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giovedì 7 dicembre 2023

«Lo Spirito Santo è la nostra forza, il respiro del nostro annuncio, la fonte dello zelo apostolico. Vieni, Spirito Santo!» Papa Francesco Udienza 06/12/2023 (foto, testo e video)

UDIENZA GENERALE

Aula Paolo VI
Mercoledì, 6 dicembre 2023










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Anche oggi, come durante l’udienza di mercoledì scorso, il Papa si è fatto aiutare da mons. Filippo Ciampanelli, della Segreteria di Stato, per leggere il testo preparato per la catechesi di oggi in Aula Paolo VI, dove Francesco è entrato camminando, con l’aiuto del suo bastone, ed ha introdotto la catechesi con queste parole

Catechesi. La passione per l’evangelizzazione: lo zelo apostolico del credente. 29. L’annuncio è nello Spirito Santo

Cari fratelli e sorelle,

nelle scorse catechesi abbiamo visto che l’annuncio del Vangelo è gioia, è per tutti e va rivolto all’oggi. Scopriamo ora un’ultima caratteristica essenziale: occorre che l’annuncio avvenga nello Spirito Santo. Infatti, per “comunicare Dio” non bastano la gioiosa credibilità della testimonianza, l’universalità dell’annuncio e l’attualità del messaggio. Senza lo Spirito Santo ogni zelo è vano e falsamente apostolico: sarebbe solo nostro e non porterebbe frutto.

In Evangelii gaudium ho ricordato che «Gesù è il primo e più grande evangelizzatore»; che «in qualunque forma di evangelizzazione il primato è sempre di Dio», il quale «ha voluto chiamarci a collaborare con lui e stimolarci con la forza del suo Spirito» (n. 12). Ecco il primato dello Spirito Santo! Perciò il Signore paragona il dinamismo del Regno di Dio a «un uomo che getta il seme nella terra; dorma o vegli, di notte o di giorno, il seme germoglia e cresce; come, egli stesso non lo sa» (Mc 4,26-27). Lo Spirito è il protagonista, precede sempre i missionari e fa germogliare i frutti. Questa consapevolezza ci consola tanto! E ci aiuta a precisarne un’altra, altrettanto decisiva: cioè che nel suo zelo apostolico la Chiesa non annuncia se stessa, ma una grazia, un dono, e lo Spirito Santo è proprio il Dono di Dio, come disse Gesù alla donna samaritana (cfr Gv 4,10).

Il primato dello Spirito non deve però indurci all’indolenza. La fiducia non giustifica il disimpegno. La vitalità del seme che cresce da sé non autorizza i contadini all’incuria del campo. Gesù, nel dare le ultime raccomandazioni prima di salire al cielo, disse: «Riceverete la forza dallo Spirito Santo che scenderà su di voi, e di me sarete testimoni […] fino ai confini della terra» (At 1,8). Il Signore non ci ha lasciato delle dispense di teologia o un manuale di pastorale da applicare, ma lo Spirito Santo che suscita la missione. E l’intraprendenza coraggiosa che lo Spirito infonde ci porta a imitarne lo stile, che sempre ha due caratteristiche: la creatività e la semplicità.

Creatività, per annunciare Gesù con gioia, a tutti e nell’oggi. In questa nostra epoca, che non aiuta ad avere uno sguardo religioso sulla vita e in cui l’annuncio è diventato in vari luoghi più difficile, faticoso, apparentemente infruttuoso, può nascere la tentazione di desistere dal servizio pastorale. Magari ci si rifugia in zone di sicurezza, come la ripetizione abitudinaria di cose che si fanno sempre, oppure nei richiami allettanti di una spiritualità intimista, o ancora in un malinteso senso della centralità della liturgia. Sono tentazioni che si travestono da fedeltà alla tradizione, ma spesso, più che risposte allo Spirito, sono reazioni alle insoddisfazioni personali. Invece la creatività pastorale, l’essere audaci nello Spirito, ardenti del suo fuoco missionario, è prova di fedeltà a Lui. Perciò ho scritto che «Gesù Cristo può anche rompere gli schemi noiosi nei quali pretendiamo di imprigionarlo e ci sorprende con la sua costante creatività divina. Ogni volta che cerchiamo di tornare alla fonte e recuperare la freschezza originale del Vangelo spuntano nuove strade, metodi creativi, altre forme di espressione, segni più eloquenti, parole cariche di rinnovato significato per il mondo attuale» (Evangelii gaudium, 11).

Creatività, dunque; e poi semplicità, proprio perché lo Spirito ci porta alla fonte, al “primo annuncio”. Infatti è «il fuoco dello Spirito che […] ci fa credere in Gesù Cristo, che con la sua morte e resurrezione ci rivela e ci comunica l’infinita misericordia del Padre» (ivi, 164). Questo è il primo annuncio, che «deve occupare il centro dell’attività evangelizzatrice e di ogni intento di rinnovamento ecclesiale»; per ripetere: «Gesù Cristo ti ama, ha dato la sua vita per salvarti, e adesso è vivo al tuo fianco ogni giorno, per illuminarti, per rafforzarti, per liberarti» (ibid).

Fratelli e sorelle, lasciamoci avvincere dallo Spirito e invochiamolo ogni giorno: sia Lui il principio del nostro essere e del nostro operare; sia all’inizio di ogni attività, incontro, riunione e annuncio. Egli vivifica e ringiovanisce la Chiesa: con Lui non dobbiamo temere, perché Egli, che è l’armonia, tiene sempre insieme creatività e semplicità, suscita la comunione e invia in missione, apre alla diversità e riconduce all’unità. Egli è la nostra forza, il respiro del nostro annuncio, la fonte dello zelo apostolico. Vieni, Spirito Santo!

Guarda il video della catechesi

Saluti

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Nel salutare i pellegrini di lingua italiana, rivolgo un cordiale benvenuto ai formatori di Seminari partecipanti al corso promosso dal Dicastero per l’Evangelizzazione. Cari sacerdoti, vi accompagni la continua assistenza del Signore, affinché queste giornate di studio possano ravvivare il vostro servizio alla Chiesa.

Sono lieto di accogliere la parrocchia di Sant’Antonio di Padova in Terni e la parrocchia Madonna di Pompei in Andria, auspicando che la visita alle tombe degli Apostoli susciti in ciascuno un rinnovato fervore spirituale.

Saluto i membri di Fundacion Telethon, dal Messico: cari messicani, vi invito a collaborare per le vittime in Acapulco; vi invito a includere tutte le persone con disabilità in Messico. Lottiamo contro la società dello scarto, difendiamo la dignità di ogni persona.

Il mio saluto va infine agli anziani, ai malati, agli sposi novelli e ai giovani, con un pensiero particolare per gli alunni dell’Istituto Leonardo da Vinci rispettivamente di Santa Maria Capua Vetere e di Milazzo. 

Siamo ormai prossimi alla solennità dell’Immacolata Concezione. Maria “ha creduto” all’amore di Dio e ha risposto col suo “sì”. Imparate da Lei la piena fiducia verso il Signore per testimoniare ovunque il bene e l’amore evangelico.

E non dimentichiamo di pregare per quanti soffrono il dramma della guerra, in particolare le popolazioni dell’Ucraina, di Israele e di Palestina. La guerra sempre è una sconfitta. Nessuno guadagna, tutti perdono. Soltanto guadagnano i fabbricanti delle armi.


E a tutti la mia Benedizione!





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mercoledì 6 dicembre 2023

La fraternità spegne le fiamme del mondo

La fraternità spegne le fiamme del mondo



«The world is on fire». Il mondo è in fiamme, «tutti noi lo sappiamo e oggi stiamo vivendo il tempo “migliore”, più urgente, per cercare la pace. Sono convinta che tutte le religioni debbano unirsi per invocare e costruire la pace». È la testimonianza di Maria Ressa, giornalista filippina naturalizzata statunitense, insignita del Nobel per la Pace nel 2021, che stamani ha incontrato Papa Francesco durante l’udienza generale.

La donna, presente in Aula Paolo VI insieme con l’attivista yemenita Tawakkul Karman — Premio Nobel per la Pace 2011 — e con l’italiano Giorgio Parisi, insignito per la Fisica 2021, ha consegnato al Pontefice la Dichiarazione sulla Fraternità umana redatta, lo scorso giugno, proprio da oltre 30 Premi Nobel in occasione dell’evento #NotAlone - World Meeting on Human Fraternity, organizzato dalla Fondazione “Fratelli tutti”. Il documento è stato firmato anche dal cardinale segretario di Stato, Pietro Parolin.

Ad accompagnare la delegazione il cardinale Mauro Gambetti, in qualità di presidente della Fondazione.

Il gesto simbolico di questa mattina, spiegano i responsabili dell’istituzione ispirata all’ultima enciclica di Francesco, rappresenta una prima tappa che darà il via alla presentazione del documento in altre aree del pianeta.

«Sono stata onorata di incontrare il Papa a nome degli altri premi Nobel — ha affermato Maria Ressa — per farmi loro messaggera di un appello contro tutti i conflitti, in particolare in Israele e Palestina e in Ucraina, con la volontà di unire la nostra voce a quella del Santo Padre per la fraternità».

È particolarmente importante «presentare a Francesco la nostra Dichiarazione in un momento storico in cui la povertà è sempre più connessa con la guerra» le fa eco Tawakkul Karman. Ponendo l’attenzione sulla necessità di «combattere le ingiustizie a partire da ciascuno di noi, proponendo un patto educativo globale».

Il documento — racconta Enzo Cursio, referente presso la Fao come coordinatore dell’Alleanza dei Premi Nobel per la pace — «si apre con queste parole: “Ogni uomo è mio fratello, ogni donna è mia sorella, sempre” ed esprime la necessità di vivere relazioni basate sulla fraternità, che è alimentata dal dialogo e dal perdono». Ripudiando guerra, migrazioni forzate, pulizia etnica, dittature, corruzione e schiavitù. E incoraggiando, invece, «i Paesi a promuovere sforzi congiunti per creare società di pace».

Giorgio Parisi, da parte sua, ha messo in evidenza quanto poco si sia fatto negli ultimi anni per la pace. Nell’antichità «i romani dicevano “se vuoi la pace, prepara la guerra”; in realtà siamo stati manchevoli nel preparare adeguatamente la pace» ha affermato, facendo presente l’importanza di «creare momenti di riflessione e movimenti che pongano la pace in primo piano».

Sempre in tema di promozione della pace, particolarmente significativa la presenza all’udienza generale di una folta delegazione proveniente dalla Polonia, tra cui un gruppo di oltre 30 artisti che si esibiranno, questa sera, all’Auditorium della Conciliazione, nel concerto “Salmi di pace e di ringraziamento”. Il pellegrinaggio a Roma è guidato da monsignor Stanisław Jamrozek, vescovo ausiliare e vicario generale dell’arcidiocesi di Przemyśl dei Latini, nel sud est della Polonia, proprio al confine con l’Ucraina, in prima linea nell’accoglienza dei profughi provenienti dal Paese in guerra. Ed è stato promosso dalla Fondazione “Famiglia Ulma - Soar” in ricordo di Józef Ulma, di sua moglie Wiktoria e dei loro sette figli (uno ancora nel grembo materno) tutti giustiziati dai nazisti il 24 marzo 1944 per aver offerto rifugio a otto ebrei. La delegazione ha donato al Papa un ritratto su tela della famiglia Ulma, beatificata il 10 settembre scorso a Markowa dal cardinale Semeraro in rappresentanza di Papa Franecsco.

Alcuni rappresentanti della Fondazione Teletón México sono venuti a presentare al Pontefice la tradizionale maratona televisiva che a dicembre, da quasi 20 anni, raccoglie fondi per costruire centri di riabilitazione per ragazze e ragazzi con disabilità.

Tra i doni più significativi presentati al Papa, la Natività artigianale maltese realizzata dall’Associazione di presepisti dell’isola di Gozo. L’8 dicembre verrà inaugurata a Sant’Andrea della Valle la mostra “Il presepio maltese. Arte, fede e tradizione”.

(fonte: L'Osservatore Romano, articolo di Fabrizio Peloni 06/12/2023)

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AVVENTO, COS'È E QUALI SONO LE CELEBRAZIONI PIÙ IMPORTANTI

AVVENTO, COS'È 
E QUALI SONO LE CELEBRAZIONI PIÙ IMPORTANTI
 
È il tempo liturgico di preparazione al Natale, in cui si ricorda la prima venuta del Figlio di Dio fra gli uomini. Contemporaneamente è il tempo in cui, attraverso tale ricordo, lo spirito viene guidato all'attesa della seconda venuta del Cristo alla fine dei tempi. Nel Rito Ambrosiano dura sei settimane


L'avvento è il tempo liturgico che precede e prepara il Natale: nei riti cristiani occidentali segna l'inizio del nuovo anno liturgico. La parola Avvento deriva dal latino adventus e significa "venuta" anche se, nell'accezione più diffusa, viene indicato come "attesa".

Antonello da Messina, Annunciata, XV secolo,
(Palermo, Galleria Regionale della Sicilia)
QUAL È L'ORIGINE STORICA?

L'origine del tempo di Avvento è più tardiva, infatti viene individuata tra il IV e il VI secolo. La prima celebrazione del Natale a Roma è del 336, ed è proprio verso la fine del IV secolo che si riscontra in Gallia e in Spagna un periodo di preparazione alla festa del Natale.

Per quanto la prima festa di Natale sia stata celebrata a Roma, qui si verifica un tempo di preparazione solo a partire dal VI secolo. Senz'altro non desta meraviglia il fatto che l'Avvento nasca con una configurazione simile alla Quaresima, infatti la celebrazione del Natale fin dalle origini venne concepita come la celebrazione della risurrezione di Cristo nel giorno in cui si fa memoria della sua nascita.

Nel 380 il Concilio di Saragozza impose la partecipazione continua dei fedeli agli incontri comunitari compresi tra il 17 dicembre e il 6 gennaio. In seguito verranno dedicate sei settimane di preparazione alle celebrazioni natalizie. In questo periodo, come in Quaresima, alcuni giorni vengono caratterizzati dal digiuno. Tale arco di tempo fu chiamato "Quaresima di San Martino", poiché il digiuno iniziava l'11 novembre. Di ciò è testimone San Gregorio di Tours, intorno al VI secolo

QUAL È IL SIGNIFICATO TEOLOGICO?

La teologia dell'Avvento ruota attorno a due prospettive principali. Da una parte con il termine "adventus" (venuta, arrivo) si è inteso indicare l'anniversario della prima venuta del Signore; d'altra parte designa la seconda venuta alla fine dei tempi.

Il Tempo di Avvento ha quindi una doppia caratteristica: è tempo di preparazione alla solennità del Natale, in cui si ricorda la prima venuta del Figlio di Dio fra gli uomini, e contemporaneamente è il tempo in cui, attraverso tale ricordo, lo spirito viene guidato all'attesa della seconda venuta del Cristo alla fine dei tempi.

Beato Angelico, Annunciazione (1438-1450),
Firenze, Museo di San Marco
QUANDO COMINCIA E COME È SCANDITO LITURGICAMENTE?

Il Tempo di Avvento comincia dai primi Vespri dell'ultima domenica di novembre (o primi di dicembre, a seconda del calendario) e termina prima dei primi Vespri di Natale. È caratterizzato da un duplice itinerario - domenicale e feriale - scandito dalla proclamazione della Parola di Dio.

-Le domeniche - Le letture del Vangelo hanno nelle singole domeniche una loro caratteristica propria: si riferiscono alla venuta del Signore alla fine dei tempi (I domenica), a Giovanni Battista (Il e III domenica); agli antefatti immediati della nascita del Signore (IV domenica). Le letture dell'Antico Testamento sono profezie sul Messia e sul tempo messianico, tratte soprattutto dal libro di Isaia. Le letture dell'Apostolo contengono esortazioni e annunzi, in armonia con le caratteristiche di questo tempo.

-Le ferie - Si ha una duplice serie di letture: una dall'inizio dell'Avvento fino al 16 dicembre, l'altra dal 17 al 24. Nella prima parte dell'Avvento si legge il libro di Isaia, secondo l'ordine del libro stesso, non esclusi i testi di maggior rilievo, che ricorrono anche in domenica. La scelta dei Vangeli di questi giorni è stata fatta in riferimento alla prima lettura. Dal giovedì della seconda settimana cominciano le letture del Vangelo su Giovanni Battista; la prima lettura è invece o continuazione del libro di Isaia, o un altro testo, scelto in riferimento al Vangelo. Nell'ultima settimana prima del Natale, si leggono brani del Vangelo di Matteo (cap. 1) e di Luca (cap. 1) che propongono il racconto degli eventi che precedettero immediatamente la nascita del Signore. Per la prima lettura sono stati scelti, in riferimento al Vangelo, testi vari dell'Antico Testamento, tra cui alcune profezie messianiche di notevole importanza.

L’AVVENTO AMBROSIANO È "DIVERSO" DA QUELLO DEL RITO ROMANO?

Sì, nel Rito ambrosiano si compone di sei domeniche e dura sei settimane. Inizia la prima domenica dopo il giorno di San Martino (11 novembre) e prevede sempre 6 domeniche (quando il 24 dicembre cade di domenica, è prevista la celebrazione di una Domenica Prenatalizia). È previsto il colore liturgico morello, tranne che nell'ultima domenica (detta "dell'Incarnazione") nella quale si usa il bianco:
-domenica della venuta del Signore
-domenica dei figli del regno
-domenica delle profezie adempiute
-domenica dell'ingresso del Messia
-domenica del precursore
-domenica dell'Incarnazione
(fonte: Famiglia Cristiana 02/12/2023)


Ottant’anni fa ad Auschwitz veniva uccisa Etty Hillesum - Imparare a guardare i gigli del campo di José Tolentino de Mendonça

Ottant’anni fa ad Auschwitz veniva uccisa Etty Hillesum
Imparare a guardare i gigli del campo
di José Tolentino de Mendonça






Nel pomeriggio del 29 novembre si è svolto a Roma, presso la Pontificia Università Gregoriana, il convegno Etty Hillesum. Some Insights into her Life and Thoughts , per ricordare — a ottant’anni dall’uccisione nel campo di concentramento e di sterminio di Auschwitz — la straordinaria scrittrice e diarista ebrea olandese (1914-1943). Pubblichiamo la relazione tenuta dal prefetto del dicastero per la cultura e l’educazione.


Una delle grandi voci spirituali della contemporaneità, Etty Hillesum, ha scritto che è nei momenti in cui la nostra anima è sconfitta e pare soccombere, che dobbiamo imparare a guardare i gigli del campo. Il nocciolo del problema, ricordava sempre, non sta nella vulnerabilità che i tempi impongono, ma nel mantenere viva e feconda quella porzione di divino che ci abita e che la fraternità fa speranzosamente vedere.

Il 9 marzo del 1941, quando Etty Hillesum cominciò a scrivere, sul primo degli otto quaderni a quadretti, il testo che poi sarebbe stato il suo Diario, nessuno avrebbe immaginato che stava avendo inizio una delle avventure letterarie e spirituali più significative del secolo scorso. Aveva ventisette anni e sarebbe morta senza compierne trenta.

Per anni, la sua principale occupazione fu il corso di laurea in diritto, che a dir il vero non le interessava molto, attratta invece dagli studi delle lingue slave e dalla letteratura russa. Era proiettata, senza grande impegno, verso un percorso letterario... In realtà il suo interesse intellettuale ed estetico tardava a trovare fluidità: «È come se in fondo ci fosse qualcosa che mi frenava». Ed era così con tutte le cose. Il suo amore si configurava, in quegli anni, in «un gioco» che la coinvolgeva intensamente, senza però riuscire a toccare quel fondo segreto e imprigionato che era la sua vita.

In quella domenica di marzo, quando iniziò la sua storia diaristica, lei viveva al numero 6 di via Gabriël Metsu, già indipendente dai genitori, ma nello stesso incerto turbinio di possibilità: era governante della casa di un ragioniere in pensione, vedovo, col quale aveva avuto un rapporto sentimentale. Lì viveva anche il figlio di Wegerif, Hans, di poco più di venti anni, la cuoca Käthe e due ospiti, Bernard Meylink, studente di biochimica e Maria Tuinzing, un’infermiera che poi sarebbe diventata sua confidente e amica. Ancora oggi via Gabriël Metsu circonda la spianata verde del Rijksmuseum, dove si trovano i quadri di Vermeer, Pieter de Hooch, Rembrandt... e ha qualcosa dell’atmosfera delicata e coraggiosa che ci sorprende in quelle immagini: «Le cime degli alberi, le ho trovate al mio risveglio (...). I boccioli di tulipano, il rosso e il bianco, inclinati uno verso l’altro (...) i rami scuri che contrastano con l’aria luminosa e più lontano il Rijksmuseum».

È impossibile non accostare il percorso di Etty Hillesum con quello di Simone Weil. Sono contemporanee, entrambe ebree, che si batterono per salvaguardare il sole interiore in un secolo di momenti oscuri, ambedue scrittrici, entrambe consumarono fino alla fine (o oltre la fine) un destino di annientamento, come se si trattasse di un’incredibile avventura spirituale. Anche la morte le accomuna, avvenuta nello stesso anno: 1943. Simone morì in un ospizio inglese, come se spirasse tra le vittime, sul fronte più esposto di un combattimento, ed Etty in un campo di concentramento, verso il quale era partita cantando.

Ma c’è una differenza nell’iconografia. Simone de Beauvoir racconta che Weil si vestiva come chi indossa una divisa, cancellando, con una scelta morale implacabile, i segni che la potessero distinguere, lei che era figlia di una Parigi borghese, dalla più umile delle operaie di fabbrica (anzi, non ebbe pace finché non lo diventò). Le immagini di Etty sono quelle di una donna molto diversa: elegante, femminile, con un tocco di mondanità e una intelligenza anche fisica... Penso che questo illumini i due percorsi. Simone era fin dal principio ascetica, disciplinata, rigorosa: aveva la perfezione di un diamante, ma quasi non aveva corpo. Etty era imprecisa, sensuale e dispersa: e su questo lei lavorò, ad altissimo rischio.

La conversione di Etty Hillesum, o meglio, il suo «cambiamento di ragione» (come ci insegna il termine greco del Nuovo Testamento metanóia), si sviluppò attraverso tre incontri decisivi: il primo ha il nome di una persona; il secondo di un luogo; il terzo non ha nome: è l’incontro con il proprio Innominabile.
Il risveglio spirituale


Il progetto di un diario personale fu suggerito a Etty Hillesum da Julius Spier (nominato con la sola iniziale del cognome, S.) quale proposta terapeutica. L’influenza di questo personaggio, con «occhi grigi e consumati, scaltri, incredibilmente scaltri», fu tanta che i primi quaderni sono stati praticamente dedicati a lui: con considerazioni su di lui, o valutando il riverbero folgorante che egli provocava, oppure semplicemente, con trascrizioni dettagliate del suo pensiero.

Julius Spier era un ebreo di Francoforte, rifugiato nel quartiere ebraico di Amsterdam, dove aveva il suo piccolo studio (le tre strade, un canale e un ponte della casa di lei). Fu anche direttore di banca, in seguito editore, studiò canto finché arrivò, dopo venticinque anni, alla «psico-chirologia», una diagnosi psicologica che parte dalla lettura della morfologia della mano (che lui considerava il «secondo volto »). Andò in analisi da Carl Jung, a Zurigo, il quale gli scrisse un testo che elogiava e raccomandava il suo metodo. Da quel momento, la «psico-chirologia» diventò la sua principale occupazione. Etty lo conobbe alla fine di gennaio, un mese prima di iniziare il suo Diario, durante una serata musicale, dove suo fratello Mischa suonava il pianoforte e Spier cantava.

Etty racconta che era arrivata da lui con un grande sentimento di solitudine e insicurezza: «Come vorrei che ci fosse qualcuno che mi prendesse per mano e si occupasse di me». Spier rappresentò, nella scoperta, nella saggezza e anche nel disordine, la concretizzazione di quel desiderio. È stato senza dubbio per Etty Hillesum un vero iniziatore alla vita spirituale, «l’ostetrico della mia anima», usando parole sue. Le insegnò «a pronunciare con naturalezza il nome di Dio». La iniziò alla pratica della preghiera. Le aveva consigliato la lettura dell’Antico e del Nuovo Testamento, di autori come sant’Agostino e Tommaso da Kempis. D’altra parte, Etty riuscì progressivamente a elaborare la sua autonomia, a rivisitare in maniera distaccata e originale ciò che da lui riceveva, a difendere il suo spazio decisionale.

Lungo il Diario si trovano qua e là molti insegnamenti di Julius Spier: il più importante di tutti, impresso non su carta ma nella trasformazione che in Etty si vede, è stata la fede inequivocabile nella possibilità di vivere una vita piena e totale. Il resto è materia convergente, luccichio di quella verità maggiore, come gli esempi che presentiamo in seguito.

1) «Aiutati che il ciel ti aiuta». Quando aiutiamo noi stessi, coltivando una sincera fiducia personale, diventa possibile fidarsi di Dio. 2) Bisogna portare gli altri dentro di sé, spiritualmente: questa può essere una «memoria orante», una vera preghiera. Per pregare, ci viene richiesto di abbandonarci al raccoglimento profondo. 3) Alla fine di ogni giornata, è importante raccoglierci una decina di minuti per ricordare come l’abbiamo vissuta e cosa ci ha portato di bene e di male.

Un giorno, ed Etty lo racconta il 25 settembre del 1941, lui le disse: «Ho l’impressione di essere una “fase preparatoria” per un tuo grande amore». Spier morì nel settembre dell’anno seguente, ad Amsterdam. Lei ritornò al campo di Westerbork poco dopo aver assistito alla breve cerimonia funebre.

Il risveglio spirituale di Etty si legava ancora a un’altra amicizia, quella con Henny Tideman, una cattolica che conobbe proprio durante gli incontri con Spier. Etty ricorda il commento che questa esprimeva su di lei: «Ha l’intelligenza dell’anima». Con Tide, capì la portata della preghiera, imparò dalla «sua voce radiante e affermativa», a rivolgersi anche a Dio con parole sue, con un’apertura misteriosa e totale, di cui cominciano a far parte, con maggiore naturalezza, l’allusione alla sofferenza, alla bellezza dei gerani o a un verso di Rilke.

Alla scoperta della sua patria

Nei giorni in cui continuava a scrivere il Diario, l’Olanda si trovava sempre di più nel mirino dell’espansionismo nazista. Da un anno gli ebrei olandesi venivano isolati con discrezione. Ma nel febbraio del 1941 ebbe luogo nella città di Amsterdam uno sciopero generale inedito contro i progrom e allora la repressione tedesca diventò aperta: gli ebrei erano stati licenziati dai loro datori di lavoro, non potevano frequentare i luoghi di commercio e svago, venivano limitati nei ghetti e nei campi chiamati «di lavoro». Il 14 giugno di quell’anno Etty scrisse: «Ancora altre prigioni, terrore, campi di concentramento, genitori, sorelle, fratelli portati via indiscriminatamente. Uno cerca il senso della vita e si domanda se davvero essa abbia ancora un senso. Ma questo è un tema che ognuno deve decidere con se stesso e con Dio». È la terza volta che compare questo nome nei suoi scritti.

Nella zona orientale dell’Olanda, non molto distante della frontiera, avevano cominciato a costruire un campo di concentramento intermedio, da dove successivamente gli ebrei venivano incamminati allo sterminio.

Il 29 aprile del 1942 gli ebrei furono costretti a portare la stella di David. Quasi due mesi dopo, Etty scrisse (a mezzanotte e mezza): «Questa mattina sono passata in bicicletta per Stadionkade e ho goduto del vasto cielo lì ai limiti della città e ho respirato l’aria fresca e non razionata. E dappertutto scritte che impedivano agli ebrei il libero accesso alle strade e agli spazi aperti. Ma su quel tratto di strada, che rimane nostro, esiste anche il cielo totale. Non ci possono fare nulla, non ci possono fare realmente niente». È curioso che, in quello stesso giorno, il sabato 20 giugno del 1942, c’era ad Amsterdam un’altra ragazza, molto più giovane di lei, che scriveva anch’essa un Diario: si chiamava Anna Frank.

Grazie alla sollecitudine di alcuni amici, Etty cominciò allora a lavorare come dattilografa in una delle sezioni del Consiglio ebraico. Si accorse, brutalmente, che della grande maggioranza di ebrei destinati alla deportazione i primi erano i poveri. Decise allora di chiedere di accompagnarli come volontaria al campo di concentramento di Westerbork. Cominciava a capire che quel momento estremo del suo popolo aveva un significato al quale non poteva sottrarsi. Visse in quel campo dal mese di agosto del 1942 fino al settembre del 1943, lavorando in un ospedale più che di fortuna. Uno dei vantaggi del suo stato di volontaria era di poter andare talvolta ad Amsterdam, anche perché la sua stessa salute si stava rapidamente deteriorando. Ma ecco l’inaudito. Nella sua camera, «bella e tranquilla», davanti alla spianata che porta allo Rijksmuseum, sentì una nostalgia irreprimibile di Westrbork. «Mi sono tanto innamorata di Westerbork che ne sento nostalgia. Quei mesi tra il filo spinato sono stati i miei mesi più intensi e ricchi».

Intanto, i suoi amici comunisti e trotzkisti che erano passati alla resistenza, insistevano perché anche lei entrasse in clandestinità, e le avevano già preparato un rifugio. Cercavano di convincerla facendola notare i molti pericoli ai quali era esposta, ma Etty resisteva, dicendo loro che non potevano capirla. «Molte persone mi accusano di indifferenza e passività e dicono che mi arrendo facilmente. E aggiungono: “Ogni persona che riesca a sfuggire dai loro artigli deve cercare di farlo e questo è un obbligo. E io devo fare qualcosa per me stessa”. Questa è una frase non molto azzeccata. In questo momento, tutti sono occupati a salvare la propria vita e intanto bisogna che un certo numero di persone, un grande numero, vada. E quel che è strano è questo: io non ho la sensazione di essere imprigionata tra le loro grinfie... Non sento di essere tra le grinfie di nessuno, sento unicamente che sto tra le braccia di Dio». Ma bisogna capire fino a quale punto sacrificale, fino a quale spoliazione spirituale, Etty visse questo suo «stare tra le braccia di Dio». Niente fu evitato. Si ritrovò nella stordente infelicità, che abbraccia.

Uno degli aspetti più commoventi è capire che luogo ebbe la letteratura nell’immenso cammino compiuto da Etty. All’inizio lei lo chiamò «la mia seconda patria». È una specie di altra vita che la occupava, una terra promessa verso la quale propendeva. Il Diario è pieno di riferimenti a queste ore di lettura compulsiva, anche prima della colazione, ore di manifesto piacere: da sant’Agostino a Hegel, fino ai suoi amati russi (Dostoevskij, Tolstoj, Lermontov, Puschkin), che lei commentava con profondità, ai quali pensava sempre e che sognava di tradurre. Ma dopo, quando partì per il campo di concentramento, aveva soltanto un piccolo zainetto. Fece allora le scelte decisive. Scrisse: «Voglio memorizzare una cosa per i miei momenti più difficili e voglio anche tenere sempre a mente che Dostoevskij ha trascorso quattro anni esiliato in Siberia avendo come unica lettura la Bibbia». E portò con sé la Bibbia. Oltre a questa, tenne sempre con sé altri due libri, tutti i due di Rainer Maria Rilke: Il libro delle ore e Lettere a un giovane poeta.

A Westerbork, Etty si affermava finalmente come scrittrice. Lei, che da tanto cercava la sua voce la trovò qui, in questo posto dove tutto fu ridotto a gran silenzio, munita soltanto di un quaderno a quadretti e di una matita. C’è un testo di Anna Akhmatova che può essere un paragone illuminante per il caso di Etty: Come prefazione. Nei terribili anni della «ežovščina», ho trascorso diciassette mesi a fare la coda presso le carceri di Leningrado. Una volta un tale mi «riconobbe». Allora una donna dalle labbra bluastre che stava dietro di me e che, certamente, non aveva mai udito il mio nome, si ridestò dal torpore proprio di noi tutti e mi domandò all’orecchio (lì tutti parlavano sussurrando): «Ma lei può descrive questo?». E io dissi: «Posso». Allora una specie di sorriso scivolò su quello che una volta era stato il suo volto.

Anche Etty Hillesum scrive: «In me non c’è un poeta, in me c’è un pezzetto di Dio che potrebbe farsi poesia. In un campo deve pur esserci un poeta, che da poeta viva anche quella vita e la sappia cantare». Questo è stato il modo da lei scelto per attraversare la vita. Ma qui la sua seconda patria non era più la letteratura: coincideva con quella, unica, che in piena oscurità aveva trovato.

La prescelta di Dio

Chi ha affermato che la poesia e la possibilità di Dio si sono interrotte con Auschwitz pone questioni molto serie, che hanno segnato intensamente il dibattito filosofico e teologico della seconda metà del XX secolo. In effetti, entro un determinato ambito di comprensione è stato il suo collasso. Ciò che Etty intuì in maniera folgorante è che l’esperienza di quell’inferno storico richiede la necessità di una nuova grammatica. «Devo trovare un linguaggio nuovo», scrisse. E l’ha trovato.

A Westerbork vediamo la prescelta del Signore passeggiare nella solitudine e nel fango, mentre scrive alcune delle preghiere più straordinarie che un essere umano possa proferire, non nell’ampiezza maestosa di un tempio, ma nello spazio putrescente della latrina comune, dove si rifugiava all’alba in cerca di un momento di silenzio e di concentrazione. Vediamo l’innamorata di Dio consumarsi nelle attenzioni verso i deportati, curando, intercedendo, lei stessa ferita da dolori violenti, sempre in cerca di una finestra da dove si potesse scorgere un pezzetto di cielo, o di un asse sul quale alla fine potersi sedere a leggere qualche frase di Rilke. La seguiamo nella lettura che fa dell’evangelista Matteo, «il mio buon Matteo»; nei commenti ai testi di Paolo e di sant’Agostino, come se fosse una maestra esperta nei cammini dello spirito. Leggiamo, «Mi piacerebbe molto vivere come i gigli dei campi. Se le persone capissero quest’epoca, sarebbero capaci di imparare con essa a vivere come i gigli dei campi», ed è difficile ricordare che chi parla è quella ragazza di Amsterdam arrivata lì da pochi mesi.

In mezzo alla tortura totale, lei è quella che si preoccupa di Dio. «Ti aiuto, Dio, a non abbandonarmi», scrive. O allora: «Se mi trovassi imprigionata in una cella stretta e una nube passasse davanti alla mia finestra reticolata, allora ti porterei quella nube, mio Dio, se almeno avessi forze per farlo». La sua è una preghiera di ringraziamento e di mille piccole attenzioni: il profumo di un fiore, la musicalità di una parola, la bellezza indicibile di un incontro: «Mi piacerebbe parlare di ciò che abbiamo in comune, con un tono di voce basso e dolce, ma ininterrotto e convincente. Dammi parole e forza».

È anche chiaramente una preghiera notturna, popolata da strazianti quesiti: «Delle volte, Dio, mi domando, in un momento difficile come questa notte, quali sono i piani che hai per me». Ma il tratto più forte è quello di un’impressionante e inspiegabile fiducia: «Stanotte alle due, quando sono finalmente salita di sopra e mi sono inginocchiata nel mezzo della camera di Dicky, quasi nuda e completamente sciolta, ho detto improvvisamente: ho certo vissuto delle cose grandi quest’oggi e questa notte, mio Dio, ti ringrazio perché sono in grado di sopportare tutto e perché tu lasci che così poche cose mi passino accanto senza toccarmi». Il 30 novembre del 1943, la Croce Rossa annunciò la sua morte ad Auschwitz.

Come diceva Etty Hillesum, «la vita è difficile, ma questo non è grave». O, meglio, non è questo che ci fa del male. Perché noi impariamo in fretta, come lei imparò, che su quei segmenti di cammino interrotto dal filo spinato non cessa di estendersi il medesimo cielo che s’innalza sui meravigliosi campi aperti, il vasto cielo che nessuna barriera potrà mai interrompere. Ogni volta, per esempio, che diciamo dentro di noi, e con tutte le forze del nostro essere, che “la vita vale la pena”, ripartiremo liberi da tutto ciò che la sfigura. E il resto non importa più. Perché in fondo — e sono parole di Etty — «il più grande furto che ci viene fatto siamo noi stessi che lo mettiamo a segno». E questo accade più spesso di quanto noi non pensiamo, accade quando ci svuotiamo del meglio di noi a motivo di una visione unilaterale che non si è debitamente confrontata con le ragioni profonde del nostro cuore. Quando permettiamo che quella che erroneamente diciamo “realtà”, e che siamo tentati di accettare come l’unica voce che ci parla, sia, a conti fatti, un rullo compressore che schiaccia non solo ciò che la nostra vita è, ma anche quella che potrebbe essere. Etty sapeva che la rovina più fatale si produce quando rinunciamo a collegare la nostra vita a una porzione, per infima che possa essere, di eternità. È allora che i miracoli diventano impossibili, e noi moriamo.

(Fonte: L'Osservatore Romano - 04.12.2023)

martedì 5 dicembre 2023

L'affettuoso saluto a Giulia - Il vescovo: «Vogliamo imparare l'amore» - Il papà: «Io non so pregare, ma so sperare... voglio sperare che tutta questa pioggia di dolore fecondi il terreno delle nostre vite e che un giorno possa germogliare e produca il suo frutto d’amore, di perdono e di pace. Addio Giulia, amore mio»

L'ultimo affettuoso saluto a Giulia
Il vescovo: «Vogliamo imparare l'amore»
Il papà: «Io non so pregare, ma so sperare... voglio sperare che tutta questa pioggia di dolore fecondi il terreno delle nostre vite e che un giorno possa germogliare e produca il suo frutto d’amore, di perdono e di pace. Addio Giulia, amore mio»
 


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«Abbiamo bisogno di parole e gesti di sapienza che ci aiutino  a non restare intrappolati dall'immane tragedia che si è consumata»

Tre le parole chiave nell'omelia di monsignor Claudio Cipolla, vescovo di Padova, durante la celebrazione nella basilica di Santa Giustina dei funerali di Giulia Cecchettin con papà Gino, i fratelli Elena e Davide e 10mila persone tra chiesa e sagrato: "attesa, speranza e amore". Una preghiera anche per Filippo Turetta e la sua famiglia

Occhi rossi, lacrime, tanta commozione tra quanti sono arrivati per assistere all'ultimo saluto di Giulia Cecchettin. La piazza davanti alla chiesa di Santa Giustina è gremita di giovani, colleghi universitari di Giulia e genitori che la sentono come loro figlia. All'arrivo della bara scoppia l'applauso. Ad accompagnarla ci sono il papà Gino, la sorella Elisa, il fratello, la nonna, i nonni materni, l'avvocato. La bara viene depositata all'ingresso della chiesa. Torna il silenzio. Poi il feretro viene portato all'interno. La chiesa è piena già dal mattino presto. All'esterno circa 8000 persone, molti da Padova, molti dalla provincia.

A monsignor Claudio Cipolla, vescovo di Padova, il compito di trovare le parole per non "restare intrappolati dall’immane tragedia che si è consumata" e ne individua tre: "attesa, speranza e amore".
(R. Gob)


ATTESA, SPERANZA E AMORE

Di seguito il testo integrale.

Non avremmo voluto vedere quello che i nostri occhi hanno visto né avremmo voluto ascoltare quello che abbiamo appreso nella tarda mattinata di sabato 18 novembre. Per sette lunghi giorni avevamo atteso, desiderato e sperato di vedere e sentire cose diverse. Ed invece ora siamo qui, in molti, con gli occhi, anche quelli del cuore, pieni di lacrime e con gli orecchi bisognosi di essere dischiusi ad un ascolto nuovo.

Abbiamo bisogno di parole e gesti di sapienza che ci aiutino a non restare intrappolati dall’immane tragedia che si è consumata, per ritrovare anche solo un piccolo spiraglio di luce.

Dalla fede cristiana e dalla Parola che il Signore ci ha appena rivolto raccolgo come sostegno alcune parole per orientarci in questi giorni di lutto e di dolore.

L’Attesa. Domenica è iniziato il tempo dell’avvento, tempo che educa all’attesa, ad alzare lo sguardo oltre il buio: dal tronco ferito e spezzato della nostra umanità spunti un germoglio, come evocava il profeta nella prima lettura. Non sappiamo quando, non sappiamo come, ma è forza che apre vie di riscatto, di affrancamento da ogni forma di negazione della vita.

La conclusione di questa storia lascia in noi amarezza, tristezza, a tratti anche rabbia ma quanto abbiamo vissuto ha reso evidente anche il desiderio di trasformare il dolore in impegno per l’edificazione di una società e un mondo migliori, che abbiano al centro il rispetto della persona (donna o uomo che sia) e la salvaguardia dei diritti fondamentali di ciascuno, specie quello alla libera e responsabile definizione del proprio progetto di vita.

Questo impegno è indispensabile non solo per garantire qualità di vita al singolo individuo ma anche per realizzare quei contesti sociali e quelle reti in cui le persone siano valorizzate in quanto soggetti in grado di dare un contributo originale e creativo.

Il sorriso di Giulia mancherà al papà Gino, alla sorella Elena e al fratello Davide e a tutta la sua famiglia; mancherà agli amici ma anche a tutti noi perché il suo viso ci è divenuto caro. Custodiamo però la sua voglia di vivere, le sue progettualità, le sue passioni. Le accogliamo in noi come quel germoglio di cui parla il profeta. Perché desideriamo insieme attendere la fioritura del mondo nel quale finalmente anche i nostri occhi saranno beati.

Speranza. L’attesa più o meno giustificata di un evento gradito, di un giorno favorevole, è illusoria se consiste nella semplice proiezione di nostre aspirazioni, anche legittime. Come trasformarla in reale cammino verso la felicità? Abbiamo bisogno che la nostra attesa sia arricchita e sostenuta dalla speranza. La speranza è un dono dello Spirito, che ci aiuta a vivere, a cercare, trovare e custodire la vita. Di fronte alla morte di Giulia ma anche a quella di tante donne, bambini e uomini sopraffatti dalla violenza e dalle guerre, emergono tutti i nostri dubbi. Non solo ci chiediamo: davvero ci sarà la vita dopo la morte? Ma anche: ha senso impegnarsi se poi tutto si riduce a poca cenere?

La speranza, che oggi rinnoviamo, per noi cristiani ha un nome e un volto: quello di Gesù, il Signore Risorto. E’ lui la vita che la morte non è riuscita a ingabbiare, il Giusto che l’ingiustizia non è riuscita a spezzare, il mite e umile di cuore che ha scardinato la violenza del potere.

La speranza, che è Cristo, è più di un antidoto nei momenti difficili della vita. Il profeta Isaia descrive un mondo in cui compaiono una dopo l’altra scene che sembrano avere dell’assurdo e del fantasioso: “Il lupo dimorerà insieme con l’agnello; il leopardo si sdraierà accanto al capretto; il lattante si trastullerà sulla buca della vipera”. Sembra pura utopia immaginare un mondo in cui le tensioni e gli opposti si compongano con una tale armonia.

Le piazze, le aule universitarie, i palazzi, le nostre case possono certo diventare quei luoghi dove poter difendere i diritti dei più deboli e creare le condizioni per una vita sociale e individuale all’insegna della giustizia e della libertà. Ma i cammini intrapresi in questi spazi saranno efficaci e giungeranno a dei risultati duraturi nella misura in cui dentro ciascuno di noi si comporrà l’armonia annunciata dal profeta.

Arriviamo così alla terza parola: Amore: una grande parola, una parola che orienta alla alterità, che cerca il bene dell’altro, dell’altra. Io, con la mia concreta e personale esperienza, non so parlarne se non a partire dal Vangelo e da Dio ma anche per me il riferimento è così alto da sembrare irrealizzabile, come la profezia di Isaia.

I nostri, anche se umani e responsabili, sono sempre tentativi di amore, e noi siamo sempre in cammino e sempre in ricerca della strada migliore.

Forse voi giovani potete osare di più rispetto al passato: avete a disposizione le università e gli studi, avete possibilità di incontri e confronti a livello internazionale, avete più opportunità e benessere rispetto a 50 anni fa.

Nella libertà potete amare meglio e di più: questa è la vostra vocazione e questa può e deve diventare la vostra felicità!

Su questa strada ci incontreremo e potremo aiutarci: si incontreranno i giovani e Dio, i giovani e il Vangelo.

L’amore non è un generico sentimento buonista, quindi. Non si sottrae alla verità, non sfugge la fatica di conoscere ed educare se stessi. E’ empatia che genera solidarietà, accordo di anime e corpi nutrito di idealità comuni, compassione che nell’ascolto dell’altro trova la via per spezzare l’autoreferenzialità e il narcisismo.

Se questo è il nostro sogno, se cerchiamo germogli di speranza e di amore avvertiamo tutti la fatica di questo lavoro interiore. La nostra fragilità rende corto il respiro della speranza e precaria la tenuta dei nostri amori. Attesa, speranza, amore sono la nostra vita bella.

Preghiera altro non è che metterci di fronte a Dio e al mistero della vita e della morte senza nascondere le nostre fatiche ma anche senza rinunciare ai nostri sogni.

Ti preghiamo, Signore, di farci il dono della Pace. È nella pace che i popoli progrediscono in cultura e civiltà, in solidarietà e umanità; è nella pace che le risorse vengono indirizzate per acquisire strumenti che nobilitano la vita delle persone, soprattutto delle più deboli e fragili e scompaiono le disuguaglianze sociali.

Insegnaci, Signore, la pace tra generi, tra maschio e femmina, tra uomo e donna. Vogliamo imparare l'amore e vivere nel rispetto reciproco, cercando anzi il bene dell'altro nel dono di noi stessi. Non possiamo più consentire atti di sopraffazione e di abuso; per questo abbiamo bisogno di concorrere per riuscire a trasformare quella cultura che li rende possibili.

Ti domandiamo, o Signore, la pace nel rapporto tra generazioni, tra giovani, adulti e anziani così che il coraggio e le aspirazioni possano coniugarsi con la sapienza e la profondità di chi conosce la storia e ne interpreta le direttrici. Così che non torni ad essere accolto tra le possibilità a nostra disposizione ciò che già ha prodotto il male.

Donaci, Signore, anche la pace del cuore, del mio cuore e del cuore di tutti i presenti, Chiediamo la pace del cuore anche per Filippo e la sua famiglia. Il nostro cuore cerca tenerezza, comprensione, affetto, amore. La pace del cuore è pace con se stessi, con il proprio corpo, con la propria psiche, con i propri sentimenti soprattutto quelli che riguardano il senso delle azioni che compiamo e il senso della vita. Il nostro cuore è il luogo dove il Vangelo e la Pasqua di Gesù di Nazareth bussano con delicatezza pronti a dispiegare la loro forza umanizzante.

Il volto di Giulia è stato sottratto alla nostra vista. Resta impresso nell’affetto e nella memoria di chi l’ha conosciuta e apprezzata. Ora noi posiamo lo sguardo su quello di Gesù, il Signore, via verità e vita; in Lui brilla il volto di Giulia, (vicino alla mamma), da Lui si accendano ancora il desiderio che cresca per tutti la passione per la vita.
+ Claudio Cipolla
vescovo di Padova

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Gino Cecchettin, dall'unico che avrebbe diritto alla rabbia 
una lezione di civiltà 

Dal padre di Giulia, nel momento più difficile della vita, l'altruismo di un messaggio pacato: in cui c’erano le parole “scusa” e “grazie”, parole con cui si è rivolto agli uomini e ai padri, dicendo “noi”, non "voi" per sperare in un futuro senza più tragedie come la sua


In un mondo in cui il linguaggio dell’odio trova spazio in Rete, quando si azionano i polpastrelli prima di aver acceso l’interruttore della razionalità, senza che nessuno metta un argine di educazione, la lezione di civiltà vissuta ci viene dall’unico cui nessuno, non oggi, oserebbe rimproverare un moto di rabbia, un accesso di intemperanza: dal signor Gino Cecchettin, un padre che ha perso una figlia in un modo di cui è difficile darsi ragione, che dall’altare, mentre le rivolgeva l’ultimo saluto, ha rivolto al mondo un messaggio pacato: in cui c’erano le parole “scusa” e “grazie”, assai poco frequentate di questi tempi, rivolte a chi gli ha dimostrato affetto, aiuto, vicinanza, anche sconosciuti, cui non è riuscito a rispondere. Parole di scusa e di ringraziamento, da parte di chi del tutto legittimamente, ripiegato su se stesso, le scuse avrebbe tutte le ragioni di pretenderle soltanto e neanche basterebbero di fronte all’enormità del dolore che deve provare.

Parole con cui si è rivolto agli uomini, dicendo “noi”, non “voi”; ai padri, dicendo “noi”, chiedendo di lavorare dal basso nella quotidianità perché nessuno più si trovi nell’abisso in cui da padre ora si trova: un padre orfano di una figlia, per mano di un giovane uomo che diceva di amarla.

In un tempo in cui la politica è spesso rissa pubblica, da pollaio, ha chiesto pacatamente alle istituzioni di mettere da parte le divisioni ideologiche per sminare il terreno culturale che rende possibile che accada quanto sta accadendo alla sua famiglia. «Perché da questo tipo di violenza che è solo apparentemente personale e insensata si esce soltanto sentendoci tutti coinvolti. Anche quando sarebbe facile sentirsi assolti».

In un momento in cui i media hanno spiato senza riguardo il suo dolore con inquadrature sfacciate, ha chiesto uno sguardo meno morboso, ma lo ha chiesto civilmente, con un’antica cortesia: mai che si sappia ha avuto la tentazione di mandare a quel Paese chi in questo tempo di dramma personale e familiare ha sostato davanti alla sua casa per rapirgli anche solo un sospiro. Se quella tentazione l’ha avuta, ha saputo nasconderla dietro una signorilità impeccabile.

Se esiste da qualche parte una lezione civile in questo dramma umano e sociale apparentemente senza senso alcuno, è dentro le parole di quest’uomo perbene, per i loro contenuti, sì, ma anche per la loro forma: vengono da una persona che ha certo dentro una guerra che neanche possiamo immaginare ma emanano pace, seminano speranza.

Ci scusi Lei, signor Cecchettin, per non aver saputo - come persone, come società, come mondo – essere come Lei è, anche ora nel momento più difficile della sua vita, e di non aver saputo far crescere per tempo una civiltà diversa. E grazie di essere così, ancora, nonostante tutto.
Elisa Chiari

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Il saluto di papà Gino: «Grazie amore, per questi 22 anni insieme»

È provato e commosso papà Gino Cecchettin quando prende la parola al termine del funerale della figlia Giulia. Parla di chi resta, lui e i fratelli, e di chi non c'è più Giulia e mamma Monica ""vi immagino strette insieme, il vostro amore sia così forte da aiutare Elena, Davide e anche me". Non manca un appello alle istituzioni e agli uomini in primis per combattere una piaga della società dilagante, il femminicidio


Sale sull'altare alla fine della celebrazione dei funerali della figlia Giulia, papà Gino Cecchettin per darle l'ultimo saluto «è ora di lasciarti andare» ed è commosso e provato, ma come sempre pacato tanto da scusarsi per non essere riuscito a dare riscontro a tutti in questi giorni di infinito dolore. Nel suo discorso, "cercherò le parole giuste" aveva detto nei giorni scorsi, trova la forza per fare un invito a tutti - nessuno escluso - a contrastare la violenza sulle donne. In prima fila lui, i figli Elena e Davide, e i parenti stretti, hanno tutti appuntato sulla giacca il fiocchetto rosso simbolo della lotta contro la violenza alle donne.

«Abbiamo vissuto un tempo di profonda angoscia: ci ha travolto una tempesta terribile e anche adesso questa pioggia di dolore sembra non finire mai» afferma papà Gino che ringrazia chi gli è stato vicino «ne avevamo bisogno» e le istituzioni. Ci racconta Giulia «era proprio come l’avete conosciuta, una giovane donna straordinaria. Allegra, vivace, mai sazia di imparare. Ha abbracciato la responsabilità della gestione familiare dopo la prematura perdita della sua amata mamma».

Accenna alla laurea "meritata" e afferma che nonostante la giovane età "era già diventata una combattente". E poi sottolinea quella che, a tutti gli effetti, è una piaga dilagante della nostra società: «il femminicidio è spesso il risultato di una cultura che svaluta la vita delle donne». Poi l'appello, nella sua incredibilità lucidità, alle responsabilità; tante, ma una su tutte: «Quella educativa ci coinvolge tutti: famiglie, scuola, società civile, istituzioni, mondo dell’informazione».

Papà Gino sferza gli uomini «per primi dovremmo dimostrare di essere agenti di cambiamento contro la violenza di genere. Parliamo agli altri maschi che conosciamo, sfidando la cultura che tende a minimizzare la violenza da parte di uomini apparentemente normali». E si rivolge a chi è gentiore come lui: «insegniamo ai nostri figli il valore del sacrificio e dell’impegno e aiutiamoli anche ad accettare le sconfitte. Creiamo nelle nostre famiglie quel clima che favorisce un dialogo sereno perché diventi possibile educare i nostri figli al rispetto della sacralità di ogni persona, ad una sessualità libera da ogni possesso e all’amore vero che cerca solo il bene dell’altro».

Poi con coraggio affronta una realtà ineluttabile: «In questo momento di dolore e tristezza, dobbiamo trovare la forza di reagire, di trasformare questa tragedia in una spinta per il cambiamento. La vita di Giulia, la mia Giulia, ci è stata sottratta in modo crudele, ma la sua morte, può anzi DEVE essere il punto di svolta per porre fine alla terribile piaga della violenza sulle donne. Grazie a tutti per essere qui oggi: che la memoria di Giulia ci ispiri a lavorare insieme per creare un mondo in cui nessuno debba mai temere per la propria vita».

Affida alle parole di una poesia di Gibran le conclusioni per ispirarci a come "bisognerebbe imparare a vivere": La vita non è una questione di come sopravvivere alla tempesta, ma di come danzare nella pioggia.

Poi è il momento dell'addio: «Cara Giulia, è giunto il momento di lasciarti andare. Salutaci la mamma. Ti penso abbracciata a lei e ho la speranza che, strette insieme, il vostro amore sia così forte da aiutare Elena, Davide e anche me non solo a sopravvivere a questa tempesta di dolore che ci ha travolto, ma anche ad imparare a danzare sotto la pioggia». E ancora: «Cara Giulia, grazie, per questi 22 anni che abbiamo vissuto insieme e per l’immensa tenerezza che ci hai donato». E conclude: «Io non so pregare, ma so sperare: ecco voglio sperare insieme a te e alla mamma, voglio sperare insieme a Elena e Davide e voglio sperare insieme a tutti voi qui presenti: voglio sperare che tutta questa pioggia di dolore fecondi il terreno delle nostre vite e voglio sperare che un giorno possa germogliare. E voglio sperare che produca il suo frutto d’amore, di perdono e di pace. Addio Giulia, amore mio».
Chiara Pelizzoni
(fonte: Famiglia Cristiana 05/12/2023)

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Terminato il funerale nella Basilica di Santa Giustina a Padova, il feretro di Giulia Cecchettin si è avviato verso Saonara dove alle 14 ha avuto luogo una cerimonia privata.


Notizie “da prima” e l’unica trama - La Chiesa italiana sceglie la strada dell’incontro con l’umanità, metterlo in discussione è disonestà allo stato puro - Don Mattia Ferrari (Mediterranea): «Soldi alle Ong? La Chiesa lo fa in tutta Europa»

Notizie “da prima” e l’unica trama

C’è sempre stata, la Chiesa, in tutte le periferie del mondo. In Italia, certo, per collaborare a un sistema integrato e diffuso di accoglienza. Ma la Chiesa italiana è presente oggi anche in Africa, in America Latina, in Asia, in Medio Oriente e in altre zone dell’Europa con interventi mirati allo sviluppo dei popoli. Per renderli davvero, dove e quando possibile, “liberi di restare”

(Foto ANSA/SIR)

La notizia c’è. Ed è buona, in effetti: da duemila anni o giù di lì, accanto ai migranti, la Chiesa c’è. La trovi del resto soprattutto nelle situazioni di maggiore vulnerabilità e debolezza. E quindi c’è accanto a chi cerca asilo e un domani lontano da guerre e ingiustizie.
La trovi vicina a chi scappa da sete e fame e per disperazione arriva a mettere a rischio la sua stessa vita o quella dei figli che porta con sé. Sostiene chi cerca di salvare quelle vite in mare. C’è sempre stata, la Chiesa, in tutte le periferie del mondo. In Italia, certo, per collaborare a un sistema integrato e diffuso di accoglienza. Ma la Chiesa italiana è presente oggi anche in Africa, in America Latina, in Asia, in Medio Oriente e in altre zone dell’Europa con interventi mirati allo sviluppo dei popoli. Per renderli davvero, dove e quando possibile, “liberi di restare”.
Notizie – queste sì – che su “Avvenire” trovano spesso la prima pagina. Anche per dare giusta cittadinanza mediatica a chi la vede quasi sempre negata.
Scegliendo in ogni caso e senza esitazione di stare a fianco dei poveri e degli indifesi e cioè degli “ultimi”. Il magistero di Francesco è inequivocabile in tal senso. Ma i nostri lettori – e non solo loro – lo sanno. E sanno pure che questa è l’unica trama, in senso letterale, che unisce i vescovi italiani: carità nella verità. Altro sono le inchieste giudiziarie e i processi di cui ci siamo occupati e ci occuperemo. Il resto è chiacchiera.
(fonte: SIR 02/12/2023)

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La Chiesa italiana sceglie la strada dell’incontro con l’umanità,
metterlo in discussione è disonestà allo stato puro

Viviamo un momento storico inedito. Le tante incertezze stanno svelando il volto molteplice delle povertà in Italia e nel mondo. La sfida è sempre quella: ascoltare le grida d’aiuto o voltarsi dall’altra parte?

Viviamo un momento storico inedito. Le tante incertezze stanno svelando il volto molteplice delle povertà in Italia e nel mondo. La sfida è sempre quella: ascoltare le grida d’aiuto o voltarsi dall’altra parte? La Chiesa italiana – e questo è innegabile – continua a scegliere la strada che porta all’incontro con l’umanità. E lo fa in una misura che non ha eguali nel Paese, con esperienza e con intelligenza. Metterlo in discussione è disonestà allo stato puro. Così come rappresentare le Chiese in Italia allo sbando o in mani di chi non si sa, proprio come sta avvenendo in questi giorni su alcuni organi d’informazione e blog. È un’immagine talmente fuori dalla realtà da suscitare una serie di interrogativi sui veri obiettivi: se ci sono, quali sono?
 (fonte: SIR 04/12/2023)

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Don Mattia Ferrari (Mediterranea): «Soldi alle Ong? La Chiesa lo fa in tutta Europa»

Il cappellano della Mare Jonio risponde agli attacchi della stampa di destra

Il cappellano di Mediterranea don Mattia Ferrari

Da diversi giorni alcuni giornali di destra, Panorama e La Verità in testa, attaccano Luca Casarini, Beppe Caccia, don Mattia Ferrari e in generale Mediterranea Saving Humans per aver ricevuto finanziamenti dalla Chiesa. Nelle tante pagine pubblicate c’è un uso disinvolto delle intercettazioni realizzate dai pm di Ragusa per l’inchiesta contro l’Ong sul caso Maersk Etienne, che domani avrà l’udienza preliminare, ma non si ravvisa praticamente nulla sul piano penale. Le donazioni delle chiese ai soccorritori del Mediterraneo, del resto, sono pratica nota e diffusa, anche oltre i confini italiani. Tra i personaggi tirati maggiormente in ballo c’è il presidente della Cei Matteo Zuppi. Abbiamo parlato della vicenda con don Mattia Ferrari, cappellano di Mediterranea.

Finalmente la Chiesa cattolica sostiene e finanzia chi si impegna a salvare i migranti che rischiano di morire affogati nel «cimitero» del Mediterraneo, come lo chiama spesso papa Francesco.

Il sostegno economico della Chiesa cattolica alle organizzazioni che soccorrono i migranti non è una novità. Anche in altri paesi europei le Chiese cristiane, sia cattoliche che protestanti, lo fanno. La Chiesa è presente ovunque, in terra e in mare, accanto a chi soffre: questo è semplicemente Vangelo. La missione della Chiesa è continuare l’opera di Gesù. Se la Chiesa è scomoda, il vero “colpevole” è Gesù.

Chi sono i principali sostenitori economici di Mediterranea?

Mediterranea ha ricevuto e riceve donazioni da varie realtà, sia laiche che cattoliche. Fra gli organismi e gli enti ecclesiastici, a finanziarla sono soprattutto le parrocchie, che organizzano eventi dedicati alla raccolta fondi per sostenere la sua attività e quella di altre Ong, e poi alcune diocesi.

Panorama parla di 780mila euro donati nel 2023 da alcune diocesi italiane e di altre donazioni fin dal 2020, per un totale di due milioni di euro…

Le cifre ricevute sono molto inferiori ai due milioni di euro di cui è stato scritto e vanno dal 23 al 27% delle donazioni complessive che Mediterranea ha ottenuto. Aggiungo che tutto è sempre avvenuto nella totale legittimità e trasparenza.

Secondo alcuni è scandaloso che la Chiesa finanzi una Ong contro cui si aprirà domani un processo per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. Come è andata quella storia?

Su questa vicenda non posso rispondere, visto che c’è un procedimento in corso. Rimando alle dichiarazioni degli indagati, che hanno già chiarito e spiegato la loro fiducia nella verità.

Dalle intercettazioni telefoniche rivelate da alcuni organi di stampa sono emerse, durante le conversazioni private fra lei, Casarini e Caccia, alcune frasi un po’ sopra le righe…

Sia i diretti interessati che Mediterranea stanno preparando le querele, potrò esprimermi nei prossimi giorni, appena le avremo depositate.

Si parla anche di un progetto per coinvolgere le parrocchie, in una sorta di “adozione a distanza” delle missioni di Mediterranea: che ne è stato?

Più che un progetto, è un cammino, un percorso di coinvolgimento. Spesso non siamo noi a bussare alle porte delle parrocchie, ma sono loro a chiederci di poter camminare con noi. Mediterranea è una realtà che fin dalla sua nascita unisce persone e mondi: tanto parrocchie quanto centri sociali e associazioni di altro tipo partecipano a questo cammino, perché nasce come piattaforma tra persone provenienti da mondi anche lontanissimi, che si mettono insieme per salvare i migranti da naufragi e respingimenti e, in questo modo, dare carne alla giustizia e alla fraternità. Il sostegno economico è solo un aspetto di questo coinvolgimento, che comprende anche e soprattutto iniziative e azioni concrete.

Dopo la pubblicazione delle inchieste giornalistiche teme che i rapporti con i vescovi possano incrinarsi?

La nostra azione di raccolta fondi era ed è finalizzata esclusivamente a salvare le vite in mare. Questo è chiaro, non c’è stato nessun inganno, di conseguenza nessuno è arrabbiato, nemmeno tra i vescovi chiamati in causa. Voglio però aggiungere che questa accentuazione del ruolo delle singole persone è fuorviante: nessuno di noi è indispensabile. Il mio ruolo è stato esasperato negli articoli usciti nei giorni scorsi: in realtà io sono solo uno dei tanti, nella Chiesa e non solo, dentro questo cammino. Ci sono e ci saranno sempre persone che porteranno avanti la missione di essere accanto a chi soffre, di lottare per la giustizia, di costruire un altro mondo possibile.
(fonte: Il Manifesto, articolo di Luca Kocci 05/12/2023)