)


UDIENZA GENERALE
Piazza San Pietro
Mercoledì, 27 febbraio 2019


Il Papa, a bordo della papamobile aperta, ha fatto il suo ingresso in piazza San Pietro, dove sono tornate le udienze generali del mercoledì, dopo la fase invernale in cui si sono svolte nell'Aula Paolo VI, alle 9.15 circa, e subito ha fatto salire sulla papamobile cinque bambini: due maschietti, di cui uno di colore, e una femminuccia, che si sono goduti tutti il tragitto della jeep bianca scoperta tra i settori della piazza. Diecimila i fedeli in piazza, che hanno accolto festosamente Francesco, con una coreografia di bandiere multicolori tra cui spiccavano quelle giallo-verdi brasiliane. Nutrita, infatti, oggi la presenza dei Paesi latinoamericani, provenienti dall’Ecuador, dall’Argentina, dal Portogallo e, appunto, dal Brasile. Molto folto il gruppo anche dei fedeli spagnoli, in gran parte formato di studenti. La precedenza l’hanno avuta i più piccoli, baciati e accarezzati dal Papa durante il tragitto, al termine del quale – prima di dirigersi a piedi verso la sua postazione al centro del sagrato – si è congedato dai suoi piccoli ospiti, salutandoli uno ad uno.












Catechesi sul “Padre nostro”: 8. Sia santificato il tuo nome

Cari fratelli e sorelle, buongiorno!

Sembra che l’inverno se ne stia andando e perciò siamo ritornati in Piazza. Benvenuti in piazza! Nel nostro percorso di riscoperta della preghiera del “Padre nostro”, oggi approfondiremo la prima delle sue sette invocazioni, cioè «sia santificato il tuo nome».

Le domande del “Padre nostro” sono sette, facilmente divisibili in due sottogruppi. Le prime tre hanno al centro il “Tu” di Dio Padre; le altre quattro hanno al centro il “noi” e le nostre necessità umane. Nella prima parte Gesù ci fa entrare nei suoi desideri, tutti rivolti al Padre: «sia santificato il tuo nome, venga il tuo regno, sia fatta la tua volontà»; nella seconda è Lui che entra in noi e si fa interprete dei nostri bisogni: il pane quotidiano, il perdono dei peccati, l’aiuto nella tentazione e la liberazione dal male.

Qui sta la matrice di ogni preghiera cristiana – direi di ogni preghiera umana –, che è sempre fatta, da una parte, di contemplazione di Dio, del suo mistero, della sua bellezza e bontà, e, dall’altra, di sincera e coraggiosa richiesta di quello che ci serve per vivere, e vivere bene. Così, nella sua semplicità e nella sua essenzialità, il “Padre nostro” educa chi lo prega a non moltiplicare parole vane, perché – come Gesù stesso dice – «il Padre vostro sa di quali cose avete bisogno prima ancora che gliele chiediate» (Mt 6,8).

Quando parliamo con Dio, non lo facciamo per rivelare a Lui quello che abbiamo nel cuore: Lui lo conosce molto meglio di noi! Se Dio è un mistero per noi, noi invece non siamo un enigma ai suoi occhi (cfr Sal 139,1-4). Dio è come quelle mamme a cui basta uno sguardo per capire tutto dei figli: se sono contenti o tristi, se sono sinceri o nascondono qualcosa…

Il primo passo della preghiera cristiana è dunque la consegna di noi stessi a Dio, alla sua provvidenza. È come dire: “Signore, Tu sai tutto, non c’è nemmeno bisogno che ti racconti il mio dolore, ti chiedo solo che tu stia qui accanto a me: sei Tu la mia speranza”. È interessante notare che Gesù, nel discorso della montagna, subito dopo aver trasmesso il testo del “Padre nostro”, ci esorta a non preoccuparci e non affannarci per le cose. Sembra una contraddizione: prima ci insegna a chiedere il pane quotidiano e poi ci dice: «Non preoccupatevi dunque dicendo: che cosa mangeremo? Che cosa berremo? Che cosa indosseremo?» (Mt 6,31). Ma la contraddizione è solo apparente: le domande del cristiano esprimono la confidenza nel Padre; ed è proprio questa fiducia che ci fa chiedere ciò di cui abbiamo bisogno senza affanno e agitazione.

È per questo che preghiamo dicendo: “Sia santificato il tuo nome!”. In questa domanda – la prima! “Sia santificato il tuo nome!” – si sente tutta l’ammirazione di Gesù per la bellezza e la grandezza del Padre, e il desiderio che tutti lo riconoscano e lo amino per quello che veramente è. E nello stesso tempo c’è la supplica che il suo nome sia santificato in noi, nella nostra famiglia, nella nostra comunità, nel mondo intero. È Dio che santifica, che ci trasforma con il suo amore, ma nello stesso tempo siamo anche noi che, con la nostra testimonianza, manifestiamo la santità di Dio nel mondo, rendendo presente il suo nome. Dio è santo, ma se noi, se la nostra vita non è santa, c’è una grande incoerenza! La santità di Dio deve rispecchiarsi nelle nostre azioni, nella nostra vita. “Io sono cristiano, Dio è santo, ma io faccio tante cose brutte”, no, questo non serve. Questo fa anche male; questo scandalizza e non aiuta.

La santità di Dio è una forza in espansione, e noi supplichiamo perché frantumi in fretta le barriere del nostro mondo. Quando Gesù incomincia a predicare, il primo a pagarne le conseguenze è proprio il male che affligge il mondo. Gli spiriti maligni imprecano: «Che vuoi da noi, Gesù Nazareno? Sei venuto a rovinarci? Io so chi tu sei: il santo di Dio!» (Mc 1,24). Non si era mai vista una santità così: non preoccupata di se stessa, ma protesa verso l’esterno. Una santità – quella di Gesù - che si allarga a cerchi concentrici, come quando si getta un sasso in uno stagno. Il male ha i giorni contati – il male non è eterno –, il male non può più nuocerci: è arrivato l’uomo forte che prende possesso della sua casa (cfr Mc 3,23-27). E questo uomo forte è Gesù, che dà anche a noi la forza per prendere possesso della nostra casa interiore.

La preghiera scaccia ogni timore. Il Padre ci ama, il Figlio alza le braccia affiancandole alle nostre, lo Spirito lavora in segreto per la redenzione del mondo. E noi? Noi non vacilliamo nell’incertezza. Ma abbiamo una grande certezza: Dio mi ama; Gesù ha dato la vita per me! Lo Spirito è dentro di me. È questa la grande cosa certa. E il male? Ha paura. E questo è bello.

Guarda il video della catechesi

Saluti:
...

Rivolgo un cordiale benvenuto ai fedeli di lingua italiana.
...

Un pensiero particolare rivolgo ai giovani, agli anziani, agli ammalati e agli sposi novelli.

A ciascuno auguro che questo vostro pellegrinaggio alle tombe dei Santi Apostoli costituisca un incoraggiamento a diffondere con entusiasmo la perenne novità del messaggio salvifico portato da Cristo ad ogni uomo, a partire dai più lontani e diseredati.


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KENYA / RAPIMENTO DI SILVIA ROMANO BASTA ILLAZIONI, SERVE CHIAREZZA di Bruna Sironi (da Nairobi)

KENYA / RAPIMENTO DI SILVIA ROMANO
BASTA ILLAZIONI,
 SERVE CHIAREZZA
di Bruna Sironi (da Nairobi)


Sono 100 giorni che Silvia Romano, operatrice della onlus Africa Milele, è stata rapita a Chakama un villaggio della zona costiera del Kenya e ormai da troppo tempo non si sa niente delle indagini per trovare lei e i suoi rapitori.

All’inizio, con una certa fretta e una buona dose di pregiudizio, si parlò di azione terroristica. Poi si disse che si trattava di una banda di balordi locali ingolositi dai denari che certamente una ragazza bianca doveva avere con sé. Si disse che il rapimento - avvenuto la sera del 20 novembre - era un incidente dovuto al fatto che Silvia aveva lasciato in camera il cellulare con l’applicazione che in Kenya tutti usano per spostare denaro verso altri cellulari o verso agenti che si trovano ovunque, anche in zone remote.

A più riprese le autorità keniane che stavano conducendo le indagini dissero con sicumera che Silvia era ancora nel paese, in una zona identificata, e che sarebbe stata portata a casa al più presto. Numerose persone vennero arrestate e poi rilasciate perché non si erano trovate prove del loro coinvolgimento. Una ridda di informazioni che, con il senno di poi, possono essere interpretate come il segnale che, in realtà, le indagini brancolavano nel buio fin dall’inizio e che si dava in pasto all’opinione pubblica quello che voleva sentirsi dire.

A noi italiani, qui in Kenya, fu detto di tenere un profilo molto basso nel chiedere informazioni e nel rilasciare eventuali dichiarazioni, per non intralciare le indagini. E noi, che volevamo vedere Silvia libera, ci siamo attenuti scrupolosamente al consiglio. Ma ora, dopo 100 giorni, le domande non possono più essere rimandate e qualcosa di ufficiale deve essere detto, se non altro per sottrarre Silvia alle voci incontrollate che da qualche tempo girano su alcuni mezzi d’informazione locali e hanno ormai raggiunto anche il nostro paese.

Un giorno ci si allarma per notizie riportate anche dai mass media keniani più autorevoli che stabiliscono un collegamento tra i rapitori della volontaria e i terroristi implicati nell’ultimo grave attacco a Nairobi. Ma il giorno dopo si capisce che il collegamento è così tenue da far pensare più a un “trucco” per poter trattenere in carcere un po’ più a lungo i sospettati di terrorismo e cercare di provare le accuse loro rivolte. Intanto, si è buttato là un dubbio che potrebbe venir agitato in caso di bisogno.

E poi, come sempre in questi casi, le interferenze di esibizionisti o di sciacalli di ogni genere che per avere il proprio nome pubblicato su un giornale o per la speranza di un facile guadagno, sono disposti a dire tutto e il suo contrario.

Sembra essersi messa in moto anche una vera e propria ‘macchina del fango’ che potrebbe affondare le radici nell’ambiente, per certi aspetti non proprio cristallino, di Malindi, la località turistica più frequentata dagli italiani sulla costa del Kenya, nel cui entroterra si trova il villaggio dove Silvia è stata rapita. Un video preparato da un’emittente locale, la vorrebbe coinvolta addirittura in un traffico d’avorio.

Il sospetto fa a pugni con il profilo della nostra volontaria, troppo giovane e sanamente idealista per immaginare che possa essersi prestata a traffici illeciti, per di più dannosi per la fauna selvatica e l’ambiente. Ma conosciamo fin troppo bene la tecnica: sollevare un polverone mettendo in collegamento notizie disparate e inconciliabili in modo che alla fine la vittima diventi “forse colpevole di qualcosa” e nessuno debba rispondere della propria inettitudine, mentre i veri colpevoli possono farla franca.

In un contesto come quello descritto, è necessario che le autorità italiane competenti informino l’opinione pubblica sulla situazione delle indagini e su cosa si sta facendo per riportare Silvia a casa. Lo si deve a lei, alla sua famiglia e a noi tutti. Non vorremmo dover pensare che, nell’attuale clima politico del nostro paese, le voci incontrollate e la ‘macchina del fango’ non vengono bloccate e smentite immediatamente perché tutto sommato fanno il gioco di chi sta usando pretesti di ogni genere per delegittimare il lavoro delle ong e dei volontari italiani nel mondo
(Fonte: Nigrizia - 27.02.2019)



Vedi anche i post precedenti (all'interno altri link):


mercoledì 27 febbraio 2019

Allarme xenofobia, razzismo e intolleranza. Non possiamo arrenderci!!!


Allarme xenofobia, razzismo e intolleranza.
Non possiamo arrenderci!!!




Allarme dell'Onu: nel mondo ondata di xenofobia e razzismo

Il mondo è alle prese con "una ondata di xenofobia, razzismo e intolleranza" ed i diritti umani stanno perdendo terreno a livello globale: lo ha detto oggi il Segretario generale delle Nazioni Unite, Antonio Guterres, nel suo discorso di apertura del Consiglio per i diritti umani dell'Onu a Ginevra. Guterres ha espresso allarme di fronte a ciò che ha definito un "restringimento dello spazio civico", sottolineando che negli ultimi tre anni sono stati uccisi oltre1.000 tra giornalisti e attivisti per i diritti umani. "False narrazioni su rifugiati e migranti" Guterres ha puntato il dito sulla vasta campagna che a suo giudizio è stata mobilitata contro il Global Compact sulle migrazioni delle Nazioni Unite, un testo non vincolante che mira a migliorare le pratiche per la gestione dei flussi di rifugiati e migranti. "Abbiamo visto", ha detto, "come il dibattito sulla mobilità umana, ad esempio, è stato avvelenato con false narrazioni che collegano rifugiati e migranti al terrorismo e li hanno trasformati in capri espiatori per molti dei mali della società". "L'odio sta etrando nelle democrazie liberali, rigurgiti di antisemitismo" Il segretario generale Onu ha dunque annunciato l'iniziativa, che sarà guidata dal suo consigliere speciale per la prevenzione del genocidio Adama Dieng, al Consiglio dei Diritti umani dell'Onu. "L'odio sta entrando nella normalità, nelle democrazie liberali e nei sistemi autoritari allo stesso modo", ha affermato. "Alcuni importanti partiti politici e leader stanno 'tagliando e incollando' nelle proprie campagne di propaganda ed elettorali idee dalle frange", ha aggiunto. I governi di tutto il mondo stanno osservando con preoccupazione il clima politico, incancrenito da discorsi razzisti e di istigazione all'odio. Francia e Germania, in particolare, hanno lanciato l'allarme nelle ultime settimane per i rigurgiti di antisemitismo". 
(fonte: Rai News 25/02/2019)

Un 'nuovo antisemitismo' si aggira per l’Europa. Nei momenti di crisi, quando cresce la paura e si alzano i muri, non vengono colpiti solo gli immigrati, ma torna anche il 'nemico innocente' di sempre, l’ebreo. Troppo simili e insieme considerati diversi, gli ebrei inquietano cuori e menti chiusi nei propri timori. Nel dopoguerra, dopo la Shoah, è stata eretta una sorta di barriera per impedire il discorso razzista e antisemita; ma oggi, appena finite le iniziative per gli ottanta anni delle leggi razziali italiane, si assiste a una sorta di 'liberazione' della violenza verbale e della denigrazione, dell’insulto del pregiudizio, insomma dell’ostilità verso il bersaglio di sempre. Cimiteri profanati, scritte ingiuriose, cori allo stadio.

Il web diffonde messaggi e meme che confermano l’avversione. Cresce in Italia e in Europa questo odio sottile, banalizzato e diffuso che può portare in ogni momento a gesti o atti criminosi. Le ingiurie a Alain Finkielkraut (peraltro spesso polemico verso la società aperta e l’immigrazione) da parte dei gilets jaunes a Parigi ha provocato una reazione morale e una forte preoccupazione: dietro quegli attacchi 'antisionisti' si nasconde un vero antisemitismo? La questione è molto complessa.
...

Si devono individuare le zone d’ombra che fanno dell’antisemitismo un nodo cruciale, una sorta di luogo simbolico in cui si gioca la possibilità di apertura all’altro e alle differenze, oppure la chiusura nel pregiudizio e nell’intolleranza. L’altro viene destoricizzato, ridotto a simbolo, categorizzato anziché considerato nella sua specificità e nei suoi tratti di comune umanità. L’odio globale – fosse verso ebrei, musulmani, rom, immigrati, donne o altri – va contrastato in tutte le sue forme.



Intolleranza, paura, e razzismo. Episodi violenti in crescita secondo alcuni dati. E i casi di Melegnano e Foligno entrano in questo conto. 
Il servizio di Marco Burini per Tg2000
Guarda il video


Xenofobia. Difendere i confini dalle erbacce xenofobe
di Marco Impagliazzo*

Una trasmissione su Radio3, qualche giorno fa, ricordando il centenario della nascita di Primo Levi, dava voce a Fabrizio Gifuni, che aveva letto brani delle sue opere in una commovente cerimonia svoltasi nel campo di internamento di Fossoli (dove Levi transitò prima di essere avviato ad Auschwitz). La conduttrice ha scelto di denunciare in diretta il fatto che giungessero vari messaggi violenti di italiani non proprio 'brava gente': «Si diceva 'Basta con questi ebrei'. Rispetto a qualche anno fa, un peggioramento. E questi sms arrivavano quando parlavamo di rom. Dunque, la platea dell’odio si allarga».

È questa la realtà di una parte dell’Italia di oggi. Sembra che gli episodi di xenofobia e di razzismo si siano velocemente moltiplicati. Sono di questi giorni le notizie relative alle scritte contro l’adozione di un senegalese a Melegnano, al pestaggio di un ragazzino di origine egiziana a Roma, al ferimento di un bambino rom di 11 anni alla stazione Termini («perché mi hanno rotto»), nonché all’assurdo 'esperimento sociale' messo in atto in una scuola di Foligno su un bambino di pelle più scura. Nemmeno la scuola, ormai, sembra del tutto immune dal virus del razzismo.

Anch’io voglio partire da Primo Levi. In una lettera recentemente pubblicata su 'la Stampa' in cui il giovane chimico, appena tornato in Italia, scriveva ai parenti per raccontare quanto aveva vissuto nel lager, Levi aggiungeva, descrivendo il suo impatto con la patria: «Il fascismo ha dimostrato di avere radici profonde, cambia nome e stile e metodi, ma non è morto». Non so se il fascismo è eterno, per riprendere il titolo di un intelligente pamphlet di Umberto Eco, ma certo è vivo e vegeto. Così come la xenofobia e il razzismo. Il problema è che abbiamo preferito non rendercene conto. Il fatto è che le pulsioni xenofobe, i comportamenti razzisti, si sposano bene con un tempo segnato dal vittimismo e dal rancore, in una stagione in cui sembra impossibile tessere legami con l’altro. Come se tanti dicessero: 'Il mondo di oggi non va bene, sento nostalgia di un passato più semplice, rivendico il diritto del fastidio verso questo o quello, anzi di gettare la colpa su di loro'.

Il nostro mondo di monadiimpaurite si è costruito un nuovo razzismo. Si grida: 'Io non posso, e comunque non voglio, essere insieme a lui, a lei, a loro'. Questa versione più moderna, apparentemente più accettabile, di un male antico, ha attecchito, si è fatta strada, è stata sdoganata a livello politico e mediatico e infine ha rotto gli argini. E allora le parole si fanno pietre. Il 'buonismo' è dipinto come un male. Tutto è scusabile perché si tratta di difendere i confini. Chissà, forse è davvero ora di 'difendere i confini'. Cioè di impedire che una cultura umanista antica di duemila anni venga messa all’angolo dai luoghi comuni e dalle pulsioni 'di pancia'. Di chiamare le erbacce della contrapposizione e del disprezzo, che abbiamo lasciato crescere indisturbate insieme agli alberi di una cultura umanista e solidale, roba infestante e dannosa. Se non faremo finta di niente e riconosceremo le radici profonde di un nuovo razzismo guardando con fermezza al male oscuro del-l’Italia di oggi potremo farcela. Non saremo soli nel difendere l’umanità. E, come suggerisce l’esperienza, le necessità economiche, professionali e di cura di un Paese che invecchia rapidamente, ci ricorderanno con la forza dei numeri e della realtà che non c’è nessuna salvezza possibile nell’esclusione, nell’autosufficienza, nel vittimismo. Abbiamo bisogno degli altri e gli altri saranno sempre diversi da noi. Qualche giorno fa ero alla presentazione de 'Il caso Kaufmann', il romanzo di Giovanni Grasso. Una storia vera e tragica, una storia di razzismo nella Germania delle leggi di Norimberga. Ebbene, la presentazione si svolgeva a Palazzo Barberini, sotto la volta dipinta da Pietro da Cortona, che raffigura 'Il trionfo della Divina Provvidenza'. Alzando gli occhi, si poteva vedere come, alla fine, il Furore è vinto dalla Mansuetudine e la Ragione prevale sulla Forza Bruta. Lavoriamo con la pazienza dell’artigiano di pace perché questo sia presto il destino italiano ed europeo.

*Storico, presidente della Comunità di Sant’Egidio
(fonte: Avvenire, 26/02/2019)


È necessaria una nuova strategia globale per combattere l'incitamento all'odio. Il segnale è stato lanciato oggi a Ginevra dal segretario generale dell'ONU, Antonio Guterres. Con dati allarmanti.
Il servizio di Nicola Ferrante per Tg2000
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Xenofobia. L'astiosa banalità del razzismo diffuso
di Maurizio Ambrosini*

Le cronache quasi ogni giorno ci segnalano nuovi casi di xenofobia e razzismo. Il fenomeno è difficile da misurare, perché molti episodi non vengono denunciati o non sono adeguatamente rilevati e approfonditi, ma i diversi osservatori che se ne occupano segnalano un aumento dei casi. Episodi come gli insulti sui muri alla famiglia di Melegnano che ha adottato un ragazzo africano, gli episodi di intolleranza xenofoba sui mezzi pubblici, i cori razzisti da stadio, gesti ambigui o apertamente offensivi persino a scuola indicano che si sta sviluppando un clima culturale in cui diventa sempre più ammissibile esprimere sentimenti di aperta avversione verso persone immigrate, oggi soprattutto africane. Anche senza arrivare alla violenza, che pure a volte entra in gioco, si è sdoganato – come questo giornale segnala da tempo e con crescente allarme – un razzismo diffuso e banalizzato. È importante riflettere su alcune sue caratteristiche. Anzitutto il discorso razzista è facilmente accessibile: chiunque, per il mero fatto di essere italiano, può sentirsi superiore a un medico africano o a un ingegnere cinese. Può gridare a gran voce che i diritti spettano a lui soltanto, che altri ne vanno esclusi perché non hanno il passaporto giusto o il colore della pelle appropriato. Uno slogan come 'prima gli italiani' non è molto lontano da questa visione.

Di qui discende una seconda caratteristica del razzismo, il vittimismo consolatorio: se vivo male e non ottengo risposta alle mie esigenze, magari anche giuste o comunque comprensibili, è perché lo Stato, le leggi, «le élite», e magari «la Chiesa di papa Francesco » proteggono gli immigrati. Non pochi trovano così, in modo facilmente consolatorio, una spiegazione ingiusta all’ingiustizia, all’arretramento sociale e talvolta al proprio fallimento personale. Anche l’insicurezza seminata dalla globalizzazione neoliberista incide: si converte in ansiosa domanda di protezione del proprio ambiente di vita contro ogni presunta minaccia esterna, facilmente identificata nella circolazione di persone diverse e povere. Quando questi sentimenti non sono urlati in solitudine, ma condivisi con altri, si afferma un’altra caratteristica del razzismo: a suo modo, l’individuazione del nemico infiltrato sul territorio produce un senso di comunità. Magari paranoide e malato, ma non meno forte e spesso temibile. Serve egregiamente a dividere il mondo in gruppi ben distinti e contrapposti: da una parte 'noi', gente pacifica e perbene, dall’altra 'loro', di volta in volta dipinti come invasori, profittatori del welfare, violenti aggressori di ragazze indifese. In proposito, la costruzione di categorie collettive, tali per cui tutti gli africani o tutti gli immigrati sono uguali, è un tratto costitutivo dei razzismi. In questo modo le malefatte di qualcuno diventano le colpe di tutti.

Il contrario invece non vale: il buon comportamento di qualche appartenente al gruppo stigmatizzato è eventualmente un’eccezione che non modifica il giudizio generale. Proprio questo meccanismo sorregge il senso della comunità minacciata. Tutto questo potrebbe ancora una volta condurre ad associare il razzismo con condizioni economiche e sociali svantaggiate: una tipica battaglia dei penultimi contro gli ultimi. Magari dei penultimi sotto pressione per il timore del sorpasso. Questo però è vero solo in parte, ed è vero soprattutto per le forme più esplicite e rozze di razzismo. La paura dello sconvolgimento dell’ordine sociale, la produzione di rappresentazioni collettivizzanti dei presunti altri (gli africani, i musulmani…), il senso della perdita di un’identità culturale, da ben altre forze in realtà minacciata, sono sentimenti che attraversano la società e investono anche fasce colte e benestanti. C’è un ultimo tassello da aggiungere: i messaggi che arrivano dall’alto, criminalizzando gli immigrati e banalizzando, minimizzando o giustificando le espressioni razziste, non aiutano certo a dissipare il clima di ostilità verso gli immigrati. Anzi, si può temere che contribuiscano a rendere legittime altre forme di xenofobia.

*Sociologo, Università di Milano e Cnel
(fonte: Avvenire, 26/02/2019)


Omelia p. Gregorio Battaglia (VIDEO) - VII Domenica del Tempo Ordinario / C - 24/02/2019



Omelia p. Gregorio Battaglia


 VII Domenica del Tempo Ordinario / C - 

24/02/2019

Fraternità Carmelitana
di Barcellona Pozzo di Gotto

... Gesù propone, a coloro che sono andati lì a cercarlo perché desiderano ascoltare la sua parola, propone questa strada, la strada delle Beatitudini. E adesso continua il Signore ad educarci su come imparare ad abitare questa nostra terra, come vivere il nostro tempo che ci è donato scoprendo quale è il segreto, la modalità. Una cosa che dobbiamo tener presente è che Gesù non sta dicendo soltanto delle parole, Gesù racconta se stesso, ci sta proponendo la sua vita ...
Gesù ci propone quattro imperativi: amate i vostri nemici, fate del bene a quelli che vi odiano, benedite coloro che vi maledicono, pregate per coloro che vi trattano male. E questo lo propone a coloro che hanno intenzione di ascoltarlo ... e siamo coinvolti tutti ... e credo che dovremmo chiederci con verità se siamo disponibili all'ascolto ... il problema è l'ascolto del cuore ...
Io vorrei invitarvi a fare un piccolo esercizio... trascrivere (questo brano) con molta calma, perché ... se vuoi vivere da cristiano non puoi fare a meno di questa pagina ... 
Perché Gesù insiste tanto sull'amore per il nemico? ... L'amore per il nemico per Gesù significa spezzare la catena della violenza ... 
Noi siamo invitati in questo mondo terribile, disonesto, disonesto, competitivo ad essere segno di gratuità, questa è la nostra missione di cristiani ... 

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"Fuori dalle confraternite mafiosi, massoni e condannati" Mons. Corrado Lorefice, arcivescovo di Palermo (testo e video)

"Fuori dalle confraternite 
mafiosi, 
massoni 
e condannati" 
Mons. Corrado Lorefice, 
arcivescovo di Palermo 
(testo e video)



Fuori i malavitosi, i mafiosi e i massoni dalle Confraternite della Chiesa: è il monito dell'arcivescovo di Palermo, Corrado Lorefice, che ha pubblicato un decreto in cui stabilisce che non possono fare parte delle confraternita coloro che si sono macchiati di reati di stampo mafioso, che appartengono ad associazioni segrete contrarie ai valori evangelici, come la massoneria, così pure i condannati "per delitti non colposi con sentenza passata in giudicato". "I confrati che siano interessati da provvedimenti cautelari restrittivi della libertà personale, decadono dalla loro condizione di confrate - si legge nel decreto -, fino all’accertamento giudiziario della loro condizione". La Chiesa di Palermo apprezza e valorizza la realtà delle Confraternite, tuttavia, si legge nella premessa al decreto: "Ciò non toglie come accanto ad esperienze positive e incoraggianti - scrive Lorefice - si collochino anche imbarazzanti e inaccettabili tentativi di fare delle Confraternite centri di una pratica fintamente religiosa per puro esibizionismo e folkrorismo, di esercizio di potere e, perfino, un alibi per persone di dubbia moralità sociale ed ecclesiale". Sui casi di infiltrazioni mafiose, sottolinea: "È infatti intrinsecamente inconciliabile l'agire malavitoso, tanto più che i ranghi di società di stampo mafioso, e l'appartenenza ad una delle tante nostre Confraternite che perseguono i fini apostolici propri della Chiesa". "Il fenomeno, tutt’altro che trascurabile, esige attenta valutazione e severa vigilanza da parte dell’autorità ecclesiastica". Il decreto, entrato in vigore con la sua pubblicazione, stabilisce che chi voglia far parte delle confraternite riconosciute dalla Diocesi, in particolare chi è chiamato ad assumere ruoli di responsabilità (consigli direttivi per esempio) dovrà presentare il certificato generale e il certificato dei carichi pendenti del casellario giudiziale, che attestino una fedina penale pulita. L'arcivescovo ricorda la lettera dei Vescovi di Sicilia, dal titolo “Convertitevi!”, ribadito lo scorso maggio in occasione del venticinquesimo anniversario dell'appello di Giovanni Paolo II, nella Valle dei Templi di Agrigento, dove si riafferma l’inconciliabilità "di chi si affilia alle organizzazioni mafiose, pur continuando a farsi quotidianamente il segno della croce e a frequentare la messa domenicale, oltre che le processioni patronali e le riunioni confraternali, senza però avvertire in tutto ciò alcuna contraddizione". Ancora, nel decreto Lorefice fa riferimento alla visita di Papa Francesco a Palermo, il 15 settembre scorso, in occasione dei 25 anni dall'omicidio di Padre Pino Puglisi, ucciso per mano mafiosa. Nell’omelia pronunciata al Foro Italico, Bergoglio affermava: "Chi è mafioso non vive da cristiano, perché bestemmia con la vita il nome di Dio-amore. Convertitevi al vero Dio di Gesù Cristo, cari fratelli e sorelle! Io dico a voi, mafiosi: se non fate questo, la vostra stessa vita andrà persa e sarà la peggiore delle sconfitte".


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Ecco il decreto integrale firmato lo scorso 25 gennaio, ma noto soltanto il 21.02.2019 

DECRETO DELL’ARCIVESCOVO SULL’APPARTENENZA ALLE CONFRATERNITE

PRESENTAZIONE

La Chiesa di Palermo apprezza e valorizza la realtà delle Confraternite e riconosce in esse una grande opportunità per alimentare la fede del popolo di Dio che si esprime nella pietà popolare, “frutto del Vangelo inculturato”, e pregna di una “sottesa forza attivamente evangelizzatrice” (così come ribadito ultimamente da Papa Francesco nella sua recente Visita Pastorale a Palermo e già prima da San Giovanni Paolo II nell’Esortazione apostolica post-sinodale Christefideles laici).

In questo particolare contesto storico la nostra Arcidiocesi – attraverso il Decreto dell’Arcivescovo che oggi viene pubblicato e del quale si riporta il testo – sente il dovere di intervenire per evitare di criminalizzare indiscriminatamente tutti i membri delle Confraternite e si affida ad alcuni strumenti di accertamento della legalità per esercitare il suo dovere di vigilanza e per tutelare dalle associazioni mafiose e criminali o dalle associazioni segrete, le realtà confraternali, cui è affidato il delicato compito di trasmettere non solo le autentiche tradizioni della nostra pietà popolare ma, ancor più, una testimonianza di vita coerente con il Vangelo di Cristo accolto e annunciato nella vivente Tradizione della Chiesa.

Le Confraternite laicali della nostra Arcidiocesi, sono sempre state oggetto di particolari cure pastorali da parte degli Eminentissimi Arcivescovi della Chiesa palermitana. L’istituzione del “Centro Diocesano per le Confraternite laicali”, voluto dal mio venerato predecessore, il Card. Salvatore Pappalardo, costituisce un evidente segno di quanto questa variegata espressione di vita ecclesiale, capillarmente diffusa in tutto il territorio diocesano, stia a cuore ai Pastori della nostra Chiesa Locale. La stima più volte mostrata anche da me è conferma di quanto, sulla scia di coloro che in questa sede episcopale mi hanno preceduto, anch’io intenda proseguire nell’opera di valorizzazione del mondo confraternale. Riconosco, infatti, in questo ricco patrimonio di fede ereditato dal passato, una realtà ecclesiale capace di costituire ancora oggi un valido contributo per la vita di fede di tanti uomini e donne delle nostre comunità e come espressione di una pietà popolare, ancora in grado di parlare al cuore dell’uomo contemporaneo.

Come sostiene Papa Francesco: «Nella pietà popolare, poiché è frutto del Vangelo inculturato, è sottesa una forza attivamente evangelizzatrice che non possiamo sottovalutare: sarebbe come disconoscere l’opera dello Spirito Santo. Piuttosto, siamo chiamati ad incoraggiarla e a rafforzarla per approfondire il processo di inculturazione che è una realtà mai terminata. Le espressioni della pietà popolare hanno molto da insegnarci e, per chi è in grado di leggerle, sono un luogo teologico a cui dobbiamo prestare attenzione, particolarmente nel momento in cui pensiamo alla nuova evangelizzazione» (EG 126).

Questa singolare e collaudata esperienza aggregativa di matrice ecclesiale si pone accanto ad altre forme associative, nate soprattutto dopo il Concilio Vaticano II e oggi assai diffuse, e ci restituisce la multiforme ricchezza dello Spirito Santo che sempre opera nella Chiesa.

S. Giovanni Paolo II, nell’Esortazione apostolica post-sinodale “Christifideles laici” sulla vocazione e missione dei laici nella Chiesa e nel mondo, così si esprime: «In questi ultimi tempi il fenomeno dell’aggregarsi dei laici tra loro è venuto ad assumere caratteri di particolare varietà e vivacità. Se sempre nella storia della Chiesa l’aggregarsi dei fedeli ha rappresentato in qualche modo una linea costante, come testimoniano sino ad oggi le varie confraternite, i terzi ordini e i diversi sodalizi, esso ha però ricevuto uno speciale impulso nei tempi moderni, che hanno visto il nascere e il diffondersi di molteplici forme aggregative: associazioni, gruppi, comunità, movimenti. Possiamo parlare di una nuova stagione aggregativa dei fedeli laici. […] tanta è la ricchezza e la versatilità delle risorse che lo Spirito alimenta nel tessuto ecclesiale, e tanta è pure la capacità d’iniziativa e la generosità del nostro laicato”» (n. 29).

Ciò non toglie, tuttavia, che accanto ad esperienze positive e incoraggianti si collochino talora anche nella nostra amata Chiesa Palermitana imbarazzanti e inaccettabili tentativi di fare delle Confraternite centri di una pratica fintamente religiosa per puro esibizionismo e folklorismo, di esercizio di potere e, perfino, un alibi per persone di dubbia moralità sociale ed ecclesiale.

Il fenomeno, tutt’altro che trascurabile, esige attenta valutazione e severa vigilanza da parte dell’autorità ecclesiastica. È infatti intrinsecamente inconciliabile l’agire malavitoso – tanto più una militanza attiva tra i ranghi di società di stampo mafioso – e l’appartenenza ad una delle tante nostre Confraternite che perseguono i fini apostolici propri della Chiesa, ossia «rendere partecipi tutti gli uomini della salvezza operata dalla redenzione, e per mezzo di essi ordinare effettivamente il mondo intero a Cristo» (Concilio Vaticano II, Apostolicam actuositatem, 2). Una contraddizione più stridente non è dato poterla immaginare!

Nella Lettera “Convertitevi!” dei Vescovi di Sicilia, in occasione del venticinquesimo anniversario dell’accorato appello di S. Giovanni Paolo II, nella Valle dei Templi di Agrigento, il 9 Maggio 1993, i Presuli siciliani hanno riaffermato con forza l’inconciliabilità «di chi si affilia alle organizzazioni mafiose, pur continuando a farsi quotidianamente il segno della croce e a frequentare la messa domenicale, oltre che le processioni patronali e le riunioni confraternali, senza però avvertire in tutto ciò alcuna contraddizione». «[…] Il grido del Papa – continuano i Vescovi – smascherava e continua a smascherare un vero e proprio peccato, cioè un rifiuto gravemente reiterato nei confronti di Dio e degli esseri umani, che sono a sua immagine e somiglianza». E ancora: «Non possiamo rassegnarci a veder degenerare le varie forme di pietà popolare in espressioni di mero folklore, manovrabile in varie direzioni, anche da parte delle famiglie mafiose di quartiere, in quest’ultimo caso soprattutto per fini di visibilità e di legittimazione sociale. Non possiamo tollerare che le festività di Cristo Gesù, di Maria Madre sua e dei suoi santi degenerino in feste pseudo-religiose, in sagre profane, dove – nella cornice di subdole regie malavitose – all’autentico sentimento credente si sostituiscono l’interesse economico e l’ansia consumistica, e dove non si tributa più onore al Signore ma ai capi della mafia».

Ultimamente una parola di chiaro timbro evangelico ci è giunta da Papa Francesco, durante la visita pastorale alla nostra Chiesa di Palermo, il 15 Settembre 2018. Nell’omelia pronunciata al Foro Italico, in occasione del venticinquesimo anniversario del martirio del Beato Don Giuseppe Puglisi, il Santo Padre affermava: «Agli altri la vita si dà, agli altri la vita si dà, non si toglie. Non si può credere in Dio e odiare il fratello, togliere la vita con l’odio. […] Non si può credere in Dio ed essere mafiosi. Chi è mafioso non vive da cristiano, perché bestemmia con la vita il nome di Dio-amore. Oggi abbiamo bisogno di uomini e di donne di amore, non di uomini e donne di onore; di servizio, non di sopraffazione. […] Convertitevi al vero Dio di Gesù Cristo, cari fratelli e sorelle! Io dico a voi, mafiosi: se non fate questo, la vostra stessa vita andrà persa e sarà la peggiore delle sconfitte».

Pertanto, alla luce delle superiori considerazioni e dei documenti della Conferenza Episcopale Siciliana, in particolare: il n. 12 degli Orientamenti pastorali per le Chiese di Sicilia Nuova evangelizzazione e pastorale, del 3 aprile 1994; il n. 16 del Documento Finché non sorga come stella la sua giustizia, del 15 maggio 1996; il documento Amate la giustizia, voi che governate sulla terra, del 9 ottobre 2012,

DECRETO

che quanti nella nostra Arcidiocesi sono chiamati ad assumere responsabilità nelle Confraternite nella qualità di componenti del Consiglio Direttivo delle medesime o nella qualità di componenti del Consiglio del Centro Diocesano per le Confraternite, hanno l’obbligo di produrre, quale documentazione necessaria, il Certificato generale e il Certificato dei Carichi Pendenti del Casellario Giudiziale rilasciati in data non anteriore a tre mesi, quale documentazione essenziale ad attestare il loro indubbio percorso di testimonianza dei valori evangelici nella vita civile.

Si stabilisce, altresì, che, sempre a far data dal presente Decreto, quanti desiderano far parte di una Confraternita, oltre ai certificati già previsti dallo Statuto Diocesano e dagli Statuti delle singole Confraternite (Certificato di Battesimo e Cresima, di Matrimonio e Stato di Famiglia), dovranno esibire i certificati di cui al comma precedente.

Consapevoli che una “fedina penale pulita” non necessariamente è indice di “vita pulita”, si dà mandato ai Parroci e/o agli Assistenti Spirituali delle Confraternite di accompagnare sempre la richiesta di ammissione ad una Confraternita con una lettera che dia sufficienti garanzie circa la retta intenzione del richiedente e la serietà della sua vita, quale condizione essenziale e imprescindibile per l’ammissione nella Confraternita. Concluso il periodo di Noviziato, previsto per la formazione dei nuovi confrati, ai Parroci e/o agli Assistenti Spirituali delle Confraternite è fatto obbligo di rilasciare un attestato di idoneità del candidato che intenda emettere la “professione” di Confrate. Il resto, in foro interno, è affidato alla coscienza della persona che chiede l’ammissione alla Confraternita, tenuto presente quanto prescritto dallo Statuto Diocesano per le Confraternite.

Infine, con il presente Decreto, stabilisco che nello Statuto Diocesano per le Confraternite e negli Statuti delle Confraternite dell’Arcidiocesi di Palermo siano inserite le seguenti disposizioni: per le ammissioni, «Non possono essere accolti, quali membri della Confraternita, coloro che si sono resi colpevoli di reati disonorevoli o che con il loro comportamento provocano scandalo; coloro che appartengono ad associazioni di stampo mafioso o ad associazioni più o meno segrete contrarie ai valori evangelici – l’Iscrizione alle associazioni massoniche “rimane proibita” dalla Chiesa (Congregazione per la dottrina della Fede, Dichiarazione circa le associazioni massoniche, 26 novembre 1983; cfr. Inconciliabilità tra fede cristiana e massoneria. Riflessioni ad un anno dalla Dichiarazione della Congregazione per la Dottrina della Fede, in L’Osservatore Romano, 23 febbraio 1985); – coloro che hanno avuto sentenza di condanna per delitti non colposi passata in giudicato»; altresì, per la dimissione, «Decade automaticamente dal ruolo di confrate chi si rende colpevole dei reati che sono ostativi all’ammissione». I confrati che siano interessati da provvedimenti cautelari restrittivi della libertà personale, decadono dalla loro condizione di confrate, fino all’accertamento giudiziario della loro condizione.

Il presente Decreto entra in vigore dalla data della sua Pubblicazione.

Palermo, dalla Sede Arcivescovile, 25.01.2019

Festa della Conversione di San Paolo Apostolo

Prot. N. 011/19

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martedì 26 febbraio 2019

Un semplice gesto per non sentirci complici... Con un salvagente manifestiamo la voglia di ritrovare la nostra umanità!!! Al via la campagna “Balconi Salvagente”... Contiamoci per contare!

Un semplice gesto per non sentirci complici... 
Con un salvagente manifestiamo la voglia 
di ritrovare la nostra umanità!!!


Al via la campagna 
“Balconi Salvagente”...
Contiamoci per contare!


I porti europei sono chiusi alle imbarcazioni umanitarie con a bordo migranti che fuggono da guerra e povertà. 

ORA BASTA!

I nostri governanti pare abbiamo smarrito la via dell’umanità: vogliamo ricordargliela noi. Ci opponiamo alla barbarie dei porti europei chiusi ai migranti: questa decisione dei nostri governi non ci rappresenta. 

NON IN NOME MIO.

Nel 2003 la campagna “Pace da tutti i balconi” colorò i balconi delle nostre città coi colori dell'arcobaleno e perfino in Parlamento furono costretti a parlarne. Fu una campagna di successo: ognuno si sentì di non essere da solo contro la guerra e capì di poter fare la differenza se l'azione del singolo era ripresa da tanti. 

Anche oggi mostriamo a tutti che non siamo complici e che vogliamo che l'Europa ritrovi la sua natura accogliente.
La campagna “Balconi Salvagente” vuole richiamare all’impegno civile con piccole azioni concrete, visibili e alla portata di tutti. Cominciamo con un gesto che permette di distinguerci, distingue la nostra famiglia, la nostra comunità locale.

APPENDIAMO AL BALCONE UN SALVAGENTE

perché diventi un barcone di salvataggio per tante persone in fuga da guerra e miseria.




Ascolta Nadia Amaroli, referente della campagna “Balconi salvagente”, ospite di Radio in Blu il 18/02/2019