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giovedì 31 maggio 2018

Omelia p. Alberto Neglia (VIDEO) - Santissima Trinità (B) - 27/05/2018


Omelia p. Alberto Neglia

- Santissima Trinità (B) -
27/05/2018


Fraternità Carmelitana
di Barcellona Pozzo di Gotto



... L'importante è, aldilà di lasciare le nostre paure, essere capaci di uscire e metterci in cammino verso Dio; ma quando camminiamo verso Dio necessariamente ci incamminiamo verso i fratelli, perché Dio non ci vuole solo per sé ... Lui, che eccelle in bontà, ci rende capaci di eccellere, di uscire e di raggiungere tutti ... 
Gesù ci raggiunge nei nostri dubbi, nelle nostre perplessità, nelle nostre paure, Gesù non si stanca mai di raggiungerci ... 
Tutti noi siamo stati battezzati nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo, cioè siamo stati immersi in Cristo Gesù nel cuore del Padre e nel dono dello Spirito Santo e quindi portiamo anche noi questo grande dono nel nostro cuore, perché non basta essere immersi con il Battesimo, ma poi bisogna quotidianamente aderire, dire sì, acconsentire a che questa presenza di Dio nella nostra vita si manifesti, e non è facile ... però Gesù ci dice "Io sarò con voi tutti i giorni fino alla fine del tempo, io vi accompagno sempre, non siete soli". 
Fratelli nell'affrontare la vita non siamo soli, siamo in compagnia di questo Dio che ci dona il suo respiro, che ci dona il Figlio suo Gesù, che ci fa crescere come figli ... e adesso chi può rendere presente Dio in questo mondo siamo noi ...


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Per la Festa della Repubblica Italiana del 2 giugno 2018 l’Arcivescovo di Bologna mons. Zuppi lancia il Te Deum per la Patria in ogni comunità della Diocesi



COMUNICATO STAMPA 
Messaggio dell’Arcivescovo di Bologna per la Festa della Repubblica Italiana del 2 giugno 2018 

La festa del 2 giugno ha quest’anno un carattere particolare: cade nel 70° dell’entrata in vigore della Costituzione Repubblicana e della prima elezione del Capo dello Stato. Spinto dal recente Congresso Eucaristico Diocesano, che ha rinnovato il legame tra Chiesa e Città degli uomini, considerando anche le difficoltà degli ultimi avvenimenti, desidero invitare tutti i credenti a innalzare a Dio un ringraziamento per il tanto che ci unisce e a pregare per il nostro Paese. 

La Costituzione non è un retaggio del passato ma il fondamento della nostra casa comune, il deposito di valori che sono le radici senza le quali non si può costruire il futuro. I Padri costituenti avevano profonda speranza nonostante la terribile epifania del male e della forza distruttiva dell’uomo. Essi resero le sofferenze vissute dalla loro generazione - il fascismo, la tragica esperienza della guerra mondiale – una visione per chi sarebbe nato dopo. Non rimasero indecisi e non imposero interessi di parte, ma uniti si accordarono, dopo un confronto forte, consapevoli di un unico destino per tutti. 
Nel suo settantesimo dobbiamo loro rispetto vero e gratitudine consapevole, perché la Costituzione ha permesso e orientato la costruzione di una società democratica e fornisce ancora lo spirito ed i criteri guida per una convivenza nella giustizia e nel rispetto per ogni persona. Essa garantisce diritti e doveri ed indica la responsabilità di tutti nella costruzione della casa comune che è il nostro Paese. Il suo spirito certamente ne rappresenta anche un’indicazione di metodo per il futuro.
In essa appare chiaro come la vitalità di una società sia frutto della responsabilità dei cittadini e del loro impegno
Tutti siamo chiamati a sviluppare la nostra propria personalità e possiamo crescere in comunità e verso la comunità, perché la persona si sviluppa nella rete dei gruppi sociali (art. 2), prima di tutto nella fondamentale struttura naturale e sociale che è la famiglia (art. 29). I doveri di solidarietà non vanno mai trascurati (art. 2) in vista di scopi sociali e impegni comunitari. Anche le stesse libertà di iniziativa economica e la proprietà privata devono avere una funzione sociale e una prospettiva di crescita umana (art. 41 e 42). Le strutture pubbliche rappresentano i piloni di questa costruzione. A volte notiamo verso di esse un senso di sfiducia, tanto che si pensa necessario arrangiarsi, cercare una via di convenienza individuale. Bisogna perciò ringraziare quanti le onorano con generosità e spirito di servizio, ricordando che è necessario impegnarci perché le regole della casa comune, i diritti e doveri, siano tali per tutti e tutti abbiamo fiducia in essi. I nuovi italiani ci aiutano ad esserlo di più e ci chiedono proprio questo. 
Pensiamo che la grandezza di una patria sia nel garantire il bene dei suoi cittadini e di ogni uomo. L’Italia deve essere grande perché grande è l’umanesimo che eredita, in tanta parte eredità del cristianesimo e che le è affidato, ricchezza di storia, di cultura, di capacità che permettono di non avere paura e di guardare il futuro rendendo tutti, nuovi e vecchi, davvero italiani, scegliendo una politica del lavoro e della famiglia lungimirante e stabile, identificando le scelte per una accoglienza che esca dall’emergenza, gestisca i flussi e garantisca rispetto della vita di ogni persona che è sempre sacra per tutti. 
La Costituzione italiana esprime un progetto di società nella quale la comunità è elemento fondamentale per dare valore all’individuo. Non c’è l’io senza il noi. All’inizio di questo cammino c’è l’educazione civica, da rilanciare con impegno e determinazione, nelle scuole come nella vita ordinaria, favorendo l’attenzione di tutti a rispettare le regole comuni, perché se manca questo cresce la maleducazione civica, l’arbitrio e, di fatto, l’ingiustizia. Tommaso Moro nel libro che l’ha reso famoso, intitolato “Utopia”, scrisse: “meglio e più saldamente si legano fra loro gli uomini con sentimenti amichevoli anziché con trattati, con lo spirito anziché con parole”. Ne abbiamo tutti tanto bisogno per guardare con fiducia il nostro futuro, perché l’Europa intera possa rappresentare i valori sui quali è costruita e non perdere quell’umanesimo che tanto deve al suo fondamento cristiano. 
In questo la Chiesa desidera offrire il proprio contributo specifico perché sa di essere popolo costituito da tutti i popoli della terra, “segno e strumento dell’intima unione con Dio e dell’unità di tutto il genere umano” (LG 1). 

La Chiesa di Bologna ringrazia il Signore per questo lungo periodo di pace e partecipa a questa festa di tutti noi – europei ed italiani per nascita, storia o vocazione – e della Costituzione, perché la nostra casa comune possa rispondere alle sfide che occorre affrontare. 
Desidero che in ogni comunità della Diocesi, al vespro di venerdì 1 giugno o nella giornata di sabato 2 giugno, si canti l’inno di ringraziamento “Te Deum” e si innalzino preghiere e suppliche per la nostra Patria, chiedendo la grazia di un rinnovato impegno di tutti per il bene comune. 

+ Matteo Zuppi Arcivescovo di Bologna 

Preghiera in occasione della Festa della Repubblica Italiana 2 giugno 2018 

Nella preghiera dei fedeli si inseriscano le seguenti intenzioni. 
- Per la nostra Patria, perché, fedele alla sua tradizione, custodisca i valori che fondano la sua millenaria civiltà, e concorra efficacemente all'edificazione di una vera casa comune nell’Europa e nel mondo. Preghiamo. 
- Per il Presidente della Repubblica, i legislatori, i governanti, gli amministratori, i tutori della libertà e dell'incolumità dei cittadini, perché, sempre attenti ai bisogni dei più deboli e indifesi, promuovano con onestà e saggezza ciò che giova alla crescita di tutto il popolo. Preghiamo. 

Al termine della preghiera dopo la Comunione, il presidente invita al canto di ringraziamento 
Si canta il Te Deum. 

Terminato il canto si recita la seguente Preghiera per l’Italia composta da S. Giovanni Paolo II 15 marzo 1994: 
O Dio, nostro Padre, ti lodiamo e ringraziamo. 
Tu che ami ogni uomo e guidi tutti i popoli 
accompagna i passi della nostra nazione, spesso difficili ma colmi di speranza. 
Fa’ che vediamo i segni della tua presenza e 
sperimentiamo la forza del tuo amore, che non viene mai meno. 

Signore Gesù, Figlio di Dio e Salvatore del mondo
fatto uomo nel seno della Vergine Maria, ti confessiamo la nostra fede. 
Il tuo Vangelo sia luce e vigore per le nostre scelte personali e sociali. 
La tua legge d’amore conduca la nostra comunità civile 
a giustizia e solidarietà, a riconciliazione e pace. 

Spirito Santo, amore del Padre e del figlio con fiducia ti invochiamo. 
Tu che sei maestro interiore svela a noi i pensieri e le vie di Dio. 
Donaci di guardare le vicende umane con occhi puri e penetranti, 
di conservare l’eredità di santità e civiltà propria del nostro popolo, 
di convertirci nella mente e nel cuore per rinnovare la nostra società.
 
Gloria a te, o Padre, che operi tutto in tutti. 
Gloria a te, o Figlio, che per amore ti sei fatto nostro servo. 
Gloria a te, o Spirito Santo, che semini i tuoi doni nei nostri cuori. 
Gloria a te, o Santa Trinità, che vivi e regni nei secoli dei secoli. 
Amen. 

Quindi la celebrazione si conclude con la benedizione e il congedo.



IL VANGELO DELLA FINANZA di Gianfranco Ravasi




IL VANGELO DELLA FINANZA 
di Gianfranco Ravasi







Se è vero che il cristianesimo ha nel suo cuore l’“incarnazione” per cui il Lógos divino “diviene carne”, è naturale che Cristo e la Chiesa delle origini siano stati coinvolti nelle coordinate storiche non solo religiose, culturali e politiche del I secolo, ma si siano confrontati anche con l’economia. Se stiamo solo ai Vangeli, un dato impressionante che subito ci viene incontro è l’uso del linguaggio finanziario in senso stretto. Si va dal dénarion (presente 16 volte), moneta argentea equivalente alla paga giornaliera di un operaio (chi non ricorda i 30 denari di Giuda?), alla dráchma della parabola lucana della casalinga sbadata e persino al didráchmon attico d’argento, detto anche statèr, che Pietro estrae dalla bocca del pesce per pagare, a nome suo e di Gesù, la tassa dovuta al tempio. Così come non mancano i due estremi del “talento” dal valore altissimo (potremmo dire oggi un milione di euro o più), citato nei Vangeli ben 14 volte, e del modestissimo “quadrante” di bronzo che la vedova povera offre per il tempio attraverso l’equivalente di due leptà, spiccioli. Per ben 20 volte si parla, poi, in generale di argýrion, cioè della moneta d’argento. Non si può neppure ignorare che si evoca da parte dello stesso Gesù la necessità dell’investimento dei beni finanziari: emblematica, al riguardo, è la nota parabola dei talenti, ove entrano in scena anche i banchieri e persino l’“interesse” (tókos) da ricavare sui depositi bancari.
Partiamo da un passo fondamentale, un celebre lóghion o detto di Cristo, simile quasi a un tweet (in greco sono 54 tra caratteri e spazi): “Rendete a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio”. In questione è il nómisma, cioè il tributo per legge (nómos) che era imposto dall’esoso fisco romano ai cittadini delle nazioni sottomesse. La lapidarietà dell’affermazione di Gesù ha come corollario necessario la ben più complessa applicazione nella concretezza storica.
Nella visione cristiana economia e politica, da una parte, ed etica e religione, dall’altra, sono nettamente distinte. Non appartiene, perciò, al cristianesimo una concezione teocratica come quella di alcuni Stati “islamici”, retti dalla shar’ia, per cui il codice di diritto canonico e quello civile-penale coincidono. Tuttavia, distinzione non significa opposizione o negazione, come accade appunto sia nella teocrazia sacrale, sia nella secolarizzazione laicista. Non significa neppure totale separazione, perché unico è l’oggetto dell’economia/politica e della fede, cioè la persona umana. Ecco perché, accanto alla moneta di Cesare, Cristo introduce implicitamente un’altra “moneta” che ha su di sé un’immagine diversa, quella di Dio, ossia la persona umana. È ciò che affiorava nella mente dell’uditorio di Gesù che ben conosceva l’asserto della Genesi: “Dio creò l’uomo a sua immagine, a immagine di Dio lo creò”.
C’è, dunque, una dignità umana sulla quale non può prevaricare la pur necessaria economia che non deve assurgere a dogma unico e a norma esclusiva, come si è purtroppo sperimentato in certe vicende finanziarie recenti. Per questo, sulla scia dei profeti (si pensi solo ad Amos), la voce di Cristo si leverà forte e chiara contro la corruzione, la ricchezza sfrenata, gli squilibri sociali: in questi casi la finanza diventa mammona, un termine di matrice fenicia che trasforma denaro e ricchezza in idolo. Non per nulla alla base di questo vocabolo si ha la stessa radicale ’mn che indica il “credere” (vedi il nostro amen). Si ha, quindi, il contrasto tra due fedi antitetiche.
È interessante leggere il paragrafo che segue la parabola lucana dell’amministratore corrotto ma astuto, ove l’evangelista ha raccolto detti pronunziati da Gesù in contesti diversi, ma con lo stesso filo conduttore “economico”. Citiamo solo questo lóghion: “Nessun servitore può servire due padroni, perché o odierà l’uno e amerà l’altro, oppure si affezionerà all’uno e disprezzerà l’altro. Non potete servire Dio e la ricchezza”. Significativa è un’altra affermazione nella quale è introdotta la speculazione finanziaria: “Io vi dico: fatevi degli amici con la ricchezza disonesta, perché, quando questa verrà a mancare, essi vi accolgano nelle dimore eterne…”. Gesù invita chi si è comportato così a “farsi amici” i poveri con la donazione a loro di questa ricchezza disonesta. Sarà un ottimo investimento perché essi, che sono i privilegiati di Dio, ci apriranno le porte delle “dimore eterne”, ossia della salvezza finale nell’incontro pieno e perfetto con Dio. Cristo, pur così critico nei confronti della ricchezza tanto da confessare di non possedere neppure una pietra ove posare il capo, non propone un retorico pauperismo che postula il puro e semplice rigetto del denaro. Infatti, al giovane ricco, per accoglierlo tra i suoi discepoli, dichiara: “Se vuoi essere perfetto, va’, vendi quello che possiedi e dallo ai poveri, e avrai un tesoro nel cielo”. È, quindi, un vero “investimento” nella carità e nella koinonía fraterna, come accadrà nella comunità cristiana di Gerusalemme.
Un’ultima considerazione di indole generale ci può essere offerta dal confronto a dittico attraverso due parabole “economiche” di Gesù, scandite proprio dal denaro come componente strutturale, sia pure metaforica. La prima è quella matteana degli operai a impiego temporaneo. Gli elementi simbolici sono due: gli orari diversi di assunzione (alba, nove del mattino, mezzogiorno, le tre e le cinque pomeridiane) e l’unico salario fissato, il già noto “denaro”.
Ovviamente il testo non vuole proporsi come modello per le relazioni industriali e sindacali. Il suo significato, infatti, attraverso la scansione oraria e quel “denaro”, è orientato a illustrare due dimensioni fondamentali della fede. Da un lato, ci sono le “opere” umane, il lavoro, cioè il “merito”: l’impegno delle persone deve attuarsi secondo la propria vocazione, alta o semplice che sia; di livello intenso come chi riesce a colmare un’intera giornata con opere straordinarie, oppure di basso profilo in chi riesce a offrire solo pochi risultati, dato il suo limite di essere uno dell’ultima ora e, quindi, con capacità personali ridotte.
D’altro lato, la grazia e la ricompensa divina trascendono il limite umano e a chiunque si è impegnato con fedeltà e generosità – in qualsiasi grado dello statuto sociale, della capacità e della dotazione intellettuale o pratica egli sia collocato – è donato da Dio lo stesso “denaro”, cioè la ricompensa del Regno. Grazia e merito s’incrociano tra loro: in questa parabola l’accento cade sulla prima componente, la donazione divina (il denaro dato a tutti).
Qualcosa del genere è affermato anche in un’altra parabola “economica”, quella del re generoso e del servo egoista, ove si contrappone la cifra colossale del debito dei 10.000 talenti, condonato dal sovrano, rispetto ai 100 denari che, invece, il servo spietato esige dal suo collega.
Alla grazia divina non corrisponde, in questo caso, la risposta umana.

(Fonte: Fatto Quotidiano del 30.05.2018)


mercoledì 30 maggio 2018

Prima il bene comune. Appello del presidente della Cei

Prima il bene comune.
Appello del presidente della Cei 
mons. Gualtiero Bassetti


Di fronte alla crisi sociale e politica in cui è precipitata la «nostra diletta Italia» ogni persona di buona volontà ha il dovere di rinnovare il proprio impegno, ciascuno nel suo ruolo, per il bene supremo del Paese. Mai come oggi c’è un urgente bisogno di uomini e donne che sappiano usare un linguaggio di verità, parlando con franchezza, senza nascondere le difficoltà, senza fare promesse irrealizzabili ma indicando una strada e una meta. Questo è il tempo grave della responsabilità e non certo dello scontro istituzionale, politico e sociale. Per il bene delle famiglie, dei giovani e dei figli del popolo italiano.

Invito tutti gli uomini e le donne di buona volontà affinché si prendano cura del nostro amatissimo Paese con un umile spirito di servizio e senza piegarsi a visioni ideologiche, utilitaristiche o di parte. E rinnovo l’appello di don Luigi Sturzo a «tutti gli uomini liberi e forti, che in questa grave ora sentono alto il dovere di cooperare ai fini superiori della Patria». È infatti eticamente doveroso lavorare per il bene comune dell’Italia senza partigianeria, con carità e responsabilità, senza soffiare sul fuoco della frustrazione e della rabbia sociale. Una rabbia che in queste ore trova drammaticamente spazio in uso irresponsabile ed esecrabile dei social network persino contro la persona del Presidente della Repubblica e la sua misurata e saggia azione di garanzia di tutti i concittadini.

Mai come in questi giorni c’è assoluto bisogno di rispettare la volontà popolare, che si è espressa liberamente il 4 marzo, e tutte le Istituzioni civili che rappresentano l’architrave insostituibile della nostra democrazia e della nostra libertà: dalla più elevata, il Capo dello Stato, alla più rappresentativa, il Parlamento.

In questo momento difficile servono, dunque, parole di concordia e di dialogo per abbattere i muri di inimicizia e per superare lo spirito di divisione che sembra diffondersi nel Paese. Noi tutti rivestiti di responsabilità abbiamo il compito, per primi, di pacificare gli animi e di dare dei segnali concreti di speranza attraverso un linguaggio sobrio e consapevole. E oggi, tutti assieme, con carità e con senso del dovere, possiamo scrivere la prima pagina, forse la più importante.

Nel nome dell’Italia e dell’unità del Paese.
Esorto, quindi, tutti i credenti a pregare, e tutti gli italiani a lavorare, insieme, per la custodia e la salvezza del nostro grande e bellissimo Paese. A questo proposito, faccio mie alcune preziose parole della preghiera per l’Italia scritta da san Giovanni Paolo II: «O Dio, nostro Padre, ti lodiamo e ringraziamo. Tu che ami ogni uomo e guidi tutti i popoli, accompagna i passi della nostra nazione, spesso difficili ma colmi di speranza. (…) La tua legge d’amore conduca la nostra comunità civile a giustizia e solidarietà, a riconciliazione e pace». Che Dio benedica l’Italia!


29/30 maggio i vescovi africani in pellegrinaggio a Lampedusa

29/30 maggio 
i vescovi del Burkina Faso-Niger per due giorni in pellegrinaggio a Lampedusa per pregare Dio per le vittime delle migrazioni nel Mediterraneo e per ringraziare la popolazione dell'isola per l'accoglienza di tanti anni.


Preghiera e ringraziamento: con questi due obiettivi una rappresentanza dei vescovi della Conferenza episcopale del Burkina-Niger a margine della Visita ad Limina di questi giorni in Vaticano, ha deciso di trasferirsi a Lampedusa e, nell'isola siciliana, ricordare tutti i migranti vittime dei naufragi nel Mediterraneo.

Due giorni intensi di incontri, a partire da martedì pomeriggio, con la visita al centro di accoglienza di Lampedusa e al monumento Porta d'Europa, quindi in serata la Santa Messa nella Parrocchia dell'isola. Mercoledì invece i vescovi, accompagnati da rappresentanze istituzionali nazionali e locali, hanno reso omaggio alle migliaia di vittime dei naufragi con la sosta al cimitero e al Molo della Madonnina da cui partono tanti i soccorsi e al quale approdano altrettante vite in cerca di un futuro. Al termine della giornata quindi il lancio di una corona di fiori in mare a bordo di una motovedetta del Corpo della Capitaneria per rendere omaggio ai tanti che in quel mare hanno perso la vita
.
 
A guidare la delegazione dei vescovi africani, il presidente della Conferenza episcopale Burkina-Niger, mons Paul Y. Ouedraogo, arcivescovo di Bobo-Dioulasso in Burkina Faso.

Si tratta della prima volta che dal continente africano una delegazione di alto livello - insieme ai vescovi c'è una rappresentanza del governo del Burkina Faso - si reca a Lampedusa per attirare l'attenzione sul dramma delle migrazioni, come ha spiegato il cardinale nel suo discorso, che riportiamo integralmente: 

"Qui sulla Porta d'Europa dell'isola di Lampedusa giungono i superstiti della grande traversata. Questo monumento ci ricorda tutti coloro che, per fuggire un destino incerto, hanno lasciato casa loro e si sono incamminati nel deserto fino al mare. 
Molti sono morti nel deserto, lontano dagli occhi di tutti. Non ne conosciamo il numero. Molti altri sono morti tra le acque del Mediterraneo. Di costoro conosciamo almeno una stima: dagli anni Novanta circa 34.000. Sono uomini, donne e bambini che giacciono sul fondo del mare senza aver toccato la riva. 
Infatti dalla fine degli anni Novanta questa isola è uno dei principali approdi dei tanti sbarchi provenienti dall’Africa, il nostro continente, ma anche dall’Oriente. 
Noi oggi siamo qui per commemorare tutti coloro che non ce l’hanno fatta, per ricordare le loro vite, davanti a questa porta d’Europa. 
I numerosi relitti sparsi per l`isola ricordano tante storie dolorose. Questa isola così vicina all'Africa è il primo approdo europeo, rappresenta la speranza, potremmo dire una “porta della vita”
Ci sono altri luoghi simili in Africa, dall’altra parte del mare, ma molto diversi. Ci sono altre “porte”: quelle del “non ritorno” da cui passavano gli schiavi che venivano portati via per sempre durante la tratta. Come a Gorée, come a Ouidah: porte senza speranza. Questa invece è una porta di speranza, di vita. 
Tanti responsabili europei si sono recati in questo luogo per riconoscere a Lampedusa il nome di grande porta dell`Europa aperta verso il Sud. La porta di una casa comune, un pezzo d`Italia che apre all’Europa. Qui Europa e Africa conoscono un nuovo incontro, di cui tanto si discute nella politica di oggi. Molti dicono in Europa che i migranti “sono troppi”, che l’Europa non ce la fa ad accogliere tutti. Ma anche in Africa molti responsabili si disinteressano della sorte di chi fugge e rischia la vita. 
Credo che nessun responsabile africano sia mai venuto qui a Lampedusa. Noi ci siamo anche per dire che la responsabilità di tante vite perdute e anche di quelle che sono arrivate, è anche africana. Non ci si può disinteressare di una folla così grande di persone che scappa perché pensa che non ci sia futuro nel proprio paese e lo va a cercare altrove. Siamo dunque qui per dimostrare il nostro interesse e la nostra presa di responsabilità. 
Dai due lati del mare ci si è troppo abituati alle morti in mare. Non ci si commuove più. Bisogna interrompere la catena di morti. L’Europa dei responsabili pensa a difendersi dai rifugiati; l’Africa dei responsabili chiude gli occhi e gira la testa dall’altra parte. Questo duplice atteggiamento di negazione non può continuare. 
Papa Francesco ha compiuto proprio qui il suo primo viaggio fuori Roma dopo la sua elezione. E’ stata una scelta particolare: recarsi in periferia, sull'estrema frontiera meridionale dell'Europa, verso Sud, a pregare per i caduti in mare. Ha gettato così il suo sguardo verso il grande Sud: le miserie, le guerre, il fondamentalismo ma anche la contraddizione tra grandi ricchezze e povertà. Lo ha fatto a partire dal dolore dei migranti, conseguente rispetto alla scelta di una Chiesa povera, amica dei poveri. 
Guardare ai poveri è premessa di uno sguardo universale. Da africani siamo venuti qui sui passi del Papa, per dire che in questo luogo, davanti a queste vite che cercano salvezza e a queste morti, deve potersi ricreare un nuovo spirito di convivenza tra Europa e Africa. 
Proprio in questo luogo può nascere una nuova solidarietà tra i due continenti, non basata solo sugli interessi economici o politici ma sul diritto alla vita. E in questa prospettiva come africani vogliamo anche noi prenderci la nostra parte di responsabilità: se tanta gente fugge dai propri paesi è perché in Africa non c’è ancora sufficiente democrazia, non c’è ancora giusta convivenza, non esiste ancora abbastanza uguaglianza che faccia posto a tutti. Lo testimoniamo noi del Burkina Faso dove recentemente c’è stato un cambiamento in senso più democratico. Ma ora è necessario anche lottare contro la corruzione e gli interessi occulti, e in questa lotta c’è bisogno dell’aiuto di tutti. 
Non posso terminare questo mio messaggio senza ringraziare i lampedusani e gli italiani che hanno salvato, soccorso e accolto così tanti africani e gente di altra provenienza. Un particolare ringraziamento alla Comunità di Sant’Egidio, alle chiese protestanti e alla chiesa cattolica italiane per aver creato i “corridoi umanitari” che permettono passaggi sicuri e senza rischio per i più vulnerabili. Sono una strada di speranza per l’avvenire. 
A loro e a voi lampedusani, siciliani e italiani la nostra riconoscenza: il vostro impegno di umanità sarà certamente ricordato per sempre. Rappresenta quella scintilla dell’umano che può salvarci tutti".








“Divorare il cielo” di Paolo Giordano - Recensione di Aldo Pintor


“Divorare il cielo” 
di Paolo Giordano

Recensione di Aldo Pintor





Devo dire che “La solitudine dei numeri primi” con cui il giovane fisico torinese Paolo Giordano ha esordito nella narrativa non mi aveva convinto tanto. Mi era parsa una storia adolescenziale piuttosto deprimente e priva di speranze oltre a non dire nulla di nuovo. Però mi sono lasciato convincere dall'ambientazione pugliese e ho dato un ulteriore possibilità a questo giovane scrittore leggendo la sua seconda prova narrativa.

Ammetto che sono particolarmente affascinato da due regioni, la Puglia e la Sicilia. Terre assolate e con una cucina molto ricca e molto varia e con tale varietà di testimonianze storico artistiche da farne in questo campo tra le più ricche d'Europa. Così dopo alcune perplessità comincio la lettura di “Divorare il cielo” (Einaudi pp. 430 € 22,00), secondo romanzo del nostro giovane fisico.

Il libro ci parla di Teresa una ragazza ventenne di Torino che passa le estati nella masseria di famiglia in Puglia, terra d'origine del padre. Durante le sue vacanze estive in una calda notte mediterranea avviene per lei un incontro che condizionerà il suo futuro. Accade che un suo coetaneo di nome Bern penetra abusivamente nella sua casa per potersi bagnare nella piscina. Qui i due ragazzi si conoscono e Teresa rimane affascinata dalla personalità di Bern. Questi vive insieme ad altri due coetanei: Tommaso e Nicola, insieme ai genitori di Nicola in una specie di comunità alternativa in una masseria del paese. Ognuno di loro ha delle carenze legate alla figura paterna. Non vanno a scuola ma possiedono una vasta cultura che si sono fatti autonomamente fuori dai circuiti ufficiali. Tra le loro letture preferite figura la Bibbia di cui hanno una approfondita conoscenza. Oltre a questo credono nella reincarnazione e sono vegetariani. In paese sono considerati stravaganti e sono chiamati con una punta di disprezzo come “quelli della masseria”. Ma in Teresa questo incontro suscita inquietudine per “quel desiderio inesausto e inesauribile di divorare il cielo e di inghiottire tutta intera la vita”, così dice il libro. I ragazzi possiedono l'aspirazione a una utopia, a una vita piena che coinvolga anche l'aspetto sessuale. Al sesso infatti sono dedicate tante e accurate pagine del libro in quanto che ci piaccia o meno è strettamente legato all'affettività delle persone. Pertanto una autentica maturità umana non può prescindere anche da una maturità sessuale. Anche Dio in questo libro è fatto oggetto di ricerca e di tensione. Bern alterna momenti di scettismo assoluto con momenti di professione di fede ardente ma non abbandona mai la ricerca. Le esistenze di questi quattro ragazzi che stanno ormai affacciandosi dolorosamente all'età adulta si intersecano con altri personaggi ed eventi. Sempre presenti deboli figure paterne non sempre all'altezza e alla delicatezza del compito che imporrebbe il loro ruolo e madri comunque più forti anche se relegate in secondo piano. In queste sequenze di incontri di persone e eventi trascorrono le loro vite. A rendere più bella la vita dei protagonisti nel libro compaiono due bambine, due promesse di un futuro. Una bambina che si chiama Ada e poi c'è la figlia cui Teresa rivolge parecchi racconti del suo incontro con Bern. Certo che questo vedere nei figli una promessa di un futuro è qualcosa che qui in Occidente si è proprio dimenticato e si vive come se la giovinezza dovesse durare per sempre. A questo ci ha portato il consumismo nihilista da cui siamo afflitti. Pertanto siamo grati a Paolo Giordano che ha sottolineato questo importante aspetto dell'esistenza. Il romanzo è attraversato da una tensione continua. La tensione di cercare di conoscere i nostri fratelli in umanità. Tensione che sfocia in una ricerca perenne. Infatti nel libro è detto “si impiega moltissimo tempo a capire qualcosa di una persona” troppo tempo, la verità sulle persone, su chiunque semplicemente non esiste. Eppure nonostante questa difficoltà quasi insormontabile i due continueranno senza tregua a cercarsi fino alla conclusione del romanzo.

Certamente trovo maturato lo stile di Paolo Giordano rispetto alla “Solitudine dei numeri primi”. Anche quest'opera come la precedente comunque parla di solitudine. Una solitudine spesso condivisa con altri ma sempre solitudine. Dalla solitudine si esce unicamente con la ricerca. Ricerca di cui nessuno nega la difficoltà che fanno in modo diverso parte delle esperienze di ciascuno di noi. La ricerca di un qualche assoluto, assoluto che alla fine si rivela ogni volta che ricerchiamo in profondità i nostri fratelli di umanità che incontriamo lungo il cammino della nostra vita. 



L’urgenza della gioia · Una lettura della «Gaudete et exsultate» di Enzo Bianchi

L’urgenza della gioia
Una lettura della 
«Gaudete et exsultate» 
di Enzo Bianchi



Papa Francesco ha donato alla chiesa universale un’esortazione apostolica, la terza dopo Evangelii gaudium (2013) e Amoris lætitia (2016), sulla chiamata alla santità nel mondo contemporaneo. Questa esortazione porta significativamente il titolo Gaudete et exsultate, dunque è un invito alla gioia e all’esultanza rivolto a tutti i cristiani. Anche solo in questo titolo risuona un’urgenza evangelica alla quale Papa Francesco è molto attento, perché la ritiene decisiva nella vita dei discepoli di Gesù: l’urgenza della gioia, che è gioia del Vangelo, letizia dell’amore, esperienza gioiosa della comunione con il Signore Gesù.

Conosciamo i rimproveri rivolti a noi cristiani in particolare da Friedrich Nietzsche all’inizio del secolo scorso, sul nostro volto che sovente appare triste, stanco, depresso, astenico e addirittura cinico. Siamo schiacciati dal peso dei precetti, in profonda contraddizione con il messaggio del Vangelo che è “buona notizia”, annuncio che dovrebbe destare gioia ed esultanza: la gioia che nasce da un incontro che dà senso all’esistenza; la gioia della scoperta di un tesoro incalcolabile; la gioia della liberazione, della pienezza di vita che il Signore offre a chi accoglie il suo amore, che mai deve essere meritato. I cristiani dimenticano purtroppo che la gioia è un comando apostolico, rivolto da Paolo alla chiesa: «Rallegratevi sempre nel Signore, ve lo ripeto: rallegratevi!» (Filippesi 4, 4). Dimenticano che la gioia è un esercizio da compiersi nella lotta contro l’acedia, contro la tristezza mondana; che la gioia è una confessio laudis che canta l’azione di Dio in noi e nella storia; che la gioia è il dono del Risorto che niente e nessuno può rubare (cfr. Giovanni 15, 11; 16, 20-22). È significativo che già Paolo VIaveva avuto l’audacia di scrivere un’esortazione apostolica intitolata Gaudete in Domino (1975), chiedendo ai cristiani che la loro vita fosse capace di mostrare la gioia della fede, della speranza e dell’amore che abitano nei loro cuori.

Francesco sottolinea dunque che la via della santità deve innanzitutto essere contrassegnata dalla gioia, quella gioia «frutto dello Spirito» (Galati 5, 22), che è stata manifestata dai santi nella loro vita ed è stata buona notizia per i loro fratelli e le loro sorelle. Sì, noi discepoli e discepole di Gesù sulle vie del mondo siamo circondati da una moltitudine di testimoni (cfr. Ebrei 12, 1), non siamo soli, ma siamo immersi in una comunione di vita, di sentimenti e di preghiera che ci rende amici di Dio, insieme.

All’interno di questa visione della grande nuvola di testimoni, Papa Francesco ricorda che la chiamata alla santità è rivolta a tutti i cristiani e che, certi di questa chiamata universale, dovremmo essere capaci di fare discernimento dei «santi della porta accanto», che magari incontriamo sullo stesso pianerottolo, sul lavoro o per le strade: santi quotidiani, uomini e donne che, nella semplicità di una vita che non appare e non si impone, tuttavia hanno dei tratti in comunione con Gesù e sono, pur con tutti i limiti e le debolezze umane, conformi a lui, fino a essere con la loro vita un riflesso della presenza di Dio in mezzo a noi. Anonimi, sconosciuti per la gente, ignorati dai poteri di questo mondo, sono veri discepoli di Gesù, alla sua sequela.

Per secoli la chiesa ha proclamato santi dei papi, vescovi, presbiteri, monaci e religiosi, ma molti di più sono stati santi: semplici cristiani, padri e madri che hanno conosciuto il duro mestiere di vivere, hanno vissuto fedelmente l’amore, hanno saputo accogliere il frutto del loro amore, i figli, e li hanno fatti crescere con cura e sollecitudine; poveri che hanno dovuto lavorare per sfamare le loro famiglie; oppressi che non avevano voce ma non si sono piegati all’ingiustizia e al potere della violenza; malati e ultimi che hanno conosciuto soprattutto fatica e sofferenza... Nell’ultimo secolo si è avvertita nella chiesa questa sete di santità “ordinaria” e un’intera stagione di letteratura cattolica, in particolare in Francia (Malègue, Mauriac, Bernanos, Green), ha cercato di renderla eloquente nella narrazione di vite di semplici cristiani: santità reale, vissuta in modo ordinario, eroica nella perseveranza e nell’umiltà, non in azioni straordinarie.

I santi — dicevano i padri del deserto — non sono quelli che fanno miracoli o risuscitano i morti, ma quelli che si riconoscono peccatori e mendicano da Dio la sua misericordia, cercando di vivere nella carità. C’è un episodio nella tradizione dei padri del deserto che ben illustra la santità indicata da Francesco. Si narra che Antonio, il padre dei monaci, dopo decenni di ascesi e di lotta spirituale ebbe una visione:

Un giorno abba Antonio pregava nella sua cella e gli giunse una voce che disse: «Antonio, non sei ancora giunto alla misura di quel ciabattino di Alessandria». L’anziano si alzò di buon mattino, prese il suo bastone di palma e andò a trovare il ciabattino. Entrò, lo abbracciò, sedette accanto a lui e gli disse: «Fratello, dimmi quello che fai». Ed egli rispose: «Non so che cosa faccio di buono, abba. Semplicemente, al mattino, quando mi alzo e mi metto al lavoro, mi dico che tutti gli abitanti di questa città, dal più piccolo al più grande, entreranno nel Regno a motivo delle loro opere di giustizia, io solo riceverò il castigo per i miei peccati. E di nuovo, la sera, prima di addormentarmi, mi ripeto la stessa cosa». A queste parole l’anziano disse: «In verità, come un buon orafo che sta seduto a lavorare in pace a casa sua, tu hai ereditato il regno dei cieli; io invece, che non ho discernimento, anche se dimoro sempre nel deserto, non ti ho raggiunto» (Detti dei padri del deserto, Serie anonima, Nau 490).

Ecco la «santità della porta accanto», la santità possibile a tutti coloro che non rifiutano la grazia del Signore, sempre preveniente e immeritata. Questa santità, come quella di chi spende la vita per gli altri o perde la vita a causa della sua fede in Cristo, travalica certamente i confini della chiesa: è ecumenismo del sangue di quanti, pur all’interno di confessioni diverse, diventano martiri a causa di Cristo; è testimonianza di gratuità e di umanità data a tutti anche da parte di chi non è cristiano ma ha dedicato l’intera sua vita al bene comune e al servizio dell’altro. Questa santità è vissuta su tante vie differenti, perché «la vita divina si comunica ad alcuni in un modo e ad altri in un altro» (n. 11); perché, se la chiamata alla santità è rivolta a tutti, a ciascuno Dio fa un dono particolare e a ciascuno compete “la sua strada”, “il suo cammino” verso il Regno: non isolato, mai senza gli altri, ma facendo obbedienza al proprio corpo, alla propria storia, alla propria collocazione nel mondo e nella chiesa, alla propria coscienza. Sempre nei cristiani opera la grazia battesimale, ma mai nell’omologazione, mai esigendo un’imitazione, ma chiedendo solo la sequela del Signore Gesù ovunque egli vada (cfr. Apocalisse 14, 4), in modo da essere immersi nella sua morte per risorgere con lui a vita nuova (cfr. Romani 6, 4; Colossesi 2, 12), nella santità che Dio dona ai suoi figli.

Chiamata alla santità — si faccia attenzione — non significa appiattimento, vita nella tiepidezza, ma chiamata alla carità, all’amore pienamente vissuto: e per l’amore non c’è misura! A questo proposito Papa Francesco può essere mal interpretato, perché la sua visione umanissima del santo non corrisponde a canoni presenti nella tradizione o ai modelli classici dell’agiografia e della devozione. In verità Francesco non privilegia nessuna via di santità, ma chiede con forza di riconoscerla anche in vite che non emergono, non si impongono e non sembrano avere nulla di straordinario o di eroico. Da parte di chi ancora crede che vi siano vie istituzionali o corsie privilegiate contraddistinte da perfetta carità — come si diceva della vita religiosa — questa visione della santità può non essere compresa nella sua verità: quella che riconosce che i santi sono tutti peccatori, che non ci sono persone perfette, superuomini, e che Dio può riempire della sua grazia il peccatore pentito più dell’osservante fiero di se stesso. I santi non sono l’aristocrazia dello spirito, ma le “moltitudini” per le quali Gesù ha sparso il suo sangue, che hanno risposto all’amore di Dio credendo e vivendo l’amore!

La santità deve essere cercata nella vita quotidiana, non ispirata a modelli ideali, astratti, sovraumani e raccontata come perfezione raggiunta. Ognuno ha una propria strada per la santità, strada tracciata dal Signore e che può essere percorsa anche in mezzo a imperfezioni e cadute, ma strada illuminata e fatta percorrere dalla grazia del Signore.

Lo aveva ben capito il giovane Angelo Roncalli, poi diventato papa Giovanni XXIII, quando nel suo Giornale dell’anima scriveva il 16 gennaio 1903, a 22 anni: «A forza di toccarlo con mano mi sono convinto di una cosa: come cioè sia falso il concetto che della santità applicata a me stesso io mi sono formato. Nelle mie singole azioni, nelle piccole mancanze subito avvertite, richiamavo alla mente l’immagine di qualche santo cui mi proponevo d’imitare in tutte le cose minute, come un pittore copia esattamente un quadro di Raffaello (...) Avveniva però che io non arrivavo mai a raggiungere quanto mi ero immaginato di poter fare e m’inquietavo (...) Io non sono san Luigi, né devo santificarmi proprio come ha fatto lui, ma come lo comporta il mio essere diverso, il mio carattere, le mie differenti condizioni». E Francesco riecheggia queste parole affermando: «Dio non vuole per tutte le anime una stessa e uguale perfezione!».

In ogni via di santità ciò che è determinante è l’amore per gli altri, l’amore del prossimo, la carità che uno vive verso il fratello che vede e non quella che vanta di vivere verso Dio che non vede (cfr. 1 Giovanni 4, 20). La vita del cristiano deve conoscere ed esercitare il silenzio e la contemplazione, ma non come esenzione dalla fatica di vivere, non come fuga dai fratelli e dalle sorelle, non come rifugio in una gnosi spiritualistica, non come privilegio rispetto alla condizione dei poveri e della gente che vive lavorando e faticando. Dobbiamo porci seriamente una domanda: «Una certa vita, definita contemplativa e dichiarata meritoria, non è stata a volte un’evasione dalla storia e dalla condizione umana?». La spiritualità cristiana — e questo oggi va affermato con forza — non può avere come obiettivo ultimo la pace interiore, tanto meno il ben-essere con se stessi, ma l’amore verso gli altri, la carità vissuta quotidianamente e concretamente.

Quando il pontefice, nel secondo capitolo dell’esortazione, mette in guardia dai rischi dello gnosticismo e del pelagianesimo, chiede soprattutto di aderire al realismo cristiano del Vangelo e non a canoni di spiritualità che comunque devono sottostare al giudizio del Vangelo stesso. Non la conoscenza intellettuale o spiritualistica salva, e neppure il confidare nella propria volontà, nelle proprie opere, nell’adempimento puntuale di leggi, precetti e metodi indicati dalle molte spiritualità: solo l’amore di Dio salva! Sicché, «anche qualora l’esistenza di qualcuno sia stata un disastro, anche quando lo vediamo distrutto dai vizi o dall’alienazione del peccato, dobbiamo ritenere che Dio è presente nella sua vita» (n. 42). Sì, perché la grazia, amore gratuito di Dio, Spirito che rimette i peccati, opera sempre, anche in modi che noi non conosciamo e fuori dei confini che noi tracciamo. In verità — come afferma sant’Agostino — Dio invita ogni persona a fare quello che può e a chiedere quello che non può (cfr. n. 49) sulla via della sequela del Signore. La salvezza, infatti, viene solo dal Signore, e ogni essere umano, ogni cristiano «riconosce di essere privo della vera giustizia e di aspettare la giustificazione, attraverso la fede, solo da Cristo» (n. 52).

Questo il messaggio più nuovo dell’esortazione apostolica sulla chiamata alla santità, che tuttavia è affermazione del messaggio eterno del Vangelo: «Chi ama l’altro ha adempiuto la Legge» (Romani 13, 8) e «tutta la Legge trova la sua pienezza in un solo precetto: “Amerai il tuo prossimo come te stesso” (Levitico 19, 18)» (Galati 5, 14).

Al centro dell’esortazione, nel capitolo terzo, il papa delinea il volto di Gesù, il volto del primo destinatario delle beatitudini, perché è proprio lui che le ha vissute pienamente, traendo da questa esperienza l’autorevolezza, l’exousía nel proclamarle. Per Francesco le beatitudini sono illustrazione della santità cristiana (cfr. n. 63), sono proclamazione della felicità, della beatitudine che il discepolo di Gesù conosce vivendole e mostrando così i tratti della santità.

Il pontefice commenta le otto beatitudini nella versione di Matteo (cfr. Matteo 5, 3-12). Le sue parole non vogliono essere le ultime e neppure la sola interpretazione di questo testo che in ogni secolo ha ispirato commenti, dai padri della chiesa ai commentatori dei nostri giorni. In questa illustrazione delle beatitudini si sente la sua spiritualità ignaziana, e non poteva essere diversamente. D’altronde, questa esortazione è il frutto di tutta la sua vita spirituale, vissuta in un tempo preciso, ispirata a una spiritualità precisa e in una terra che è la sua. Noi cogliamo dunque nelle sue parole una traccia di lettura delle beatitudini tra le tante percorse, testimoniate e messe per iscritto da numerosi altri testimoni di Cristo. Al papa non interessa che si leggano le beatitudini solo nella sua ottica, ma piuttosto che non si dimentichi questo annuncio così decisivo e riassuntivo dei tratti richiesti dalla sequela di Gesù. È significativo che al discorso della montagna venga accostato il discorso del Signore sul giudizio universale (cfr. Matteo 25, 31-46), in cui la salvezza è decisa dal comportamento tenuto dal cristiano nella storia, di fronte al fratello e alla sorella nel bisogno. Proprio nell’affamato, nell’assetato, nello straniero, in chi è nudo, nel malato e nel prigioniero Cristo va cercato, contemplato, amato e servito. Il cristiano è chiamato a leggere le pagine delle beatitudini e del giudizio accogliendole sine glossa, senza edulcorarle, ma ritenendole illustrazione della necessaria misericordia da vivere e praticare come «il cuore pulsante del Vangelo» (n. 97).

La santità cristiana non è un’impresa personale da vivere e portare a pienezza solo davanti a Dio, ma è santità che nella pratica della fraternità umana scopre e confessa la paternità di Dio. Mai senza gli altri è possibile un cammino verso Dio; mai senza gli altri è possibile la comunione con Cristo; mai senza gli altri si può essere mossi dallo Spirito santo. Anzi, proprio l’amore verso il prossimo può testimoniare la presenza dell’amore per Dio, perché amare Dio significa assolutamente compiere il suo comandamento, che è l’amore del prossimo. Un santo che non conosca i poveri, che non si senta solidale con gli ultimi, che non viva la compassione con i sofferenti, è una menzogna (psèudos) di santità. Potrà essere un uomo ascetico, un osservante di pratiche religiose e spirituali, ma non sarà un discepolo di Gesù, dunque non sarà un cristiano.

Lo sappiamo: i poveri non sono belli, gli stranieri ci possono fare paura e ci complicano la vita, i malati spesso sono insistenti e pretenziosi, disturbando così la nostra quotidianità, ma questi sono «la carne di Cristo», sono il suo primo sacramento nel mondo. L’ideale di santità cristiana non ignora l’ingiustizia che è nel mondo, non passa oltre le vittime del potere e della violenza, non rivendica un’oasi di pace e di esenzione dal duro mestiere di vivere, ma sa discernere il povero e il bisognoso (cfr. Salmi 40 [41], 2 secondo la Settanta), sa prendersene cura, sa assumere la loro difesa e la responsabilità della liberazione dalle loro oppressioni. Questo è il culto gradito al Dio di Gesù, perché egli non vuole offerte e sacrifici ma vuole che la nostra vita sia spesa e offerta per gli altri (cfr. Romani 12, 1), vuole la misericordia e il discernimento della sua presenza nei nostri fratelli e sorelle (cfr. Osea 6, 6).

Dopo questa illustrazione della centralità del messaggio delle beatitudini e della memoria del giudizio di Dio sul nostro operare nella storia, nel capitolo quarto papa Francesco indica alcune caratteristiche della santità nel mondo di oggi. Egli mette a fuoco cinque manifestazioni dell’amore cristiano, per richiamare i credenti in Gesù Cristo a quelle che paiono urgenze avvertite soprattutto oggi. Di questo capitolo bisogna sottolineare innanzitutto l’appello alla fede, la fede salda che certo è un dono di Dio ma va sempre chiesto, custodito e rinnovato nella vita cristiana. Chi ha fede (pìstis), adesione al Signore, può diventare affidabile (pistós) davanti agli altri e così testimoniare la fedeltà di Dio che non viene mai meno.

Un’altra urgenza indicata — come già si diceva all’inizio — è quella della gioia: il pontefice parla addirittura dell’importanza del senso dell’umorismo, perché «essere cristiani è “gioia nello Spirito santo” (Romani 14, 17)» (n. 122), perché la gioia narra la prossimità fedele di Dio, il suo amore, il suo compiere sempre meraviglie nella vita di ciascuno e nella storia dell’umanità. Certo, non si tratta della gioia mondana, individualista e senza gli altri, ma della gioia della comunione (cfr. n. 128).

Non poteva poi mancare l’urgenza della parrhesìa che tanto sta a cuore a Francesco: parrhesìa come non avere paura, dunque audacia della fede; parrhesìa come libertà vissuta per non cadere sotto il peso della Legge; parrhesìa come convinzione salda che vince ogni mancanza di fervore, ogni esitazione e ogni paralisi nei confronti delle cose nuove che Dio ci prepara e ci offre (cfr. Isaia 43, 19). La parrhesìa è la vittoria sulla sindrome di Giona, il profeta tentato da paura, sfiducia e gelosia per la propria identità, esitante nell’accogliere la misericordia di Dio e perciò incline a un ministero di condanna della povera umanità e delle creature tutte, delle quali Dio ha compassione.

Il papa insiste poi in modo particolare sull’urgenza di una santità comunitaria, cioè di un cammino comunitario da compiere sempre insieme, con gli altri e mai da soli. Va confessato che veniamo da secoli nei quali la spiritualità è stata spesso vissuta in modo individualistico, senza che si delineasse per il discepolo l’orizzonte comunitario. È significativo che il pontefice citi come esempi vicini a noi solo santi manifestati nel martirio in terre di missione, fino ai sette monaci trappisti dell’Atlante algerino. Eppure è la comunità, la koinonìa cristiana, il luogo in cui si sperimenta il Cristo risorto, si riceve il dono dello Spirito santo, Spirito di unità e di diversità riconciliate, si conosce la pratica essenziale del comandamento nuovo dato da Gesù ai suoi (cfr. Giovanni 13, 34; 15, 12) e indicato come unico segno della qualità cristiana dei suoi discepoli (cfr. Giovanni 13, 35).

La comunità familiare o religiosa non è un accidente nella vita cristiana: è la forma della sequela di Cristo, che volle vivere la sua vocazione in una vita comunitaria di uomini e donne discepole e che indicò la comunità familiare come narrazione dell’alleanza fedele di Dio con il suo popolo. Vivere in comunità richiede l’esercizio di un amore sincero, quotidiano, concreto, non ideale ma capace di accogliere le difficoltà, le tensioni, i conflitti e di superarli nella comunione che lo Spirito sempre edifica. No all’individualismo spirituale dunque, tentazione oggi tanto presente perché l’individualismo culturale dominante ispira purtroppo, nella spiritualità e in presunte vie di santità, atteggiamenti che non sono conformi alla koinonìa, alla comunione che è Dio stesso e che Gesù ha voluto narrarci e vivere in mezzo a noi.

Vi è infine l’urgenza della preghiera, cioè lo stare alla presenza di Dio, l’ascoltare la sua parola, il dare del tu al Signore per dirgli semplicemente “amen” e per invocare il suo Spirito santo e la sua misericordia. Senza la preghiera, eloquenza della fede (cfr. Giacomo 5, 15), la fede stessa non vive ma finisce per morire.

L’ultimo capitolo, quello sulle vie della santificazione, è dedicato a tre temi classici per la spiritualità cristiana, temi centrali già per i padri del deserto e da allora sempre rinnovati e riattualizzati. Innanzitutto la lotta spirituale, lotta contro le tentazioni del demonio. La vita è una lotta (cfr. Giobbe 7, 1) e la vita cristiana è lotta non contro la carne e il sangue ma contro le potenze idolatriche alienanti, che ci seducono e ci rendono schiavi (cfr. Efesini 6, 12). È una lotta il cui protagonista resta il Signore, che così possiamo invocare: «Nella mia lotta sii tu a lottare!» (Salmi 43, 1; 119, 154). È una lotta in cui si può sperimentare la gioia per la presenza del Signore che non ci abbandona alla tentazione ma la vince in noi e ci rende partecipi della sottomissione del demonio che egli fa arretrare. Il demonio è una potenza, il diavolo è il divisore, Satana è l’accusatore, è il principe di questo mondo, ma nella fede sappiamo che Gesù l’ha vinto per sempre. Il demonio è però ancora attivo e non dobbiamo credere nella sua presenza, perché la sperimentiamo nelle tentazioni, ma possiamo essere certi che il Signore Gesù lo vince sempre in noi e che la grazia ci libera dal suo potere tenebroso e alienante.

Questa lotta richiede la vigilanza. «Chi è il cristiano?», si chiedeva san Basilio. E rispondeva: «Colui che ha uno spirito vigilante». Sulla via della santità risuonano i ripetuti appelli di Gesù: «Vigilate, vegliate». Occorre restare svegli, non cedere all’intontimento spirituale, non abituarsi mai alle cadute, ma sempre accogliere la parola di Dio che impedisce al nostro cuore di diventare calloso, indurito, insensibile alla volontà del Signore e dunque preda della corruzione spirituale.

L’ultima urgenza della vita spirituale ma anche nella vita della chiesa oggi, come il papa spesso avverte e sottolinea, è il discernimento. Il discernimento è quell’operazione che viene dallo Spirito santo, il quale si innesta nel nostro spirito umano permettendoci di cogliere, giudicare e operare ciò che è secondo la volontà del Signore, dunque è il nostro bene, e ciò che invece contraddice la vita buona, bella e beata del cristiano. Il discernimento è un tema molto esplorato, fin da Origene e dai padri del deserto, quindi dai padri della chiesa indivisa e dalle tradizioni spirituali di oriente e di occidente. Sant’Ignazio di Loyola ne ha fatto un punto centrale del cammino spirituale vissuto e poi tracciato per i suoi discepoli e ne ha fornito un’interpretazione propria, che però non esaurisce la ricchezza della meditazione ecclesiale su questo tema. Certo, papa Francesco, da gesuita, si riferisce soprattutto a questa tradizione da lui ricevuta, ma non vuole che si dimentichi tutta la dottrina spirituale dei padri al riguardo, molto più variegata e ricca, che definisce il discernimento come la madre di tutte le virtù, il dono e l’esercizio decisivo per il cammino di sequela di Cristo verso il Regno.

In ogni caso, il discernimento è uno dei sette doni dello Spirito santo, essenziale nella vita spirituale cristiana, perché ci permette di ascoltare il Signore e non noi stessi né tantomeno le pulsioni che vengono dal demonio. Il discernimento ci permette di giudicare con lo sguardo di Dio ciò che è bene e ciò che è male, ci dà la possibilità di scorgere i segni dei tempi e dei luoghi, al fine di vivere oggi la sequela di Cristo nella compagnia degli uomini e nella comunione della chiesa.

Questi sono solo spunti, indicazioni offerte alla chiesa con nuovi accenti o con particolare insistenza. Ma l’esortazione va letta e rimeditata come un dono che ci fa capire che non “ci facciamo santi” ma che il Signore ci fa santi nella sua misericordia infinita, se noi accogliamo come dono gratuito il suo amore preveniente e mai da meritare.


martedì 29 maggio 2018

«Il Signore ci chiama alla santità di tutti i giorni» - Papa Francesco - S. Messa Cappella della Casa Santa Marta - (video e testo)


S. Messa - Cappella della Casa Santa Marta, Vaticano
29 maggio 2018
inizio 7 a.m. fine 7:45 a.m. 

Papa Francesco:
La santità è libertà”



La santità è libertà e rottura dagli schemi mondani che ci tengono prigionieri in un apparente benessere: ecco il cammino cristiano di speranza suggerito dal Papa nella messa celebrata la mattina del 29 maggio a Santa Marta.

Prendendo spunto dalla prima lettura, tratta dalla prima lettera di Pietro (1, 10-16), il Pontefice ha fatto subito presente che «l’apostolo ci ricorda quel comandamento, diciamo così, che lo stesso Dio e i profeti ci hanno dato sempre: il comandamento di andare, di camminare verso la santità». Scrive infatti Pietro: «Diventate santi anche voi in tutta la vostra condotta. Perché sta scritto: “Sarete santi, perché io sono santo”».

«È semplice il modello di santità ma non è facile essere santi come il nostro Padre del cielo» ha fatto presente Francesco, ricordando che «la chiamata alla santità, che è la chiamata normale, è la chiamata a vivere da cristiano, cioè vivere da cristiano è lo stesso che dire “vivere da santo”».

E «tante volte noi pensiamo alla santità come a una cosa straordinaria, come avere delle visioni o preghiere elevatissime» ha affermato il Papa. Addirittura «alcuni pensano che essere santo significhi avere una faccia da immaginetta». Invece, ha spiegato il Pontefice, «essere santi è un’altra cosa: è camminare su questo che il Signore ci dice sulla santità». Pietro spiega chiaramente cosa significa «camminare sulla santità: “Ponete tutta la vostra speranza in quella grazia che vi sarà data quando Gesù Cristo si manifesterà”».

Perciò, ha affermato Francesco, «camminare verso la santità è camminare verso quella luce, quella grazia che ci viene incontro». Ed «è curioso», ha fatto notare, che «quando noi camminiamo verso la luce tante volte non vediamo bene la strada, perché la luce ci abbaglia». Ma poi «non sbagliamo perché vediamo la luce e sappiamo la strada».

Invece, camminando con la luce alle spalle la strada si vede bene, «ma davanti a noi non c’è luce: c’è ombra» ha detto il Papa. Dunque «camminare verso la luce è camminare verso la santità». Anche se «non sempre si distingue la strada bene, ma è camminare verso la luce, verso la speranza». Dunque, «camminare verso la santità è essere in tensione verso l’incontro con Gesù Cristo».

«Ma c’è una altra cosa che non è facile — ha messo in guardia il Pontefice — giacché per camminare così è necessario essere liberi e sentirsi liberi, e ci sono tante cose che ci schiavizzano». A questo proposito «c’è un consiglio che dà Pietro: “Come figli obbedienti, non conformatevi ai desideri di un tempo, quando eravate nell’ignoranza”». Il suggerimento è di non entrare «in quei desideri che portavano su un’altra strada: eravate nell’ignoranza e andate sui desideri» che non erano «i desideri di Dio».

Nella lettera ai Romani Paolo «usa la stessa espressione come un consiglio». Egli dice: «non entrate — lì la traduzione è “non conformatevi, non entrate negli schemi”: questa è la traduzione corretta di questo consiglio — negli schemi del mondo, non entrate negli schemi, nel modo di pensare mondano, nel modo di pensare e di giudicare che ti offre il mondo, perché questo ti toglie la libertà».

«Per andare sulla santità bisogna essere liberi: la libertà di andare guardando la luce, di andare avanti» ha rilanciato Francesco. E «quando noi torniamo, come dice qui, al modo di vivere che avevamo prima dell’incontro con Gesù Cristo o quando noi torniamo agli schemi del mondo, perdiamo la libertà».

Ma «questa non è una novità» ha spiegato il Pontefice, osservando: «Se noi leggiamo il libro dell’Esodo notiamo sicuramente tante volte che il popolo di Dio non ha voluto guardare in avanti, verso la salvezza, ma tornare indietro; dice che si lamentavano perché avevano dimenticato che Dio li portava avanti, alla terra che aveva promesso». E «immaginavano la bella vita che passavano in Egitto: lì si mangiava bene le cipolle, la carne», mentre «nel deserto» si soffriva «la fame». Succede che «nei momenti di difficoltà il popolo torna indietro, non ce la fa, perde la libertà». Ed «è vero che laggiù mangiavate cose buone, ma io mi domando: in quale mensa le mangiavate? Nella mensa della schiavitù» ha detto il Papa.

«Nel momento della prova noi abbiamo sempre — ha proseguito Francesco — la tentazione di guardare indietro, di guardare agli schemi del mondo, agli schemi che avevamo noi prima di iniziare il cammino della salvezza: senza libertà». E «senza libertà non si può essere santi: la libertà è la condizione per poter camminare guardando la luce avanti».

Di qui il suggerimento del Papa a «non entrare negli schemi della mondanità» ma a «camminare avanti, guardando la luce che è la promessa, in speranza». Ed è la stessa «promessa» del «popolo di Dio nel deserto: quando guardavano avanti andavano bene; quando veniva loro la nostalgia perché non potevano mangiare le cose buone che davano loro lì, sbagliavano e dimenticavano che lì non avevano libertà» ha detto il Papa.

«Il Signore ci chiama alla santità, alla santità di tutti i giorni» ha insistito il Pontefice. E per comprendere se «io sono in cammino verso la santità ci sono due misure di paragone». La prima misura è verificare «se tu guardi sempre avanti verso il Signore, verso la luce del Signore nella speranza di trovarlo». La domanda da porre a se stessi è: «Tu hai voglia di incontrarti con il Signore?». E se si risponde: «Ma io non capisco cosa sia questo», significa che «qualcosa non va» ha commentato Francesco. Dunque, «la prima pietra di paragone è: sei in speranza, camminando verso la luce dell’incontro con il Signore?» ha detto ancora il Papa.

«Il secondo parametro è cosa fai quando vengono le prove: continui a guardare avanti o perdi la libertà e vai a rifugiarti negli schemi mondani che ti promettono tutto e non ti danno niente?» ha proseguito Papa Francesco.

«“Sarete santi perché io sono santo” è il comandamento del Signore» ha ripetuto il Papa. E ha aggiunto: «Chiediamo la grazia di capire bene cosa è il cammino della santità, questa strada della libertà ma in tensione di speranza verso l’incontro di con Gesù». E, anche, «capire bene cosa è andare indietro verso gli schemi mondani che avevamo, tutti noi, prima dell’incontro con Gesù Cristo».
(fonte: L'Osservatore Romano)


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Una qualità che non può mancare nel “bagaglio” del cristiano è la gioia - «Un cristiano non può essere triste»


«Gaudete et exsultate». 
Quando il santo «fa ridere»: il buonumore apre il cielo

Da don Bosco a Escrivá de Balaguer, l’allegria testimonia l’adesione totale al disegno di Dio


Forse la sintesi migliore è nel benvenuto di Domenico Savio a un nuovo amico d’oratorio. «Noi facciamo consistere la santità nello stare molto allegri e nel fare bene il nostro dovere». 
Se una qualità non può mancare nel “bagaglio” del cristiano, questa è la gioia, di cui il buonumore è specchio, marchio di riconoscimento, immagine esteriore. Lo dicono le agiografie, lo confermano i testi di riflessione spirituale, non moltissimi in verità, lo ripetono fino alla noia i parroci. «Un cristiano non può essere triste». Tesi razionalmente e unanimemente accettata ma molto difficile da realizzare. Perché non si tratta tanto di ridere delle difficoltà ma, ed è più difficile, di affrontare le prove con la sapienza, con il giusto distacco di chi vive nel mondo senza essere schiavo delle sue logiche. Il santo – scrive papa Francesco nell’Esortazione apostolica Gaudete et exsultate «è capace di vivere con gioia e senso dell’umorismo. Senza perdere il realismo, illumina gli altri con uno spirito positivo e ricco di speranza». Un atteggiamento che si impara frequentando la scuola della leggerezza, impegnandosi nello sforzo, a volte davvero eroico, di limitare le ingombranti esigenze del proprio io, le pesantezze dell’egocentrismo. «Gli angeli possono volare perché prendono se stessi con leggerezza», recita una folgorante riflessione di Gilbert Keith Chesterton, che aggiunge: «È facile essere pesanti e difficile essere leggeri. Satana è caduto per la forza di gravità». Il che non vuol dire ovviamente che il narcisista sia condannato alla dannazione ma solo che per lui il percorso di liberazione da se stessi è più difficile.

Tanto l’egoismo è una corsa ad accumulare beni, prestigio, visibilità quanto il cammino verso la santità chiede di abbandonare gli orpelli luccicanti, di non prendere troppo sul serio onori, ricchezze, premi da copertina. E la meta della felicità, che consiste nel realizzare in pieno il disegno che Dio ha su di noi, si raggiunge più facilmente senza inutili zavorre. Il santo è per così dire uno specialista nell’arte, ardua e impopolare, del togliere, del levare, del liberare spazi occupati dalle certezze effimere, per lasciare posto alla vita dello Spirito. È un profeta del ritorno all’essenziale, uno speleologo nelle profondità dell’uomo, alla ricerca di ciò che conta davvero. E questa capacità di andare oltre, gli consente di cogliere i semi di eternità già quaggiù, di vivere con il cuore proiettato a quello che ci attende dopo. Immerso nel presente sì, ma senza farsene travolgere, nella consapevolezza che ciascuno è una parte del mondo senza esserne il centro. Non a caso “umiltà” e “umorismo” hanno un’origine comune, vengono entrambi da “humus”, terra. Chi non si fa condizionare dalla superbia, chi non ne diventa ostaggio capisce che esiste qualcosa di più grande di lui, e del suo io. Di cui anzi impara a sorridere.

Il buonumore dei santi nasce proprio dalla capacità di non prendersi troppo sul serio, il loro pensare positivo dal sapere che ci attende un destino da risorti. «L’ottimismo cristiano non è ottimismo dolciastro – ha scritto san Josemaria Escrivá de Balaguer – e neppure la fiducia che tutto andrà bene. Affonda le sue radici nella coscienza della libertà e nella sicurezza del potere della grazia; un ottimismo che porta a essere esigenti con noi stessi, a sforzarci per corrispondere in ogni momento alla chiamata di Dio». Ci sono momenti duri, momenti di croce, scrive il Papa in Gaudete et exsultate, ma niente può distruggere la gioia soprannaturale che – sottolinea l’Esortazione Evangelii gaudium – «si adatta e si trasforma, e sempre rimane almeno come uno spiraglio di luce che nasce dalla certezza personale di essere infinitamente amato, al di là di tutto». Il problema semmai si pone quando, anche nel cristiano, il peso della responsabilità confina lo sguardo dentro il perimetro del presente, quando le lacrime sono solo inchiostro per la disperazione e non vocabolario della vicinanza, della compassione. Capita così che le chiese risuonino di inni pasquali mentre il viso di chi le frequenta è ispirato a un perenne Venerdì Santo. Per averne conferma basterebbe osservare la fila di chi si accosta alla Comunione nella Messa domenicale. «Dovrebbero cantarmi dei canti migliori, perché io impari a credere nel loro Salvatore – riassumeva sarcastico Nietzsche –. Bisognerebbe che i suoi discepoli avessero più un aspetto da gente salvata».

Una denuncia che ha anche un suo perché storico, come rivela la condanna del riso e del divertimento, di tanti Padri della Chiesa. O come, più prosaicamente, racconta Il nome della rosa di Umberto Eco. È l’atteggiamento di chi crede che sì, sarà gioia ma nel mondo che verrà, non in questo, confinato nella tristezza. Di chi del Salmo 2 si concentra al massimo sull’invito a rallegrarsi «con tremore» trascurando l’osservazione secondo cui «ride colui che sta nei cieli». Di chi fatica a testimoniare il richiamo dell’altro Salmo, il 34: «Guardate a lui e sarete raggianti, non saranno confusi i vostri volti». I santi, la loro testimonianza, ci aiutano a mettere le cose a posto, sottolineano che il dolore e la sofferenza non possono soffocare la gioia, profonda e duratura, di essere salvati, di avere come destino la vita eterna.

Si dice che don Bosco fosse particolarmente allegro nei giorni delle prove più dure e Francesco d’Assisi, uno che di sofferenza se ne intendeva, è conosciuto anche come “giullare di Dio”. Una filosofia di vita, una capacità di vedere oltre, che Tommaso Moro, apostolo del buonumore, allegro anche sul patibolo dove finì decapitato, spiegava così: «Qualunque cosa avvenga, per quanto cattiva appaia, sarà in realtà sempre per il meglio». La lezione è chiara: non esiste nulla che impedisca un sorriso, che giustifichi il pessimismo o il cattivo umore. Per dirla con Domenico Savio, santo ragazzino: la santità consiste «nello stare molto allegri».

«Non siamo abituati a pensare che Dio sorrida» 
intervista a Carlo De Marchi, a cura di Riccardo Maccioni in “Avvenire” del 27 maggio 2018 

Il primo a testimoniare quanto chiede è proprio il Papa. Sin dall’inizio del suo pontificato, Francesco ha colpito tutti per i modi affabili, il gusto del sorriso, l’allegria che trasmette a chi lo incontra. Non stupisce allora che nella recente Esortazione apostolica Gaudete et exsultate Bergoglio abbia indicato proprio nel buonumore uno dei tratti caratteristici della santità. «In Perù a gennaio scorso – ricorda don Carlo De Marchi, vicario dell’Opus Dei per l’Italia Centro Sud – il Papa ha proposto come meta per ciascuno l’avere “una coscienza gioiosa di sé”. A me pare essenziale cogliere anche questo insegnamento pratico: l’umiltà è convincente. Ancora di più quella forma speciale di umiltà che è l’autoironia. Noi preti lo sappiamo bene: se quando parlo riesco a scherzare su me stesso, immediatamente l’uditorio ascolta con interesse. Se mi prendo sul serio invece la gente si annoia». 
De Marchi è autore del saggio, agile e ricco di aneddoti, La formula del buonumore. Con i 5 rimedi contro la tristezza (Edizioni Ares, pagine 144, 13 euro), in cui, citando campioni della gioia come Tommaso Moro, il cardinale Newman e Josemaria Escrivá, sottolinea l’importanza dell’eleganza, della buona educazione, del sorriso. «Il libro – aggiunge – parte dalla constatazione che siamo tutti sempre un po’ arrabbiati: basta pensare a come viviamo un ingorgo, una riunione di condominio o anche solo la prima colazione un lunedì mattina. A me pare che esista una vera “emergenza buonumore”. L’affabilità, il buonumore, il sorriso nella vita quotidiana sono la risposta cristiana a un bisogno avvertito da tutti. La Gaudete et exsultate è ancora più chiara: “il malumore non è un segno di santità”. Non esiste santità cristiana senza il sorriso». Un’indicazione largamente disattesa. Tra i credenti sembra avere il sopravvento la dimensione della consapevolezza “seria” delle proprie responsabilità. Nietzsche diceva che avrebbe creduto al Salvatore predicato dai cristiani se avesse visto in loro «un aspetto più da gente salvata». Papa Francesco sembra quasi essere d’accordo con questa critica quando ripete che non è credibile presentare il Vangelo mostrando una “faccia da funerale”. L’evangelizzazione è molto più efficace se chi parla evita di porsi in modo serioso, come uno che si crede chissà chi o che pensa di aver capito tutto. Il Vangelo è un annuncio di salvezza serio, anzi decisivo per la vita, ma gli evangelizzatori sono difettosi, come si vede fin dagli inizi negli sbagli e nei litigi degli Apostoli. Non si tratta di prendere il Vangelo alla leggera, ma piuttosto di non prendere troppo sul serio me stesso come evangelizzatore. Perché è importante sorridere? I Vangeli non ci dicono che Gesù lo facesse… Chesterton immagina che Gesù si nascondesse quando rideva, perché la sua risata era qualcosa di così travolgente che le persone intorno a Lui non erano ancora pronte ad accoglierla. A parte i paradossi, è vero che il Vangelo non racconta risate di Gesù (mentre assistiamo a Gesù che «scoppia in pianto»); tuttavia lo descrive come accogliente, affabile, simpatico. Infatti i bambini erano attratti da lui: se un adulto non è simpatico, un bambino non gli si avvicina. Non è difficile intravedere il sorriso di Gesù, mentre parla con Zaccheo, con Nicodemo, con i discepoli di Emmaus che Gesù risorto guarisce proprio dal loro “volto triste”. Ma non è irriverente pensare che Dio sorrida? Nella Gaudete et exsultate il Papa cita il profeta Neemia: «la gioia del Signore è la vostra forza». Il problema è nostro, perché non siamo abituati a pensare a Dio che sorride. Invece dovrebbe essere la cosa più naturale, come del resto dice il Salmo 2 («Dio ride in Cielo»). Dio Padre e Creatore, quando guarda una sua creatura, cioè in ogni momento, sorride di gioia. Sentirsi un po’ ridicoli, anche davanti a Dio, è un modo di sentirsi creature. Siamo difettosi? D’accordo: ma se Dio non avesse voluto i miei limiti, mi avrebbe creato senza di essi. Poi ognuno è chiamato a lottare contro i propri difetti, ma a partire da questo ottimismo creaturale. In un romanzo classico di fantascienza, Ray Bradbury dice che senz’altro Dio ha il senso dell’umorismo: «e come potrebbe non averlo il creatore dell’ornitorinco, del cammello, dello struzzo e dell’uomo?». Che cosa consigliare al cristiano che voglia avere un approccio un po’ più sorridente della vita senza rinunciare alla serietà? Dove imparare? Suggerisco di allenarsi innanzitutto a cercare il sorriso di Dio nella preghiera. E poi a guardare i propri difetti e sbagli con un sorriso, imparando ogni giorno - per dirla con Romano Guardini - ad «accettare se stessi». A partire da questi due sorrisi si impara a sorridere e ad aprirsi agli altri, perché la condivisione, come dice il Papa, «moltiplica la nostra capacità di gioia». Poi si tratta forse di esercitarsi un po’ a sorridere anche nel traffico, in una riunione di condominio, facendo colazione un lunedì mattina.