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sabato 31 ottobre 2015

"L’annuncio del Regno di un Dio nonviolento" di Raniero La Valle

"L’annuncio del Regno di un Dio nonviolento"

 di Raniero La Valle

Discorso a Zugliano del Friuli il 12 settembre 2015 per
 la presentazione del libro: “Chi sono io, Francesco?”






Le novità di papa Bergoglio.
Novità del papato = riforma della Chiesa
Riforma della Chiesa: cambia il suo modo di pensare se stessa e di pensare il mondo. Dunque la cifra diventa quella del cambiamento. Il papa lo dice ai movimenti popolari che incontra in America Latina a Santa Cruz de la Sierra in Bolivia il 9 luglio 2015: una cosa è certa, ci vuole il cambiamento.
Il primo cambiamento riguarda l’immagine stessa di Dio.
Quali sono gli stereotipi del nostro modo di pensare Dio?
Il primo è quello di considerarlo tremendum e fascinans, secondo la teorizzazione fattane da Rudolf Otto all’inizio del Novecento nel libro “Il sacro”.
L’altro stereotipo è quello del Dio vindice, che punisce ed esalta, spietato e misericordioso. Stereotipi veicolati dalla nostra massima cultura: Dante, Inferno Purgatorio Paradiso (tutte visioni antropomorfiche), Michelangelo (Cappella Sistina), il Dio tremendo nel giudizio e grazia per gli eletti Il Dio tremendo, vendicatore, spietato, giudice, si può riassumere nel Dio violento, nella violenza di Dio. Su questa icona di Dio si è costruito l’Occidente a partire dalle tre religioni monoteiste.
Questo Dio non persuade oggi, perché nel nome del Dio violento si sacrifica l’uomo (dalla croce alle teste tagliate dai jihadisti sulla riva) e si distrugge la terra (perché anche la terra patisce violenza ed è la grande esclusa dal vangelo della globalizzazione; come dice la “Laudato sì” la violenza che c’è nel cuore umano si manifesta anche nei sintomi di malattia (nelle ferite) che avvertiamo nel suolo, nell’acqua, nell’aria e negli esseri viventi (n. 2).
Allora due sono i casi: o si ricorre all’allegoria del Dio che si converte (dice la Bibbia: Dio si pentì del male che aveva detto di fare e non lo fece, e Ninive fu salva, Gn. 3, 10) oppure noi lo comprendiamo meglio e di conseguenza annunciamo un Dio diverso. Come ha detto papa Giovanni sul letto di morte: “non è il Vangelo che cambia siamo noi che cominciamo a comprenderlo meglio”.
Il cambiamento operato da Francesco è di annunciare un Dio altro rispetto a quello degli stereotipi umani. Dove lo trova, con quale autorità? In Dio stesso, nella Scrittura. Ma come legge la Scrittura? E’ gesuita, e la legge come Gesù la leggeva nella sinagoga di Nazareth. La sinagoga di Nazareth in cui Gesù leggeva la Scrittura “secondo il suo solito” come dice il Vangelo, è come Santa Marta in cui papa Francesco legge la Scrittura ogni mattina nella messa “secondo il suo solito”.
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L’annuncio del Dio nonviolento
L’annuncio del Dio nonviolento ha permesso al papa di affermare che in nessun caso si può fare la guerra e usare violenza nel nome di Dio, e gli ha permesso di smascherare le cause tutte umane dei genocidi e delle guerre. Esse sono il mettersi dell’uomo al posto di un Dio sbagliato, e pretendere a se stesso sacrifici umani (dunque un peccato di olocausto, come quello di Caino, evocato da papa Francesco nel mausoleo di Yad Vashem a Gerusalemme), il dichiararsi indifferenti alla sorte dei fratelli (a me che importa? (il papa a Redipuglia). Sono forse io il custode di mio fratello: ancora il peccato di Caino, il vero “peccato originale”) e la sete di profitti e di denaro soddisfatta con il commercio delle armi:
La misericordia, in quanto alternativa alla violenza, è l’antidoto alla “terza guerra mondiale” che, secondo il papa, già si sta combattendo “a pezzi”.
Ma è anche l’annuncio di “nuovi cieli e nuove terre”: cioè del regno di Dio (il regno della misericordia, che è il nome di Dio).
La scelta strategica del pontificato di Francesco è pertanto quella di tornare ai nastri di partenza, cioè a Gesù e al suo annuncio che precede la Chiesa e dice a tutti gli uomini che il Regno è vicino. Ciò vuol dire che il contenuto proprio dell’annuncio è il Regno, non la Chiesa. Se dunque il pontificato di papa Francesco si pone, seguendo Gesù, l’obiettivo dell’annuncio e della venuta del regno, vuol dire che la categoria interpretativa del pontificato non è quella della riforma ecclesiastica, non è quella della dottrina sociale, non è neanche solo della profezia, ma è la categoria messianica, cioè la rassicurazione che il regno c’è, viene, ed è vicino.
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"L’annuncio del Regno di un Dio nonviolento" di Raniero La Valle

venerdì 30 ottobre 2015

"Dio ha compassione. Ha compassione per ciascuno di noi .. un buon sacerdote sa commuoversi e impegnarsi nella vita della gente” Papa Francesco - S. Messa Cappella della Casa Santa Marta (testo e video)

"Dio ha compassione. Ha compassione per ciascuno di noi .. 
un buon sacerdote sa commuoversi e impegnarsi nella vita della gente” 
 Papa Francesco

S. Messa 

Cappella della Casa Santa Marta 
Vaticano
30 ottobre 2015




Il perdono di Dio non è una sentenza del tribunale che può mandare assolti «per insufficienza di prove». Nasce invece dalla compassione del Padre per ogni persona. E questa è precisamente la missione di ogni sacerdote, che deve avere la capacità di commuoversi per entrare veramente nella vita della sua gente. Lo ha riaffermato Francesco nella messa celebrata venerdì mattina, 30 ottobre, nella cappella della Casa Santa Marta.

La compassione, ha fatto subito notare il Papa nell’omelia tenuta in lingua spagnola, è «una delle virtù, per così dire, un attributo che Dio ha». E ce lo racconta Luca nel passo evangelico (14, 1-6) proposto dalla liturgia. Dio, ha affermato Francesco, «ha compassione; ha compassione di ognuno di noi; ha compassione dell’umanità e ha mandato suo Figlio per guarirla, per rigenerarla, per ricrearla, per rinnovarla». Per questo, ha proseguito, «è interessante che nella parabola del figliol prodigo, che tutti conosciamo, si dice che quando il padre — immagine di Dio che perdona — vede arrivare suo figlio, prova compassione».

«La compassione di Dio non è sentire pena: le due cose non hanno nulla a che vedere l’una con l’altra», ha messo in guardia il Papa. Difatti, «io posso provare pena per un cagnolino che sta morendo o per una situazione». E «provo pena anche per una persona: mi fa pena, mi dispiace che le stia accadendo questo». Invece «la compassione di Dio è mettersi nel problema, mettersi nella situazione dell’altro, con il suo cuore di Padre». E «per questo ha mandato suo Figlio».

«La compassione di Gesù appare nel Vangelo» ha proseguito Francesco, ricordando che «Gesù curava la gente, però non è un guaritore». Piuttosto Gesù «curava la gente come segno, come segno — oltre a curarla sul serio — della compassione di Dio, per salvare, per rimettere al suo posto nel recinto la pecorella smarrita, le dramme perse dalla donna nel portamonete» ha aggiunto riferendosi alle parabole evangeliche.

«Dio prova compassione» ha rimarcato ancora il Pontefice. E «ci mette il suo cuore di Padre, ci mette il suo cuore per ciascuno di noi». In effetti, «quando Dio perdona, perdona come Padre, non come un officiale giudiziario che legge un incartamento e dice: “Sì, in realtà può essere assolto per insufficienza di prove...”». Dio «ci perdona dal di dentro, perdona perché si è messo nel cuore di quella persona».

Francesco ha quindi ricordato che «quando Gesù deve presentarsi nella sinagoga, a Nazareth, per la prima volta, e gli danno da leggere il libro, gli capita proprio l’annuncio del profeta Isaia: “Io sono stato inviato per portare la lieta novella, per liberare colui che si sente oppresso”». Queste parole significano, ha spiegato, «che Gesù è inviato dal Padre per mettersi in ciascuno di noi, liberandoci dei nostri peccati, dei nostri mali e per portare “la lieta novella”». L’«annuncio di Dio» infatti «è lieto».
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MEDITAZIONE MATTUTINA -  30 ottobre 2015


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"Contribuiremo a favorire una cultura dell’accoglienza, della legalità, della crescita del bene comune, contro ogni forma di potere oppressivo dell’uomo e del creato.." mons. Corrado Lorefice, nuovo vescovo di Palermo

"Contribuiremo a favorire una cultura dell’accoglienza, 
della legalità, della crescita del bene comune, 
contro ogni forma di potere oppressivo dell’uomo e del creato."

 mons. Corrado Lorefice,

nuovo vescovo di Palermo







Messaggio del Vescovo eletto alla Chiesa di Palermo 
Mi rivolgo a voi, cari fratelli e sorelle della Chiesa di Palermo, con il cuore ancora pieno di stupore per l’inattesa nomina a vostro Vescovo. Quando il Nunzio apostolico in Italia, mons. Adriano Bernardini, mi ha convocato a Roma per confidarmi la scelta di Papa Francesco, ho immediatamente avvertito il senso della mia inadeguatezza. Ma fissando il Crocifisso che mi stava di fronte ho pensato subito alle parole di Paolo: «tutto posso in colui che mi dà la forza» (Fil 4, 13). Sostenuto dalla grazia e illuminato dalla Parola del Signore, desidero corrispondere all’opera dello Spirito condividendo tra di voi e con voi un tratto del lungo e ricco cammino di fede, di speranza e di carità della nostra Chiesa di Palermo, convinto che l’edificazione della comunità dei discepoli di Gesù non è frutto di uno sfibrante attivismo, ma dell’azione dello Spirito. Nessuno nella Chiesa è costruttore, ma solo una pietra che Dio pone sulla pietra angolare che è Gesù Cristo (cfr. 1Pt 2, 4-8). Vengo tra voi con il desiderio non di cominciare, ma di proseguire l’ardua ed esaltante giornata di lavoro – già avviata dai miei venerabili predecessori – nella prediletta vigna piantata dal Signore a Palermo. Attendiamo insieme, con pazienza, il frutto promesso a chi ha la ferma volontà di “perseverare sino alla fine” (cfr. Mt 24, 13), attraversando con umiltà e coraggio il vaglio e la purificazione delle inevitabili prove della storia. Portiamo alta insieme, con l’aiuto di Dio, la fiaccola della fede, custodendo l’anelito al compimento del Regno.
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Poiché la condivisione del Vangelo non esclude nessuno, la nostra comunità diocesana promuoverà il dialogo con il mondo della cultura, specialmente con l’Università e con gli altri centri di ricerca e di studio. Prezioso sarà l’apporto della Facoltà Teologica di Sicilia nel mantenere alto il profilo di un confronto serio e arricchente con tutti: con ogni donna e ogni uomo di questa terra che diventa mia, con i fratelli di tutte le confessioni cristiane e di ogni religione. È mia ferma intenzione accogliere tutti, dialogare con tutti. Ovviamente non possiamo ignorare, come comunità diocesana, la drammatica e dolorosa crisi che i nostri tempi stanno attraversando su più fronti. Contribuiremo a favorire una cultura dell’accoglienza, della legalità, della crescita del bene comune, contro ogni forma di potere oppressivo dell’uomo e del creato, insieme ai responsabili delle istituzioni civili e alle autorità militari, nel rispetto delle competenze e degli spazi di azione propri di ciascuno. Come insegna il concilio Vaticano II, nostra guida nelle scelte pastorali, «la missione propria che Cristo ha affidato alla sua Chiesa non è d’ordine politico, economico o sociale: il fine, infatti, che le ha prefisso è d’ordine religioso. Eppure proprio da questa missione religiosa scaturiscono compiti, luce e forze, che possono contribuire a costruire e a consolidare la comunità degli uomini secondo la legge divina» (Gaudium et spes, 42). Nel salutare tutti con affetto, faccio mie le parole di S. Agostino: «nei vostri confronti siamo come pastori, ma rispetto al sommo Pastore siamo delle pecore come voi. A considerare il posto che occupiamo, siamo vostri maestri, ma rispetto a quell’unico Maestro, siamo vostri condiscepoli e frequentiamo la stessa scuola» (Esposizione sul Salmo 126). Mentre vi chiedo un anticipo di comprensione e di indulgenza per i miei limiti personali, affido il mio ministero episcopale alla vostra preghiera e all’intercessione di Maria Santissima, di S. Rosalia, del Beato Pino Puglisi, perché la nostra Chiesa «resa salda nella concordia, ricolma di gioia nella passione del Signore nostro e, irremovibilmente certa della sua risurrezione, goda di ogni dono della misericordia divina» (Ignazio di Antiochia).
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Messaggio del Vescovo eletto alla Chiesa di Palermo  (PDF)

Un parroco è il nuovo vescovo di Palermo
di Massimo Toschi


Don Corrado Lorefice sarà nominato arcivescovo del capoluogo siciliano. Ha studiato e lavorato nella chiesa dei poveri e ha scelto di conoscerla nelle sue piaghe più tristi, visitando le comunità crisitiane in Siria e nel Congo, lì dove il Vangelo è più sofferente e minacciato

La notizia che viene da Palermo è una buona notizia, un buon Vangelo. Come vescovo di Palermo è stato nominato un parroco, don Corrado Lorefice e non un altro vescovo. Un uomo con una statura spirituale e culturale di grande rilievo. Ha studiato la Chiesa dei poveri e viene da una diocesi dell'estremo sud, quella di Noto, dove sono gli oboli di tanti semplici a sostenere la formazione dei suoi presbiteri. Ha studiato l’esperienza del cardinal Lercaro, uno dei coordinatori del Concilio Vaticano II e di don Giuseppe Dossetti. Ha scritto su don Puglisi, che considera in qualche misura come il suo padre spirituale. E su di lui ha pubblicato un libro sulle omelie.

È un uomo che ha un’apertura al mondo, Giorgio La Pira (anche lui nato nella diocesi di Noto) avrebbe detto che gli appartiene “la cultura della mondialità”. Quest’anno è stato in Siria e in Congo, ad Aleppo e a Kinshasa, e chi va oggi ad Aleppo, nelle condizioni terribili in cui vive la città e il Paese, testimonia con la sua scelta che davvero il Vangelo urge, preme, spinge su strade inedite.

Papa Francesco ha fatto questa scelta. Ha scelto un uomo che ogni giorno cerca di mettere al centro della sua vita la forza inerme del Vangelo e l’appello di tutti coloro che soffrono. Da questo punto di vista è qualcosa di inedito per la Chiesa italiana, ed esprime quella cultura della sinodalità di cui il papa ha parlato alla conclusione del Sinodo. Ha affrontato il tema della famiglia affrontando anche un grande discorso sulla Chiesa: la Chiesa dei poveri di spirito. Che non è attenuazione, ma è il perfetto compimento della radicalità del Vangelo.

È anche un mio grande amico, don Corrado. Ho conosciuto la sua comunità di San Pietro a Modica, bella e semplice. Penso che la sorpresa di molti si trasformerà rapidamente in gioia perché, come ha detto il papa, conosce l’odore delle pecore.

Dunque è finito il tempo delle pressioni ecclesiastiche, dei giochi di potere, delle furbizie, della ricerca di consenso, il papa in un attimo con questa nomina ha cancellato queste ombre e questi dubbi. Io penso che sarà uno dei protagonisti del cammino sinodale della Chiesa italiana che tutti attendono da Firenze. Non parole e chiacchiere ma Vangelo, non potere ma ascolto degli umili, non cordate ma cammino comune lungo la strada verso Gerusalemme.

Alle 12 le campane di tutte le chiese della diocesi netina suoneranno a festa per esprimere la gioia dei questa nomina e far risuonare la letizia per chi nella Chiesa sa essere anche testimone credibile di liete notizie
(Fonte: Città Nuova)



mons. Lorefice: “Mia nomina ‘colpa’ di don Pino Puglisi”.
La prima cosa: ascoltare e volere bene
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Servizio TG2000





Mons. Corrado Lorefice: "Nella vigna del Signore si lavora 
ovunque si è chiamati, non cambia niente"

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E' stata fissata per sabato 5 dicembre 2015, la data della sua Consacrazione Episcopale, che avrà luogo nella Cattedrale di Palermo. In un'unica celebrazione, Mons. Lorefice sarà dunque consacrato Vescovo e inizierà ufficialmente il suo ministero nella Chiesa che ha generato alla fede il Beato don Pino Puglisi, la cui memoria è molto cara a don Corrado stesso.

Leggi anche:
- Il nuovo arcivescovo di Palermo Lorefice: capace di dialogo, vicino ai giovani

Qualche mese fa, per Città Nuova, il parroco di Modica, ora nominato arcivescovo di Palermo, ha raccontato il suo incontro con le comunità cristiane di Damasco: «nelle persone abbracciate e nelle mani strette ho incontrato una Chiesa viva, che non resiste solamente, ma che testimonia con audacia il Signore crocifisso e risorto». 
Per rileggere il racconto del viaggio di don Corrado clicca qui.

“La via” dei cristiani di fronte al potere. Omaggio a Silvano Fausti SJ di Giuseppe TROTTA SJ

“La via” dei cristiani di fronte al potere. 
Omaggio a Silvano Fausti SJ
di Giuseppe TROTTA SJ 


Silvano Fausti, gesuita della comunità di Villapizzone a Milano, è morto lo scorso 24 giugno. Per decenni ha annunciato e fatto scoprire la Parola di Dio attraverso le sue lectio e i suoi libri. Lo ricordiamo con questo testo, che si ispira al lavoro comune di preparazione degli incontri sugli Atti degli apostoli, tenutisi nella chiesa di San Fedele dal 2013 al 2015. In queste pagine ritroviamo un tema ricorrente nelle meditazioni di Silvano: il rapporto fra potere religioso, economico e politico alla luce delle vicende delle Chiese delle origini. 


Nella sua ricostruzione dello sviluppo delle prime comunità cristiane, l’evangelista Luca dedica all’opera missionaria di Paolo gran parte degli Atti degli apostoli. Le fonti – come gli appunti di viaggio lasciati da qualcuno dei compagni dell’Apostolo delle genti – sono a volte rielaborate con intento apologetico, per accreditare il cristianesimo – chiamato “la via” dagli stessi cristiani – agli occhi dei romani e difenderlo dalle accuse di pagani ed ebrei. Infatti se le relazioni interne alle comunità sono descritte in termini di profonda comunione e condivisione, smussando i contrasti che pur non mancarono, quelle con gli esterni sono spesso presentate come conflittuali, arrivando fino alla persecuzione per motivi religiosi, economici o politici. Questi conflitti sono sovente risolti grazie all’intervento dei funzionari dell’impero romano, chiamati ad arbitrare le contese. 

Un episodio – la rivolta degli argentieri a Efeso – illustra bene le tensioni tra i cristiani e gli altri abitanti dell’impero romano.

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Anche se Paolo sarà ingiustamente detenuto per molti anni a causa dell’ignavia dei governatori della Giudea, Felice e Festo (cfr Atti 23-26), più volte Luca ci mostra l’intervento risolutivo dell’autorità romana a difesa dell’Apostolo nelle dispute che lo coinvolsero. A Efeso il comportamento del cancelliere è esemplare: non prende parte per alcuno, ma fa rispettare la legge, imponendo che ci sia un regolare arbitrato fra le parti e soprattutto prevenendo l’uso della violenza, perché pace e giustizia sussistono solo insieme. E questo anche contro gli interessi economici, perché chi governava avrebbe potuto favorire gli artigiani, visto il profitto e il lustro che il culto di Artemide procurava alla città. 

I primi cristiani, di cui Paolo è l’esempio, non chiedono altro all’autorità politica: che garantisca pace e giustizia imponendo a tutti il rispetto della legge. Come prende le distanze da un certo sistema economico, così “la via” si mantiene anche indipendente dal potere politico, per non compromettersi e non perdere la libertà di parola essenziale all’annuncio del Vangelo (cfr TROTTA G., «Parresia», in Aggiornamenti Sociali 06-07 [2015] 516-519), ma soprattutto perché non ne ha bisogno, si diffonde per virtù propria. 

Pur potendo contare sull’appoggio di funzionari imperiali amici, Paolo non ne approfitta per far valere le proprie ragioni, ma evita di alimentare il conflitto, seguendo il loro consiglio di non affrontare pubblicamente gli avversari. Se Paolo avesse fatto lobbying per far prevalere la propria posizione, avrebbe minato la sincerità e la gratuità con cui annunciava il Vangelo, utilizzando mezzi inopportuni. Infatti, la bontà del fine perseguito – in questo caso far prevalere la verità – non può avallare il ricorso a qualsiasi mezzo. Il Concilio Vaticano II era consapevole di questo quando scriveva: «la Chiesa stessa si serve di strumenti temporali nella misura in cui la propria missione lo richiede. Tuttavia essa non pone la sua speranza nei privilegi offertile dall’autorità civile. Anzi, essa rinunzierà all’esercizio di certi diritti legittimamente acquisiti, ove constatasse che il loro uso può far dubitare della sincerità della sua testimonianza o nuove circostanze esigessero altre disposizioni» (CONCILIO VATICANO II, costituzione pastorale Gaudium et spes, 1965, n. 76).

Comunicare il Vangelo 
Quanto accaduto a Efeso mostra che la prima attività politica dei cristiani è stata l’annuncio stesso del Vangelo e delle sue conseguenze sul piano esistenziale, per le scelte personali e collettive. La condotta di Paolo e degli altri cristiani mette in questione l’intreccio fra religione, economia e politica, smascherando una commistione sempre perniciosa, in ogni luogo ed epoca. Anche i cristiani non possono illudersi di evangelizzare, quando, in nome di una comune appartenenza ecclesiale, esercitano una pressione indebita per giungere alla promulgazione di leggi o gestiscono fondi e opere pubbliche a proprio vantaggio con una logica clientelare. Al contrario stanno solo confezionando oggetti di culto per garantirsi il proprio benessere. 

Questo rischio non è però confinato solo alle dimensioni economiche e politiche. Se il Pane e la Parola da spezzare e condividere sono i primi sacramenti affidati alla Chiesa, la vicenda di Efeso interroga la nostra pastorale sacramentale. Il modo in cui amministriamo i sacramenti potrebbe farne una fonte di guadagno o una specie di pratica magica, che resta esterna ed estranea alla vita di chi li riceve, una specie di prezzo da pagare alla Chiesa per ottenere la certificazione della propria fede, senza una reale comunicazione della grazia. A questo proposito, il documento preparatorio del Sinodo sulla famiglia, sollecitando un rinnovamento dei percorsi catechistici, afferma: «La comunità cristiana rinunci a essere un’agenzia di servizi, per diventare invece il luogo in cui le famiglie nascono, si incontrano e si confrontano insieme, camminando nella fede e condividendo percorsi di crescita e di reciproco scambio» (cfr Instrumentum laboris, 23 giugno 2015, n. 53).

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giovedì 29 ottobre 2015

"Dio non può non amare! E questa è la nostra sicurezza." Papa Francesco - S. Messa Cappella della Casa Santa Marta (testo e video)

"Dio non può non amare! 
E questa è la nostra sicurezza."  
Papa Francesco

S. Messa 

Cappella della Casa Santa Marta 
Vaticano
29 ottobre 2015





Dio non può non amare! E questa è la nostra sicurezza. Io posso rifiutare quell’amore, posso rifiutare come ha rifiutato il buon ladrone, fino alla fine della sua vita. Ma lì lo aspettava quell’amore. Il più cattivo, il più bestemmiatore è amato da Dio con una tenerezza di padre, di papà. E come dice Paolo, come dice il Vangelo, come dice Gesù: ‘Come una chioccia con i pulcini’. E Dio il Potente, il Creatore può fare tutto: Dio piange! In questo pianto di Gesù su Gerusalemme, in quelle lacrime, è tutto l’amore di Dio. Dio piange per me, quando io mi allontano; Dio piange per ognuno di noi; Dio piange per quelli malvagi, che fanno tante cose brutte, tanto male all’umanità… Aspetta, non condanna, piange. Perché? Perché ama!”

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MEDITAZIONE MATTUTINA - 29 ottobre 2015


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La memoria viva della terra di Luigino Bruni


Un uomo di nome Giobbe/6 - 
Si fa giustizia quando 
non si "ricopre" la sofferenza dei giusti



La memoria viva della terra
di Luigino Bruni




"Laudato si’, mi Signore, per sora nostra madre terra. Laudato si’ mi Signore per sora nostra morte corporale" (San Francesco, Il cantico delle creature)

La colpa e il debito sono grandi temi della vita di tutti. In tedesco sono quasi la stessa parola: schuld e schuldig. Nasciamo innocenti, e possiamo restarci tutta la vita. Come Giobbe. La morte di ogni bambino è morte innocente, ma anche molte morti di vecchi sono altrettanto innocenti. E Dio, diversamente dagli idoli, deve essere il primo ad ‘alzare la sua mano’ in nostra difesa, a credere nella nostra innocenza contro tutte le accuse dei nostri amici, delle religioni, delle teologie. Le prigioni continuano ad essere piene di schiavi accusati di debiti inesistenti, e i carcerieri ad arricchirsi trafficando con le loro vittime innocenti anelanti liberazioni. Dopo il primo ciclo di dialoghi tra Giobbe e i suoi tre ‘amici’, entriamo ora in un nuovo atto del libro, quando ciascun amico a turno riprende la parola per ripetere, esasperandole, le proprie critiche, accuse, teorie, prediche. E Giobbe, al centro della scena sul mucchio di letame, continua a fare domande più grandi, ad attendere risposte diverse
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“Terra il mio sangue non ricoprire, il mio grido non abbia mai fine” (16,18). Nel momento in cui Giobbe sente certa la sconfitta e la morte, abbassa gli occhi, guarda la terra e la chiama per nome. Schiacciato e fracassato, impara a pregare la terra. Questa preghiera - che è l’opposto dei culti fuoristagione alla dea madre - è il canto del terrestre, dell’adam che gettato col muso sulla polvere riesce a parlare alla terra (adamah), a vederla e sentirla diversamente, come un’amica leale. E chiama sorelle le marmegge e fratelli i vermi che si nutriranno del suo corpo, abitanti, come lui, della stessa terra. Ci vogliono le stimmate per sentire e chiamare veramente sorelle la terra e la morte. La terra ha ascoltato la preghiera di Giobbe. Non ha ricoperto il sangue di molti giusti, e continua a conservare la memoria del grido di Giobbe e dei suoi fratelli. Ogni persona, ogni comunità, ogni cultura ha i suoi luoghi che continuano il grido di Giobbe e degli innocenti. Le steli, i monumenti, la stanza del figlio, molta poesia ed arte che custodiscono le grida dell’anima - anche se troppo sangue spirituale viene disperso, ricoperto e assorbito dalla terra, per mancanza di poeti e di artisti, o perché troppo segreto e grande per essere visto da qualcuno. Questi luoghi li conosciamo e li riconosciamo, e ringraziamo la terra e i suoi abitanti per non averli ricoperti, per aver consentito al canto-grido di Giobbe di non spegnersi nella gola del mondo. Alla terra va chiesto, va supplicato, di non ricoprire il sangue dei giusti, perché la vita vorrebbe e dovrebbe ricoprirlo. L’amore umano chiede alla terra di dimenticare, seppellendolo, il grande dolore – e Giobbe lo dissotterra per un amore più vero. La terra non assorbì il sangue di Abele, quando un fratello ‘alzò la mano’ non per custodire, ma per uccidere, e l’odore di quel giusto giunse fino a Dio (Genesi, cap. 4). Giobbe, un altro giusto, chiede alla terra di non assorbire il suo sangue, perché vuole che il suo odore giunga fino a noi. Il suo grido vivo ci chiede di diventare garanti, responsabili e solidali con le tante vittime innocenti. Sapremo alzare la nostra mano per salvarle? 

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mercoledì 28 ottobre 2015

Siamo fratelli! Papa Francesco Udienza GENERALE INTERRELIGIOSA IN OCCASIONE DEL 50° ANNIVERSARIO DELLA PROMULGAZIONE DELLA DICHIARAZIONE CONCILIARE "NOSTRA AETATE"


Siamo fratelli! 
Il rispetto reciproco è condizione e, 
nello stesso tempo,
 fine del dialogo interreligioso ..

PAPA FRANCESCO


UDIENZA GENERALE INTERRELIGIOSA

IN OCCASIONE DEL 50° ANNIVERSARIO  DELLA PROMULGAZIONE DELLA
 DICHIARAZIONE CONCILIARE  "NOSTRA AETATE"
Piazza San Pietro -Mercoledì, 28 ottobre 2015

Cari fratelli e sorelle, buongiorno!

Nelle Udienze Generali ci sono spesso persone o gruppi appartenenti ad altre religioni; ma oggi questa presenza è del tutto particolare, per ricordare insieme il 50° anniversario della Dichiarazione del Concilio Vaticano II Nostra ætate sui rapporti della Chiesa Cattolica con le religioni non cristiane. Questo tema stava fortemente a cuore al beato Papa Paolo VI, che già nella festa di Pentecoste dell’anno precedente la fine del Concilio, aveva istituito il Segretariato per i non cristiani, oggi Pontificio Consiglio per il Dialogo Interreligioso. Esprimo perciò la mia gratitudine e il mio caloroso benvenuto a persone e gruppi di diverse religioni, che oggi hanno voluto essere presenti, specialmente a quanti sono venuti da lontano.

Il Concilio Vaticano II è stato un tempo straordinario di riflessione, dialogo e preghiera per rinnovare lo sguardo della Chiesa Cattolica su se stessa e sul mondo. Una lettura dei segni dei tempi in vista di un aggiornamento orientato da una duplice fedeltà: fedeltà alla tradizione ecclesiale e fedeltà alla storia degli uomini e delle donne del nostro tempo. Infatti Dio, che si è rivelato nella creazione e nella storia, che ha parlato per mezzo dei profeti e compiutamente nel suo Figlio fatto uomo (cfr Eb 1,1), si rivolge al cuore ed allo spirito di ogni essere umano che cerca la verità e le vie per praticarla.

Il messaggio della Dichiarazione Nostra ætate è sempre attuale. Ne richiamo brevemente alcuni punti: 
- la crescente interdipendenza dei popoli (cfr n. 1); 
- la ricerca umana di un senso della vita, della sofferenza, della morte, interrogativi che sempre accompagnano il nostro cammino (cfr n. 1);
- la comune origine e il comune destino dell’umanità (cfr n. 1); 
- l’unicità della famiglia umana (cfr n. 1); 
- le religioni come ricerca di Dio o dell’Assoluto, all’interno delle varie etnie e culture (cfr n. 1); 
- lo sguardo benevolo e attento della Chiesa sulle religioni: essa non rigetta niente di ciò che in esse vi è di bello e di vero (cfr n. 2); 
- la Chiesa guarda con stima i credenti di tutte le religioni, apprezzando il loro impegno spirituale e morale (cfr n. 3); 
- la Chiesa, aperta al dialogo con tutti, è nello stesso tempo fedele alle verità in cui crede, a cominciare da quella che la salvezza offerta a tutti ha la sua origine in Gesù, unico salvatore, e che lo Spirito Santo è all’opera, quale fonte di pace e amore.
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Leggi il testo integrale:
UDIENZA GENERALE INTERRELIGIOSA - 28 ottobre 2015


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La catechesi integrale di Papa Francesco


Spesso mi arriva una rosa - · ​Intervista di Papa Francesco a «Paris Match»

Alla fine anche la ‘tiepida’ Francia ha ceduto all’effetto Francesco. Il Papa argentino è infatti il protagonista della copertina di questa settimana della nota rivista Paris Match, solitamente riservata a celebrità sportive o dello spettacolo. Il magazine d’Oltralpe ha dedicato un’ampia intervista al Papa, raccolta dalla vaticanista Caroline Pigozzi, dove ricorrono temi come povertà, dignità umana, critiche al capitalismo, ambiente. Insomma, nulla di nuovo (si pensava a qualche rivelazione sull’eventuale viaggio in Francia, tanto desiderato dai cattolici del Paese), né di ‘scandaloso’ (neanche un cenno alla questione dell’ambasciatore gay Laurent Stefanini o all’outing di mons. Charamsa), ma solo le tematiche a lui più care. 

Spiccano, tuttavia, le note di colore personali che il Papa argentino rivela in ogni colloquio diretto con la stampa. Ad esempio, la formazione gesuitica che ringrazia per avergli regalato "il discernimento caro a sant’Ignazio, la quotidiana ricerca per meglio conoscere il Signore e seguirlo sempre più da vicino". Oppure la devozione a Santa Teresa di Lisieux, "una delle sante che più ci parla della grazia di Dio e di come Dio si prenda cura di noi", a cui si affida ancora oggi nei momenti difficoltà, e quella per i suoi genitori Luis e Zelìa, che canonizzerà il prossimo 18 ottobre, “una coppia di evangelizzatori che hanno testimoniato la bellezza della fede in Gesù. Tra le mura domestiche e fuori”. 

Spiccano anche le dichiarazioni del tipo: "Sono sempre stato un prete di strada" e “anche adesso mi piacerebbe passeggiare per le strade di Roma, città molto bella". Magari vestito "semplicemente come un prete?", domanda la giornalista. "Non ho abbandonato del tutto il clergyman nero sotto la tonaca bianca!", risponde Bergoglio, e ribadisce ancora una volta il suo desiderio di “mangiare una buona pizza con gli amici”: “So che non è facile, anzi praticamente impossibile. Quello che non mi manca mai è il contatto con la gente. Ne incontro tantissima, molta di più rispetto a quando ero a Buenos Aires, e questo mi dà molta gioia! Quando abbraccio le persone che incontro, so che è Gesù a tenermi tra le sue braccia".
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Perché lei, che è argentino, ha una tale devozione verso una delle nostre sante più popolari, Teresa di Lisieux?
È una delle sante che più ci parla della grazia di Dio e di come Dio si prenda cura di noi, ci prenda per mano e ci permetta di scalare agilmente la montagna della vita se solo ci abbandoniamo totalmente a lui, ci lasciamo “trasportare” da lui. La piccola Teresa aveva compreso, nella sua vita, che è l’amore, l’amore riconciliatore di Gesù, a muovere le membra della sua Chiesa. Questo mi insegna Teresa di Lisieux. Mi piacciono anche le sue parole contro lo «spirito di curiosità» e le chiacchiere. A lei, che si è lasciata semplicemente sostenere e trasportare dalla mano del Signore, chiedo spesso di prendere nelle sue mani un problema che ho di fronte, una questione che non so come andrà a finire, un viaggio che devo affrontare. E le chiedo, se accetta di custodirlo e di farsene carico, di inviarmi come segno una rosa. Molte volte mi capita poi di riceverne una...






LA CHIESA È NUOVA di Raniero La Valle

LA CHIESA È NUOVA
di Raniero La Valle

Il Sinodo dei vescovi si conclude 
aprendo alla misericordia
e prefigurando la conversione del papato 
in una chiesa sinodale





Sorpresa! Per quella novità che viene dallo Spirito, tanto cara a papa Francesco, o forse per le astuzie della storia, la vera questione che ha dominato il Sinodo non è stata la famiglia ma la riforma del papato, e perciò della Chiesa. E mentre sul primo tema la minoranza immobilista si è presentata ben agguerrita e in rimonta rispetto alla precedente fase sinodale, sulla riapertura della questione del primato e della figura della Chiesa si è trovata spiazzata, in conflitto con se stessa e soccombente.
Il risultato è stato straordinario sia sotto il primo che sotto il secondo profilo. Quanto al primo, la famiglia e la coppia umana, assunte nella molteplicità delle loro situazioni, non sono state destinatarie di lusinghe e condanne, com’era fino ad ora, ma solo di misericordia: i divorziati risposati non sono più considerati pubblici peccatori, ma «sono battezzati, sono fratelli e sorelle, lo Spirito Santo riversa in loro doni e carismi per il bene di tutti» e si vedrà come «possano essere superate» le diverse «forme di esclusione» di cui oggi sono gravati, in ambito liturgico e in ogni altra dimensione ecclesiale; non è vero, come dicono gli antipapa, che la comunione non è stata nemmeno nominata, lo è stata invece nella forma della negazione della negazione: «non sono scomunicati», dunque avranno l’eucarestia. E quanto alla pillola anticoncezionale, l’Humanae vitae di Paolo VI viene citata in tutte le sue sagge motivazioni ma la sua proibizione dei mezzi ««non naturali»per la paternità responsabile viene lasciata cadere, e di fatto abrogata. Come aveva scritto papa Francesco nel suo programma Evangelii Gaudium, «ci sono norme o precetti ecclesiali che possono essere stati mol­to efficaci in altre epoche, ma che non hanno più la stessa forza educativa come canali di vita. San Tommaso d’Aquino sottolineava che i precetti dati da Cristo e dagli Apostoli al popolo di Dio “sono pochissimi”. Citando sant’Agostino, no­tava che i precetti aggiunti dalla Chiesa posterior­mente si devono esigere con moderazione “per non appesantire la vita ai fedeli” e trasformare la nostra religione in una schiavitù, quando “la misericordia di Dio ha voluto che fosse libera”». Perciò il papa ricordava «ai sacerdoti che il confessionale non dev’essere una sala di tortura bensì il luo­go della misericordia del Signore che ci stimola a fare il bene possibile» (EG n. 43, 44).
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Cominciando da Santa Marta
In effetti fin dall’inizio il modo di essere e di fare il papa di Francesco è stato una riforma del papato: il presentarsi come vescovo di Roma, l’inchinarsi al popolo, l’abitare a Santa Marta, la lettura e il commento quotidiano del Vangelo, il mettersi davanti, in mezzo e dietro al gregge perché questi ha il fiuto per indicare nuove strade, l’ascolto dei vescovi e il farne risuonare anche le voci più periferiche in tutta la Chiesa, la riforma della Curia, sognata come una piccola Chiesa, ma vista come afflitta da quindici piaghe, l’ecumenismo secondo la logica non della sfera ma del poliedro, dove ogni parte è unita ma in rapporto diverso con tutte le altre parti, la parola data ai discepoli, i poveri riconosciuti come i primi evangelizzatori, le porte delle celle dei carcerati assurte a porte sante giubilari, i peccatori, gli infortunati e gli scarti della vita tutti perdonati e oggetto di misericordia.


La sfida del Sinodo dei vescovi
Ed è così che si è arrivati al Sinodo dei vescovi che da alcuni è stato visto come una sfida tra il papa e il movimento conservatore; un confronto che quest’ultimo ha vissuto come se si trattasse di una sfida sulla fede (“Permanere nella verità di Cristo” avevano scritto polemicamente cinque cardinali), e come se la fede stesse in una Chiesa che chiuda le porte, una Chiesa che usi l’eucarestia come una mannaia, che metta sulla cattedra di Mosè quelli che «usano il Vangelo come pietre morte da scagliare contro gli altri» e infine una Chiesa che neghi la comunione ai cristiani risposati.
Il gruppo conservatore ha perso la sua partita perché si è trovato coinvolto in un momento di vera sinodalità, che ha rivelato la ricchezza e la fecondità del metodo collegiale di governo, in una Chiesa già nuova, e perché si è trovato di fronte lo straordinario carisma del papa che ha ottenuto dal Sinodo soluzioni di misericordia e nello stesso tempo ha dato nuovo vigore e nuova credibilità al ministero petrino, che i tradizionalisti non potevano cercare di distruggere senza tradire se stessi e le loro stesse dottrine.
Così le conclusioni del Sinodo, sia nel merito che nel metodo, sono state profondamente sapienziali e innovative, facendo già vedere l’attuazione di quello che papa Francesco aveva detto il 17 ottobre nella circostanza solenne dei cinquant’anni dall’istituzione del Sinodo.


Una Chiesa sinodale per il terzo millennio
In quel discorso il papa aveva di nuovo rivendicato la continuità col Concilio, e l’aveva identificata nella sinodalità come caratteristica della Chiesa, non per le prossime settimane, ma per il terzo millennio. E come aveva fatto il Concilio nella Lumen Gentium, il papa è partito dal popolo di Dio, dalla totalità dei battezzati, che non può sbagliarsi nel credere, un popolo che non è solo discepolo, ma i cui membri, come discepoli, non sono semplicemente ascoltatori della Parola, ma evangelizzatori, suggeritori e continuatori della fede. Sicché, ha detto il papa, ci sono tre livelli della vita della Chiesa di cui il Sinodo doveva mettersi all’ascolto: l’ascolto del Popolo «secondo un principio caro alla Chiesa del primo millennio: “Quod omnes tangit ab omnibus tractari debet”» (traduzione ad uso dei nostri neo-costituenti: “Quello che riguarda tutti deve essere trattato da tutti”); l’ascolto dei Pastori, ossia dei vescovi che «attraverso i Padri sinodali agiscono come autentici custodi, interpreti e testimoni della fede di tutta la Chiesa»; l’«ascolto del vescovo di Roma, chiamato a pronunciarsi come “Pastore e Dottore di tutti i cristiani” (Vaticano I), “garante dell’ubbidienza e della conformità della Chiesa alla volontà di Dio, al Vangelo di Cristo e alla Tradizione della Chiesa” (Francesco, alla conclusione del Sinodo dell’anno scorso, 18 ottobre 2014)».
Il papa descriveva poi la sinodalità «come dimensione costitutiva della Chiesa», che al suo primo livello si realizza nella Chiese particolari, dove è decisivo il funzionamento degli organismi di partecipazione sia dei preti che dei fedeli (organismi di comunione), al secondo livello si realizza nelle Conferenze episcopali come istanze intermedie della collegialità («non è opportuno che il papa sostituisca gli episcopati locali nel discernimento di tutte le problematiche che si prospettano nei loro territori», per cui è necessario «procedere in una salutare “decentralizzazione”»; al terzo livello si realizza nella Chiesa universale, dove il Sinodo dei vescovi, come voleva il Concilio, «diventa espressione della collegialità episcopale all’interno di una Chiesa tutta sinodale».
Una Chiesa sinodale è per sua natura votata all’ecumenismo nelle relazioni con le altre Chiese e, ha detto Francesco, «sono persuaso che, in una Chiesa sinodale, anche l’esercizio del primato petrino potrà ricevere maggiore luce», col papa battezzato tra i battezzati e vescovo tra i vescovi, «chiamato nel contempo - come successore dell’apostolo Pietro – a guidare la Chiesa di Roma che presiede nell’amore tutte le Chiese». Perciò, alla conclusione del Sinodo, e questo è appunto uno dei suoi frutti più preziosi, papa Francesco ha ribadito «la necessità e l’urgenza di pensare a “una conversione del papato”», per la costruzione di quella Chiesa sinodale che ci fa anche coltivare «il sogno» di una società civile giusta e fraterna e di «un mondo più bello e più degno dell’uomo per le generazioni che verranno dopo di noi».

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LA CHIESA È NUOVA di Raniero La Valle

martedì 27 ottobre 2015

Omelia p. Alberto Neglia (VIDEO) - XXX Domenica del T.O. (B) - 25.10.2015

Omelia p. Alberto Neglia (VIDEO)

XXX Domenica del T.O. (B) 


25.10.2015


Fraternità Carmelitana
di Barcellona Pozzo di Gotto



".. Gesù entra a Gerico, Gerico si trova in una depressione a circa  300 m. sotto il livello del mare, quindi simbolicamente potremmo dire che Gesù per venirci ad abbracciare, per darci il suo sorriso, per metterci nel cuore la speranza, entra nelle nostre depressioni. Spesso ognuno di noi si porta dentro angoscia, fatica, dolore, non vede futuro nella sua vita.. Gesù entra, viene, si avvicina e ci raccoglie li dove siamo non ci guarda dall'alto si mette quasi al di sotto di noi, ci guarda dal basso, con suo sguardo e ci ama. Non ci rimprovera. Se lo ascoltiamo, Lui, piano piano, ci educa a capire il senso della vita, la gioia della vita ..."


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Sbagliato aver paura del mondo di Enzo Bianchi

Una seduta del sinodo

Sbagliato aver paura del mondo
di Enzo Bianchi


Con questo sinodo papa Francesco ha saputo chiedere e iniziare a imprimere alla chiesa cattolica un volto sinodale, una modalità di essere comunità dei discepoli del Signore che si è rivelata capace di creare concordia e unità. Questo dato è ancor più importante rispetto alle stesse conclusioni sul tema della “famiglia oggi” cui i vescovi sono giunti con un consenso di ampiezza forse da molti inattesa.


Dobbiamo riconoscere l’esattezza dell’immagine usata da Francesco nel discorso per i cinquant’anni dell’istituzione del sinodo dei vescovi: la piramide ecclesiale va capovolta perché in alto sta la base, il popolo di Dio, e sotto sta il vertice, papa e vescovi, servitori della comunione. Questa è la visione dell’ordinamento della chiesa secondo il vangelo: chi è primo si faccia ultimo, chi è grande si faccia piccolo, chi presiede si metta al servizio di tutti. Questo non può essere solo un augurio e papa Francesco ha iniziato a metterlo in pratica facendo partecipare al sinodo, attraverso un ascolto attento e puntuale – almeno là dove le chiese locali hanno accolto l’invito – dei cristiani quotidiani, quelli che vivono la sequela di Gesù nella compagnia degli uomini e senza esenzioni. Anche la “collegialità” – questa “categoria” che a volte rischia di essere ridotta a inquilini di piano di una piramide a ziggurat, a una corporazione – è stata messa nella sinodalità al riparo da derive autarchiche e autosufficienti. Popolo di Dio, pastori, vescovi e papa “camminano insieme”, attingendo a una profonda comunione donata dal Signore stesso ma esercitata dalla responsabilità delle diverse componenti ecclesiali.




Il ricordato discorso di papa Francesco all’assemblea sinodale costituisce una precisazione dottrinale puntuale, che non permetterà più letture minimaliste e riduttive, soltanto “collegiali” del sinodo. Non solo il sinodo è valorizzato da Francesco, ma è indicato come luogo di ascolto, di confronto reciproco e di formazione di un consenso, secondo il principio caro alla chiesa del primo millennio (ma da secoli mai più ascoltato dalla bocca di un papa): “ciò che riguarda tutti, da tutti deve essere discusso”. Però, si noti bene, non secondo principi mutuati dall’assetto politico democratico, ma secondo un’economia cristiana per la quale la comunione si costruisce non con criteri di maggioranza, ma in un ordine che prevede il peso dei diversi carismi e delle diverse funzioni all’interno della chiesa. La sinodalità non è opzionale, ha ricordato Francesco, ma è “costituzione” della chiesa, secondo l’intenzione dei padri, come Giovanni Crisostomo: “Chiesa e sinodo sono sinonimi”.
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Nel proseguirlo, tuttavia, non possiamo dimenticare come permanga molta paura nella chiesa e in alcuni vescovi e padri sinodali che, incontrati uno per uno, sono più audaci e più pronti all’ascolto, ma quando si trovano insieme danno talora l’impressione di aver paura l’uno dell’altro. Perché tanta paura? Non c’è forse la promessa di Cristo riguardo allo Spirito santo che accompagna la chiesa e non la abbandona? Perché aver paura del mondo che, secondo le parole di Gesù, da lui è stato vinto? Perché aver paura dell’ascolto pubblico e libero di pensieri che non sono condivisi e, a volte, profondamente diversi e in opposizione? E se il papa ha richiesto libertà e parresia perché esser timidi e a volte nascondersi in interventi fumosi o non usare nel parlare un “sì” se è sì, e un “no” se è no, come ha raccomandato Gesù? Sono probabilmente queste paure che portano finanche qualche porporato a dichiarazioni che difettano di buon senso, equilibrio e stile, oltre che di “sensus ecclesiae”? Ma ha detto bene il segretario di stato cardinal Parolin: “Il sinodo è rimasto al riparo dai veleni e dalle menzogne … e in esso è progressivamente maturata una sensibilità pastorale condivisa”.

Comunque il cammino sinodale sul tema della famiglia è stato fecondo e fruttuoso, anche se vi sarà chi riterrà carenti alcune risposte che il popolo di Dio attendeva e che potevano essere significative anche per i non cristiani. Siamo però convinti, con Rilke, che “le domande sono più decisive delle risposte” e che queste ultime non devono mai dimenticare che il luogo ultimo e decisivo per il discernimento è la coscienza del credente: una coscienza non autarchica e solipsistica, ma una coscienza illuminata e liberata dal soggettivismo grazie alla presenza della chiesa e dei suoi pastori muniti di capacità di discernimento. 
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Non illudiamoci, il cammino intrapreso dalla chiesa guidata da papa Francesco è lungo e faticoso e sarà anche contraddetto: l’esercizio della sinodalità, infatti, non è facile, non solo a causa dell’autorità che a volte non la vuole, ma anche a causa di una larga parte della stessa comunità dei fedeli che preferisce non intervenire, non far ascoltare con responsabilità la propria voce, crogiolandosi nell’inerzia. L’esercizio della libertà e quello della responsabilità restano gravosi: lo sperimentiamo bene noi monaci, nonostante le nostre millenarie strutture di governo sinodale.

Ora il sinodo ha consegnato al papa una relazione permeata di misericordia, approvata in tutte le sue parti – anche quelle riguardanti le situazioni matrimoniali più complesse – con la maggioranza qualificata dei due terzi. Questo, come ha affermato papa Francesco nel discorso conclusivo, “certamente non significa aver concluso tutti i temi inerenti la famiglia, ma aver cercato di illuminarli con la luce del Vangelo, della tradizione e della storia bimillenaria della Chiesa, infondendo in essi la gioia della speranza senza cadere nella facile ripetizione di ciò che è indiscutibile o già detto”. Competerà al successore di Pietro operare un discernimento e poi rivolgersi alla chiesa con un rinnovato sguardo sulla famiglia oggi. Noi sappiamo che questo sguardo sarà innanzitutto carico di misericordia, di questo sentimento di amore, di tenerezza, di perdono, di compassione al quale tutta la chiesa è chiamata nell’anno giubilare che sta per aprirsi. E questo perché lo sguardo di misericordia è quello che Gesù stesso ha avuto. E il papa saprà esprimere la sua parola parlando solo ai cattolici o riuscirà a raggiungere tutti, uomini e donne, cristiani e non cristiani? Anche questa è una sfida: ma questa necessità può mutare molto lo stile della futura esortazione post-sinodale. In ogni caso da questo dipende l’immagine di Dio: se giudice inflessibile di fronte al quale nessuno è giusto o se volto misericordioso che l’uomo cerca nella propria miseria.



lunedì 26 ottobre 2015

Il “sogno” di Dio è quello di formare un popolo, di radunarlo, di guidarlo verso la terra della libertà e della pace. Papa Francesco, ANGELUS 25 ottobre 2015

 Il “sogno” di Dio  è quello di formare un popolo, 
di radunarlo, di guidarlo verso la terra della libertà e della pace. 
E questo popolo è fatto di famiglie: ci sono «la donna incinta e la partoriente»; è un popolo che mentre cammina manda avanti la vita, con la benedizione di Dio.
Papa Francesco,  

ANGELUS  

25 ottobre 2015  





Cari fratelli e sorelle, buongiorno! 

Questa mattina, con la Santa Messa celebrata nella Basilica di San Pietro, si è conclusa l’Assemblea Generale Ordinaria del Sinodo dei Vescovi sulla famiglia. Invito tutti a rendere grazie a Dio per queste tre settimane di lavoro intenso, animato dalla preghiera e da uno spirito di vera comunione. E’ stato faticoso, ma è stato un vero dono di Dio, che porterà sicuramente molto frutto.

La parola “sinodo” significa “camminare insieme”. E quella che abbiamo vissuto è stata l’esperienza della Chiesa in cammino, in cammino specialmente con le famiglie del Popolo santo di Dio sparso in tutto il mondo. Per questo mi ha colpito la Parola di Dio che oggi ci viene incontro nella profezia di Geremia. Dice così: «Ecco, li riconduco dalla terra del settentrione e li raduno dalle estremità della terra; fra loro sono il cieco e lo zoppo, la donna incinta e la partoriente: ritorneranno qui in gran folla». E il profeta aggiunge: «Erano partiti nel pianto, io li riporterò tra le consolazioni; li ricondurrò ai fiumi ricchi d’acqua per una strada dritta in cui non inciamperanno, perché io sono un padre per Israele» (31,8-9).

Questa Parola di Dio ci dice che il primo a voler camminare insieme con noi, a voler fare “sinodo” con noi, è proprio Lui, il nostro Padre. Il suo “sogno”, da sempre e per sempre, è quello di formare un popolo, di radunarlo, di guidarlo verso la terra della libertà e della pace. E questo popolo è fatto di famiglie: ci sono «la donna incinta e la partoriente»; è un popolo che mentre cammina manda avanti la vita, con la benedizione di Dio.

E’ un popolo che non esclude i poveri e gli svantaggiati, anzi, li include. Dice il profeta: «Fra loro sono il cieco e lo zoppo». E’ una famiglia di famiglie, in cui chi fa fatica non si trova emarginato, lasciato indietro, ma riesce a stare al passo con gli altri, perché questo popolo cammina sul passo degli ultimi; come si fa nelle famiglie, e come ci insegna il Signore, che si è fatto povero con i poveri, piccolo con i piccoli, ultimo con gli ultimi. Non lo ha fatto per escludere i ricchi, i grandi e i primi, ma perché questo è l’unico modo per salvare anche loro, per salvare tutti: andare con i piccoli, con gli esclusi, con gli ultimi.

Vi confesso che questa profezia del popolo in cammino l’ho confrontata anche con le immagini dei profughi in marcia sulle strade dell’Europa, una realtà drammatica dei nostri giorni. Anche a loro Dio dice: «Erano partiti nel pianto, io li riporterò tra le consolazioni». Anche queste famiglie più sofferenti, sradicate dalle loro terre, sono state presenti con noi nel Sinodo, nella nostra preghiera e nei nostri lavori, attraverso la voce di alcuni loro Pastori presenti in Assemblea. Queste persone in cerca di dignità, queste famiglie in cerca di pace rimangono ancora con noi, la Chiesa non le abbandona, perché fanno parte del popolo che Dio vuole liberare dalla schiavitù e guidare alla libertà.

Dunque, in questa Parola di Dio, si rispecchia sia l’esperienza sinodale che abbiamo vissuto, sia il dramma dei profughi in marcia sulle strade dell’Europa. Il Signore, per intercessione della Vergine Maria, ci aiuti anche ad attuarla in stile di fraterna comunione.

Dopo l'Angelus:

Cari fratelli e sorelle,

saluto tutti voi, fedeli romani e pellegrini di diversi Paesi.

In particolare saluto la Hermandad del Señor de los Milagros di Roma [in spagnolo: quanti peruviani ci sono in piazza!], che con tanta devozione ha portato in processione l’Immagine venerata a Lima, nel Perù, e dovunque vi sono emigrati peruviani. Grazie della vostra testimonianza!

Saluto i pellegrini musicisti della “Musikverein Manhartsberg”, provenienti dalla diocesi di Vienna; e l’Orchestra di Landwehr, Friburgo (Svizzera), che ieri sera ha tenuto un concerto di beneficenza.

Saluto l’Associazione Volontari Ospedalieri “San Giovanni” di Lagonegro, e il gruppo della Diocesi di Oppido Mamertina-Palmi.

Auguro a tutti una buona domenica. E, mi raccomando, non dimenticatevi di pregare per me. Buon pranzo e arrivederci.


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Papa Francesco omelia nella Santa Messa per la conclusione della XIV Assemblea Generale Ordinaria del Sinodo dei Vescovi (25 ottobre 2015)



Alle ore 10 di oggi, XXX domenica del Tempo Ordinario, nella Basilica Vaticana, il Santo Padre Francesco celebra la Santa Messa in occasione della chiusura della XIV Assemblea Generale Ordinaria del Sinodo dei Vescovi sul tema: “La vocazione e la missione della famiglia nella Chiesa e nel mondo contemporaneo”. Concelebrano con il Santo Padre Cardinali, Patriarchi, Arcivescovi Maggiori, Arcivescovi, Vescovi e Presbiteri membri del Sinodo. 

Omelia del Santo Padre

Tutte e tre le Letture di questa domenica ci presentano la compassione di Dio, la sua paternità, che si rivela definitivamente in Gesù.

Il profeta Geremia, in pieno disastro nazionale, mentre il popolo è deportato dai nemici, annuncia che «il Signore ha salvato il suo popolo, il resto d’Israele» (31,7). E perché lo ha fatto? Perché Lui è Padre (cfr v. 9); e come Padre si prende cura dei suoi figli, li accompagna nel cammino, sostiene «il cieco e lo zoppo, la donna incinta e la partoriente» (31,8). La sua paternità apre loro una via accessibile, una via di consolazione dopo tante lacrime e tante amarezze. Se il popolo resta fedele, se persevera a cercare Dio anche in terra straniera, Dio cambierà la sua prigionia in libertà, la sua solitudine in comunione: ciò che oggi il popolo semina nelle lacrime, domani lo raccoglierà nella gioia (cfr Sal 125,6).

Con il Salmo abbiamo manifestato anche noi la gioia che è frutto della salvezza del Signore: «La nostra bocca si riempì di sorriso, la nostra lingua di gioia» (v. 2). Il credente è una persona che ha sperimentato l’azione salvifica di Dio nella propria vita. E noi, Pastori, abbiamo sperimentato che cosa significhi seminare con fatica, a volte nelle lacrime, e gioire per la grazia di un raccolto che sempre va oltre le nostre forze e le nostre capacità.

Il brano della Lettera agli Ebrei ci ha presentato la compassione di Gesù. Anche Lui “si è rivestito di debolezza” (cfr 5,2), per sentire compassione per quelli che sono nell’ignoranza e nell’errore. Gesù è il sommo sacerdote grande, santo, innocente, ma al tempo stesso è il sommo sacerdote che ha preso parte alle nostre debolezze ed è stato messo alla prova in ogni cosa come noi, escluso il peccato (cfr 4,15). Per questo è il mediatore della nuova e definitiva alleanza che ci dà la salvezza.

Il Vangelo odierno ci collega direttamente alla prima Lettura: come il popolo d’Israele è stato liberato grazie alla paternità di Dio, così Bartimeo è stato liberato grazie alla compassione di Gesù. Gesù è appena uscito da Gerico. Nonostante abbia appena iniziato il cammino più importante, quello verso Gerusalemme, si ferma ancora per rispondere al grido di Bartimeo. Si lascia toccare dalla sua richiesta, si fa coinvolgere dalla sua situazione. Non si accontenta di fargli l’elemosina, ma vuole incontrarlo di persona. Non gli dà né indicazioni né risposte, ma pone una domanda: «Che cosa vuoi che io faccia per te?» (Mc 10,51). Potrebbe sembrare una richiesta inutile: che cosa potrebbe desiderare un cieco se non la vista? Eppure, con questo interrogativo fatto “a tu per tu”, diretto ma rispettoso, Gesù mostra di voler ascoltare le nostre necessità. Desidera con ciascuno di noi un colloquio fatto di vita, di situazioni reali, che nulla escluda davanti a Dio. Dopo la guarigione il Signore dice a quell’uomo: «La tua fede ti ha salvato» (v. 52). È bello vedere come Cristo ammira la fede di Bartimeo, fidandosi di lui. Lui crede in noi, più di quanto noi crediamo in noi stessi.

C’è un particolare interessante. Gesù chiede ai suoi discepoli di andare a chiamare Bartimeo. Essi si rivolgono al cieco usando due espressioni, che solo Gesù utilizza nel resto del Vangelo. In primo luogo gli dicono: “Coraggio!”, con una parola che letteralmente significa “abbi fiducia, fatti animo!”. In effetti, solo l’incontro con Gesù dà all’uomo la forza per affrontare le situazioni più gravi. La seconda espressione è “Alzati!”, come Gesù aveva detto a tanti malati, prendendoli per mano e risanandoli. I suoi non fanno altro che ripetere le parole incoraggianti e liberatorie di Gesù, conducendo direttamente a Lui, senza prediche. A questo sono chiamati i discepoli di Gesù, anche oggi, specialmente oggi: a porre l’uomo a contatto con la Misericordia compassionevole che salva. Quando il grido dell’umanità diventa, come in Bartimeo, ancora più forte, non c’è altra risposta che fare nostre le parole di Gesù e soprattutto imitare il suo cuore. Le situazioni di miseria e di conflitto sono per Dio occasioni di misericordia. Oggi è tempo di misericordia!

Ci sono però alcune tentazioni per chi segue Gesù. Il Vangelo di oggi ne evidenzia almeno due. Nessuno dei discepoli si ferma, come fa Gesù. Continuano a camminare, vanno avanti come se nulla fosse. Se Bartimeo è cieco, essi sono sordi: il suo problema non è il loro problema. Può essere il nostro rischio: di fronte ai continui problemi, meglio andare avanti, senza lasciarci disturbare. In questo modo, come quei discepoli, stiamo con Gesù, ma non pensiamo come Gesù. Si sta nel suo gruppo, ma si smarrisce l’apertura del cuore, si perdono la meraviglia, la gratitudine e l’entusiasmo e si rischia di diventare “abitudinari della grazia”. Possiamo parlare di Lui e lavorare per Lui, ma vivere lontani dal suo cuore, che è proteso verso chi è ferito. Questa è la tentazione: una “spiritualità del miraggio”: possiamo camminare attraverso i deserti dell’umanità senza vedere quello che realmente c’è, bensì quello che vorremmo vedere noi; siamo capaci di costruire visioni del mondo, ma non accettiamo quello che il Signore ci mette davanti agli occhi. Una fede che non sa radicarsi nella vita della gente rimane arida e, anziché oasi, crea altri deserti.

C’è una seconda tentazione, quella di cadere in una “fede da tabella”. Possiamo camminare con il popolo di Dio, ma abbiamo già la nostra tabella di marcia, dove tutto rientra: sappiamo dove andare e quanto tempo metterci; tutti devono rispettare i nostri ritmi e ogni inconveniente ci disturba. Rischiamo di diventare come quei “molti” del Vangelo che perdono la pazienza e rimproverano Bartimeo. Poco prima avevano rimproverato i bambini (cfr 10,13), ora il mendicante cieco: chi dà fastidio o non è all’altezza è da escludere. Gesù invece vuole includere, soprattutto chi è tenuto ai margini e grida a Lui. Costoro, come Bartimeo, hanno fede, perché sapersi bisognosi di salvezza è il miglior modo per incontrare Gesù.

E alla fine Bartimeo si mette a seguire Gesù lungo la strada (cfr v. 52). Non solo riacquista la vista, ma si unisce alla comunità di coloro che camminano con Gesù. Carissimi Fratelli sinodali, noi abbiamo camminato insieme. Vi ringrazio per la strada che abbiamo condiviso con lo sguardo rivolto al Signore e ai fratelli, nella ricerca dei sentieri che il Vangelo indica al nostro tempo per annunciare il mistero di amore della famiglia. Proseguiamo il cammino che il Signore desidera. Chiediamo a Lui uno sguardo guarito e salvato, che sa diffondere luce, perché ricorda lo splendore che lo ha illuminato. Senza farci mai offuscare dal pessimismo e dal peccato, cerchiamo e vediamo la gloria di Dio, che risplende nell’uomo vivente.

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