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sabato 27 aprile 2024

Roncalli e Wojtyla, pastori in mezzo al popolo

Roncalli e Wojtyla, pastori in mezzo al popolo

Dieci anni fa la canonizzazione di Giovanni XXIII e Giovanni Paolo II nella Messa presieduta da Papa Francesco in Piazza San Pietro. Vissuti in tempi storici di grandi sconvolgimenti, i due Pontefici santi hanno testimoniato la speranza e la gioia che dona l’incontro con Gesù con totale abnegazione al servizio del Popolo di Dio.

Le immagini di Giovanni Paolo II e Giovanni XIII alla Messa di canonizzazione nel 2014

Chi sono i santi? Innanzitutto non sono dei superuomini, come Francesco ci ha tante volte ricordato. Eppure nell’immaginario collettivo, anche dei non credenti, santità è sinonimo di eccezionalità. Se il tuo nome è sul calendario - si potrebbe dire con una battuta - certamente lo si deve ad una vita vissuta in modo straordinario. Tuttavia il Papa, proprio su questo, ha voluto sottolineare – e lo ha fatto con un’Esortazione Apostolica che meriterebbe forse di essere maggiormente approfondita­ – che tutti i battezzati sono chiamati alla santità, ad essere “santi della porta accanto”, che sono ben più numerosi di quelli indicati sul calendario. La santità, ha scritto il Pontefice nella Gaudete et Exsultate, si vede “nel popolo di Dio paziente: nei genitori che crescono con tanto amore i loro figli, negli uomini e nelle donne che lavorano per portare il pane a casa, nei malati, nelle religiose anziane che continuano a sorridere”.

In questa santità del Popolo di Dio, popolo paziente che sa affidarsi al Padre e da Lui si fa guidare, hanno creduto convintamente Giovanni XXIII e Giovanni Paolo II che il 27 aprile di dieci anni fa venivano proclamati santi in una Piazza San Pietro gremita di fedeli. Angelo Roncalli e Karol Wojtyla - a Venezia e Cracovia prima ancora che durante il ministero petrino a Roma - sono stati “pastori con l’odore delle pecore” come direbbe oggi Jorge Mario Bergoglio. Hanno vissuto da pastori in mezzo al popolo senza timore di toccare le piaghe di Cristo, ferite visibili nelle sofferenze di sorelle e di fratelli che formano quel Corpo che è la Chiesa. Una immagine, quest’ultima, che proprio il Concilio Vaticano II – nato dal cuore docile e coraggioso di Giovanni XXIII e che ebbe nel giovane vescovo Wojtyla uno dei suoi più appassionati sostenitori – ha rimesso al centro della vita ecclesiale collegandola all’esperienza sorgiva della prima comunità cristiana di cui ci parlano gli Atti degli Apostoli.

Viviamo un tempo di grandi sconvolgimenti: negli ultimi anni, prima la pandemia poi la guerra in Ucraina infine il nuovo conflitto in Medio Oriente si sono concatenati tra loro seminando dolore, paura e un senso di turbamento che, complice la globalizzazione, sembra essere ormai una dimensione costitutiva dell’umanità intera. Eppure i tempi in cui vissero Roncalli e Wojtyla non furono meno complessi, meno segnati dalla paura di un annientamento del genere umano. Giovanni XXIII, anziano e malato, si trovò ad affrontare la Crisi dei missili di Cuba proprio nei giorni di apertura del Concilio. Giovanni Paolo II, che da sacerdote aveva vissuto nella sua Polonia l’orrore nazista e da vescovo la soffocante dittatura comunista, da Papa si confrontò, animato da profetica tenacia, con la contrapposizione tra i due blocchi della Guerra Fredda fino alla drammatica dissoluzione dell’Unione Sovietica e la conseguente illusione della “fine della storia”.

Questi due Papi del XX secolo non risposero alle tragedie del loro tempo con rassegnazione e pessimismo. Non si accodarono alle litanie dei “profeti di sventura” che allora come adesso sembrano preferire lamentarsi di ciò che non va piuttosto che rimboccarsi le maniche per contribuire a migliorare le cose. Come ha sottolineato Francesco nella omelia della Messa per la loro canonizzazione, in Giovanni XXIII e Giovanni Paolo II “più forte era la fede in Gesù Cristo Redentore dell’uomo e Signore della Storia”, una fede che si manifestò nella gioia e nella speranza che solo può testimoniare chi ha incontrato Cristo nella propria vita. “Queste – ha osservato ancora nell’omelia – sono la speranza e la gioia che i due santi Papi hanno ricevuto in dono dal Signore risorto e a loro volta hanno donato in abbondanza al Popolo di Dio, ricevendone eterna riconoscenza”. Una riconoscenza ai due santi che non si affievolisce con il passare degli anni, ma piuttosto si accresce nella convinzione che ora dal Cielo possono intercedere per la Chiesa, per il Popolo di Dio, che nella loro vita terrena hanno servito con amore e abnegazione.
(fonte: Vatican News, articolo di Alessandro Gisotti 26/04/2024)


venerdì 26 aprile 2024

25 aprile: una piazza in festa - Papa Francesco all'Azione Cattolica «Grazie per questo abbraccio così intenso e bello, che da qui vuole allargarsi a tutta l’umanità, specialmente a chi soffre.» (cronaca, foto, testo e video)

L'incontro con papa Francesco
25 aprile: una piazza in festa

foto: Alessia Giuliani/Fototeca Ac

«È molto doloroso vedere come questa guerra abbia colpito l’animo di tutti nel credere che sia ancora possibile fare qualcosa nella deriva di violenza che sembra non esaurirsi mai. È importante parlare della Terra Santa, non lasciare cadere l’attenzione su questo conflitto che sta lacerando la vita di questi popoli, ma sta anche lacerando la vita della società in tante altre parti del mondo…. La realtà è così complicata e bisogna pregare per questa realtà, essere vicini, parlarne e cercare sempre di costruire relazioni».

Invita a non dimenticare il conflitto in Medio Oriente e a pregare il card. Pierbattista Pizzaballa, patriarca latino di Gerusalemme, nel videomessaggio inviato al popolo di Azione cattolica riunito in Piazza San Pietro per l’incontro con papa Francesco del 25 aprile (in basso il pdf del videomessaggio).

25 aprile: una piazza in festa

Il tema dell’impegno e l’invito a seguire Cristo è stato il file rouge che ha accompagnato l’intera mattinata di A braccia aperte. Oltre 80.000 soci e simpatizzanti provenienti da tutta Italia e di ogni età: adulti, giovani, bambini si sono radunati, in un trionfo di striscioni e bandiere, con lo sguardo e il cuore rivolto al Papa. Una piazza gremita fino all’inizio di Via della Conciliazione con tanti religiosi e amici provenienti dal volontariato, dalle parrocchie, da quella società civile che ogni giorno si dedica alla sofferenza e al bisogno dei fratelli.

Sul sagrato i presentatori Antonella Ventre e Massimiliano Ossini hanno dato il benvenuto ai presenti invitandoli a darsi un abbraccio reciproco e aperto la diretta televisiva con il Rai1. Insieme a loro il presidente nazionale Giuseppe Notarstefano e tutti vertici dell’Associazione.

Più che mai oggi in un tempo complesso da vivere e da decifrare, in cui sono tornati prepotentemente i temi della guerra, della povertà, del sopruso, c’è bisogno della “parola”. I conflitti in Israele e Ucraina, la globalizzazione senza regole, gli equilibri saltati tra gli Stati pretendono una scelta di responsabilità. Non ci si può sottrarre, non ci si può voltare dall’altra parte.

Ad aprire l’Incontro le parole di Mons. Claudio Giuliodori, assistente generale di Ac: «E’ in questo mondo e in questo tempo che siamo chiamati ad essere, in virtù del battesimo ricevuto, soggetti attivi di evangelizzazione. Siamo discepoli missionari di un Signore che per il mondo ha dato la vita. Anche la nostra non può che essere a sua volta donata.»

L’incontro poi è entrato nel vivo con l’intervento dell’attore Neri Marcorè che, imbracciando la chitarra, ha letto alcuni brani su figure della Resistenza cattolica e intonato la canzone di Fabrizio De André La guerra di Piero.

Il saluto di papa Francesco

Accolto dalle parole e musica dell’Inno A braccia aperte composto in occasione dell’incontro e dallo sventolio dei cappellini gialli e blu il Pontefice è entrato in piazza a bordo della papamobile scoperta e circondato da alcuni bambini di Ac.

Francesco ha fatto due giri di piazza salutando e regalando sorrisi soprattutto ai più piccoli. Poi è salito sul sagrato e ha pronunciato il suo discorso rivolto al popolo dell’Azione cattolica ricordando l’importanza della cultura dell’abbraccio: «Cosa sarebbe la nostra vita, e come potrebbe realizzarsi la missione della Chiesa senza questi abbracci? Perciò vorrei proporvi, come spunti di riflessione, tre tipi di abbraccio: l’abbraccio che manca, l’abbraccio che salva, l’abbraccio che cambia la vita».

Francesco ha continuato stigmatizzando i comportamenti che portano alle guerre: la diffidenza nei confronti degli altri, il rifiuto e la contrapposizione che diventano violenza. Abbracci mancati o rifiutati, pregiudizi e incomprensioni che fanno vedere l’altro come nemico.

E ha concluso con un invito: «Vedervi qui tutti insieme mi fa venire in mente il Sinodo e penso al sinodo in corso che giunge alla terza tappa quella profetica; ora si tratta di tradurre il lavoro delle fasi precedenti in scelte che diano slancio alla vita nuova e alla Chiesa del suo tempo. Vi invito a essere atleti e portabandiera di sinodalità nelle diocesi e nelle parrocchie.»

La cura

La festa è proseguita con la band di 60 elementi Rulli Frulli con i suoi strumenti riciclati e la sua verve instancabile. Si è poi esibito in un monologo sulla cura del creato il cantante Giovanni Caccamo che, accompagnato da appalusi scroscianti, ha intonato il brano La cura di Franco Battiato, un inno a prendersi cura del vicino e dell’altro. Intanto dalla piazza, al microfono, i giovani di Ac hanno reso testimonianza della loro esperienza associativa.

La mattinata si è conclusa con canti di ringraziamento, e tanti, tantissimi abbracci.

(fonte: Azione Cattolica Italiana)

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INCONTRO CON L'AZIONE CATTOLICA ITALIANA "A BRACCIA APERTE"

DISCORSO DEL SANTO PADRE FRANCESCO 

Piazza San Pietro
Giovedì, 25 aprile 2024


Cari amiche e amici dell’Azione Cattolica, buongiorno e benvenuti!

Grazie per la vostra presenza. Vi saluto con affetto, in particolare il Presidente nazionale e l’Assistente generale. Poco fa, passando in mezzo a voi, ho incrociato sguardi pieni di gioia, pieni di speranza. Grazie per questo abbraccio così intenso e bello, che da qui vuole allargarsi a tutta l’umanità, specialmente a chi soffre. Mai dobbiamo dimenticare le persone che soffrono.

Il titolo che avete scelto per il vostro incontro è infatti “A braccia aperte”. L’abbraccio è una delle espressioni più spontanee dell’esperienza umana. La vita dell’uomo si apre con un abbraccio, quello dei genitori, primo gesto di accoglienza, a cui ne seguono tanti altri, che danno senso e valore ai giorni e agli anni, fino all’ultimo, quello del congedo dal cammino terreno. E soprattutto è avvolta dal grande abbraccio di Dio, che ci ama, ci ama per primo e non smette mai di stringerci a sé, specialmente quando ritorniamo dopo esserci perduti, come ci mostra la parabola del Padre misericordioso (cfr Lc 15,1-3.11-32). Cosa sarebbe la nostra vita, e come potrebbe realizzarsi la missione della Chiesa senza questi abbracci? Perciò vorrei proporvi, come spunti di riflessione, tre tipi di abbraccio: l’abbraccio che manca, l’abbraccio che salva e l’abbraccio che cambia la vita.

Primo: l’abbraccio che manca. Lo slancio che oggi esprimete in modo così festoso non è sempre accolto con favore nel nostro mondo: a volte incontra chiusure , a volte incontra resistenze, per cui le braccia si irrigidiscono e le mani si serrano minacciose, divenendo non più veicoli di fraternità, ma di rifiuto, di contrapposizione, anche violenta a volte, un segno di diffidenza nei confronti degli altri, vicini e lontani, fino a portare al conflitto. Quando l’abbraccio si trasfroma in un pugno è molto pericoloso. All’origine delle guerre ci sono spesso abbracci mancati o abbracci rifiutati, a cui seguono pregiudizi, incomprensioni, sospetti, fino a vedere l’altro un nemico. E tutto ciò purtroppo, in questi giorni, è sotto i nostri occhi, in troppe parti del mondo! Con la vostra presenza e con il vostro lavoro, invece, voi potete testimoniare a tutti che la via dell’abbraccio è la via della vita.

Il che ci porta al secondo passaggio. Il primo era l’abbraccio che manca, adesso vediamo l’abbraccio che salva. Già umanamente abbracciarsi significa esprimere valori positivi e fondamentali come l’affetto, la stima, la fiducia, l’incoraggiamento, la riconciliazione. Ma diventa ancora più vitale quando lo si vive nella dimensione della fede. Al centro della nostra esistenza, infatti, c’è proprio l’abbraccio misericordioso di Dio che salva, l’abbraccio del Padre buono che si è rivelato in Cristo, e il cui volto è riflesso in ogni suo gesto – di perdono, di guarigione, di liberazione, di servizio (cfr Gv 13,1-15) – e il cui svelarsi raggiunge il suo culmine nell’Eucaristia e sulla Croce, quando Cristo offre la sua vita per la salvezza del mondo, per il bene di chiunque lo accolga con cuore sincero, perdonando anche ai suoi crocifissori (cfr Lc 23,34). E tutto questo ci è mostrato perché anche noi impariamo a fare lo stesso. Perciò, non perdiamo mai di vista l’abbraccio del Padre che salva, paradigma della vita e cuore del Vangelo, modello di radicalità dell’amore, che si nutre e si ispira al dono gratuito e sempre sovrabbondante di Dio (cfr Mt 5,44-48). Fratelli e sorelle, lasciamoci abbracciare da Lui, come bambini (cfr Mt 18,2-3; Mc 10,13-16), lasciamoci abbracciare da Lui come bambini. Ognuno di noi ha nel cuore qualcosa di bambino che ha bisogno di un abbraccio. Lasciamoci abbracciare dal Signore. Così, nell’abbraccio del Signore impariamo ad abbracciare gli altri.

Andiamo al terzo passo. Primo, l’abbraccio che manca; secondo, l’abbraccio che salva; terzo, l’abbraccio che cambia la vita. Un abbraccio può cambiare la vita, mostrare strade nuove, strade di speranza. Sono molti i santi nella cui esistenza un abbraccio ha segnato una svolta decisiva, come San Francesco, che lasciò tutto per seguire il Signore dopo aver stretto a sé un lebbroso, come lui stesso ricorda nel suo testamento (cfr FF 110, 1407-1408). E se questo è stato valido per loro, lo è anche per noi. Ad esempio per la vostra vita associativa, che è multiforme e trova il denominatore comune proprio nell’abbraccio della carità (cfr Col 3,14; Rm 13,10), unico contrassegno essenziale dei discepoli di Cristo (cfr Lumen gentium, 42), regola, forma e fine di ogni mezzo di santificazione e di apostolato. Lasciate che sia essa a plasmare ogni vostro sforzo e servizio, perché possiate vivere fedeli alla vostra vocazione e alla vostra storia (cfr Discorso all’Azione Cattolica, 30 aprile 2017).

Amici, voi sarete tanto più presenza di Cristo quanto più saprete stringere a voi e sorreggere ogni fratello bisognoso con braccia misericordiose e compassionevoli, da laici impegnati nelle vicende del mondo e della storia, ricchi di una grande tradizione, formati e competenti in ciò che riguarda le vostre responsabilità, e al tempo stesso umili e ferventi nella vita dello spirito. Così potrete porre segni concreti di cambiamento secondo il Vangelo a livello sociale, culturale, politico ed economico nei contesti in cui operate.

Allora, fratelli e sorelle, la “cultura dell’abbraccio”, attraverso i vostri cammini personali e comunitari, crescerà nella Chiesa e nella società, rinnovando le relazioni familiari ed educative, rinnovando i processi di riconciliazione e di giustizia, rinnovando gli sforzi di comunione e di corresponsabilità, costruendo legami per un futuro di pace (cfr Discorso al Consiglio Nazionale dell’Azione Cattolica Italiana, 30 aprile 2021).

E in proposito vorrei aggiungere un ultimo pensiero. Vedervi qui tutti insieme – ragazzi, famiglie, uomini e donne, studenti, lavoratori, giovani, adulti e “adultissimi” (come chiamate quelli della mia generazione) – mi fa venire in mente il Sinodo. E penso al Sinodo in corso, che giunge alla sua terza tappa, la più impegnativa e importante, quella profetica. Ora si tratta di tradurre il lavoro delle fasi precedenti in scelte che diano slancio e vita nuova alla missione della Chiesa nel nostro tempo. Ma la cosa più importante di questo Sinodo è la sinodalità. Gli argomenti, i temi, sono per portare avanti questa espressione della Chiesa, che è sinodalità. Per questo c’è bisogno di uomini e donne sinodali, che sappiano dialogare, interloquire, cercare insieme. C’è bisogno di gente forgiata dallo Spirito, di “pellegrini di speranza”, come dice il tema del Giubileo ormai vicino, uomini e donne capaci di tracciare e percorrere sentieri nuovi e impegnativi. Vi invito dunque ad essere “atleti e portabandiera di sinodalità” (cfr ibid.), nelle diocesi e nelle parrocchie di cui fate parte, per una piena attuazione del cammino fatto fino ad oggi.

Nei mesi scorsi avete vissuto, nelle vostre comunità, momenti di intensa esperienza associativa, con il rinnovo dei responsabili a livello diocesano e parrocchiale, e questa sera inizierà la XVIII Assemblea nazionale. Vi auguro di vivere anche queste esperienze non come adempimenti formali, no, ma come momenti di comunione, momenti di corresponsabilità, momenti ecclesiali, in cui contagiarsi a vicenda con abbracci di affetto e di stima fraterna (cfr Rm 12,10).

Carissimi, grazie per quello che siete, grazie per quello che fate! La Madonna vi accompagni sempre. Prego per voi. E vi raccomando, non dimenticatevi di pregare per me, a favore, non contro! Grazie.

Guarda il video integrale

Mons. Gianfranco Ravasi Le parole shock di Gesù / 9 Non desiderare!

Mons. Gianfranco Ravasi
Le parole shock di Gesù / 9
Non desiderare! 
 

Io vi dico: chiunque guarda una donna per desiderarla,
ha già commesso adulterio con lei nel suo cuore.
(Matteo 5, 28)

Si è spesso ironizzato su questa frase del Discorso della Montagna, mostrandone l’eccesso. La risposta a queste ironie e ai relativi corollari sarcastici è duplice. Iniziamo puntando la nostra attenzione sul verbo “desiderare”, in greco epithyméin. Esso rimanda al sottofondo ebraico del nono e decimo comandamento del Decalogo che suonava così: «Non desidererai la casa del tuo prossimo. Non desidererai la moglie del tuo prossimo» (Esodo, 20,17). Là si usava il verbo ebraico hamad, che aveva un valore particolare, ricalcato da quello greco presente nel Vangelo di Matteo.

Di scena con quel termine non era la semplice emozione istantanea e spontanea di fronte a una persona o a una realtà attraente, bensì una decisione profonda della volontà che pianifica un progetto vero e proprio per conquistare l’oggetto del desiderio, anche attraverso una macchinazione o una tensione psicologica intima o una costante concupiscenza. Pensiamo al celebre racconto del capitolo 13 del libro di Daniele ove due anziani tentano di sedurre Susanna, con una passione frenetica e insensata, senza alla fine riuscirvi. Ecco, Gesù ammonisce che si può compiere adulterio anche senza giungere, forse per motivi estrinseci, a commetterlo realmente, ma solo attuandolo col cuore, con la scelta interiore, con una programmazione coerente e cosciente di tradimento.

A questo punto introduciamo la seconda osservazione di indole più generale che rimanda al contesto in cui è inserita la frase all’interno del Discorso della Montagna. Nell’architettura di quel Discorso ci si imbatte in quelle che sono state chiamate le “sei antitesi” (5, 21-48). Gesù, a prima vista, sembra opporre a sei precetti della Legge biblica altrettanti comandamenti suoi, di taglio antitetico. In realtà, come già notava uno studioso, David Daube, «la relazione tra le due parti dello schema («Avete udito... ma io vi dico...») non è di puro contrasto. Il secondo elemento dell’antitesi rivela il senso racchiuso nel primo, anziché sopprimerlo».
Gesù, quindi, assume l’antico comandamento biblico, ne rifiuta l’interpretazione riduttiva e letteralista che era propria di un certo atteggiamento del suo tempo (e, per certi versi, costante nei secoli) e ne mostra la vera anima, la forza sottesa, qualora quel comandamento sia compreso nel suo significato profondo al di là della lettera. Anche nel nostro caso del “desiderio” si intuisce questa logica radicale, protesa a celebrare la verità genuina e l’autenticità del matrimonio: «Avete inteso che fu detto: Non commetterai adulterio! Ma io vi dico: chiunque guarda una donna per desiderarla...» (5, 27-28). Cristo propone una spiritualità matrimoniale e una morale sessuale di pienezza che egli vede già iscritta nel sesto comandamento del «non commettere adulterio» (Esodo, 20,14), il cui vero valore va oltre la mera proibizione del tradimento, ovviamente condannato.
(fonte: L'Osservatore Romano 23 marzo 2024)

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Vedi anche i post precedenti:

giovedì 25 aprile 2024

25 aprile Festa della Liberazione - DAVIDE MARIA TUROLDO: COME RICORDARE - PERCHÈ RICORDARE - CHE COSA RICORDARE

25 aprile Festa della Liberazione
DAVIDE MARIA TUROLDO
COME RICORDARE
PERCHÈ RICORDARE
CHE COSA RICORDARE


Il testo che qui pubblichiamo è un estratto dell'intervento di Padre Davide Maria Turoldo, tenuto il 31 maggio 1985 presso l'Istituto Tecnico Industriale Statale "Benedetto Castelli" di Brescia, in occasione di un ciclo di conferenze organizzato dalla Fondazione Clementina Calzari Trebeschi sul tema La lotta di liberazione in Italia: la vicenda storica e l'eredità etico-civile.

Nel ventesimo anniversario della scomparsa di Padre Turoldo, abbiamo ritenuto opportuno far conoscere il suo messaggio: un'appassionata testimonianza, nutrita di una schietta colloquialità, il cui esito più accattivante è certamente quello di mettere in luce con estrema chiarezza, sottraendolo a ogni rischio di oblio o di troppo facile retorica, quale sia stato, e continui ad essere, il senso e il valore dell'evento storico che chiamiamo Resistenza, con la decisa assunzione del termine "Resistenza" a categoria della vita morale.

Il testo è del 1985, ma come sempre, quando le parole si caricano di autenticità di significati, è denso di attualità.

...essere solo
un segno di speranza
(D.M. Turoldo, Testamento breve)

Cari giovani,

uso sempre cominciare con un saluto, che vorrebbe essere una stretta di mano, perché, per quanto sia un uomo rotto a molte esperienze, per quanto parli tutti i giorni, e da anni e anni - sono purtroppo abbastanza anziano, sono già quarantacinque anni che sono sacerdote, frate, dunque pensate voi, nessuno di voi era nato ancora quando mi toccava predicare nel Duomo di Milano - quindi, rotto a molte esperienze, però credo di non aver mai parlato dalle cattedre. Idealmente, spiritualmente mi sono sempre sentito uno in cammino, uno sulla strada, uno che cerca, perciò do la mano a tutti quelli che incontro, per camminare insieme, e tanto più, la do volentieri a voi che siete venuti dopo.

Io oggi accompagno una scuola, l'Istituto Tecnico Industriale, dove le materie sono una più severa dell'altra; bene, mi ricordo il principio agostiniano, che non esiste maestro, ma siamo tutti discepoli; tutt'al più, uno è venuto prima, l'altro dopo, e magari quello che è venuto prima mette la propria esperienza a disposizione dell'altro. Vorrei in questo clima parlare con voi di cose molto, molto, molto serie; vorrei che passassimo proprio un'ora e mezza insieme, questo squarcio di mattinata, in maniera veramente raccolta, perché ho paura, ho paura per voi.

E vi dico subito il mio stato d'animo... Vi dirò proprio che io, rispetto a voi, ho due stati d'animo, uno uguale, uno contrario all'altro: non so mai se invidiarvi, oppure se compiangervi; e vi dirò proprio perché: sono portato a invidiarvi, per la ragione stessa della vita -voi siete nella giovinezza e io sono nel declino- ma, più che per questo, per la storia che io ho vissuto, e mi auguro molto diversa dalla storia che, dovreste, almeno spererei, vivere voi. Ecco, io sono nato, notate, nella guerra mondiale; i miei hanno dovuto essere profughi di Caporetto - io sono friulano; sono nato nella fuga di Caporetto - disastro! - sono cresciuto in tempi di guerra. I miei vecchi erano della prima guerra mondiale. Mio fratello - io ero già ormai chierico, sacerdote nel 1940- mio fratello fa sette anni di guerra, senza mai neanche sperare di ritornare.

Ecco incominciano i periodi dell'invidia, e le ragioni dell'invidia; invidiarvi, perché almeno voi, io spero, non vivrete quello che noi abbiamo vissuto: una guerra interminabile!

Pensate ...
Cinquantasette milioni di morti! Anni interminabili! ...
Ma capite? Dico, certo voi giovani cantate, perché queste esperienze non le avete vissute. ...

Per dire, qualche ragione, qualche elemento di stato d'animo, per cui io veramente vi invidio. Però vi compiango! non so appunto se invidiarvi o compiangervi, perché non avendo avuto queste esperienze, non vorrei che aveste la tentazione di fare quello che abbiamo fatto noi, di commettere gli stessi orribili errori, che abbiam commesso noi! Perché questo bisogna dirlo, e questo nella formazione, altrimenti che coscienza formeremo?

Mi viene in mente una frase di Einstein, che io ho messo su un libro, che ho scritto sulla pace, e ho proprio messo sulla fascetta un pensiero di La Pira e un pensiero di Einstein, e Einstein dice questo: “E tuttavia, io stimo tanto l'umanità da pensare che questi orribili fantasmi dell'odio e della guerra sarebbero da tempo scomparsi se il buon senso dei popoli, (cioè la coscienza) non fosse sistematicamente corrotto (notate: sistematicamente corrotto), per mezzo della scuola e della stampa, dagli intriganti del mondo della politica e degli affari".

Per questo ringrazio Iddio - appena mi invitano nelle scuole vado subito, perché sono i semenzai della coscienza, sono le oasi dove si forma o deforma la coscienza.

Perciò, sentite, cari giovani, fatemi un favore, perché io veramente patisco enormemente, e mi sembra di rendermi colpevole se dovessi sciupare una mattinata come questa. Perciò vi prego, ci metto l'anima, il sangue, voi metteteci almeno l'attenzione, anche se vi costa, perché lo so benissimo che costa! Ma lo faccio per voi, non per me: io son pronto a far le consegne: ma a chi passare le consegne, a chi, se non alla generazione nuova?

Bene, vi voglio dire alcuni pensieri: come e perché ricordare. Sì, ho fatto la Resistenza. Nel '40 ero già sacerdote a Milano... mi sentite tutti? No, perché mi piace guardarvi in faccia - io non riesco a parlare, anche se so tutto a memoria, se non vedo in faccia gli uomini a cui parlo - per me il più bel libro del mondo è la faccia di un uomo, è quella che devo decifrare per tutta la vita - e così, allora, guardandoci in faccia vi dirò alcune cose molto grosse.

Vi dirò come e perché ricordare. ... E poi, ho visto qui il vostro calendario, dedicato a queste circostanze; quindi penso che per voi alcune cose che dirò non sono riferite a voi, ma sono riferite, in generale, alla generazione attuale di giovani, che rischia di essere una generazione astorica, priva di memoria.

Perché purtroppo, circa la Resistenza, anche su queste cose cosi delicate, noi abbiamo parecchie responsabilità, e molte colpe.

Sono stato invitato addirittura dalla Diocesi di Milano a scrivere le esperienze che ho vissuto. E qui ho alcune note raccolte e pubblicate su Terra ambrosiana, note che ritengo di drammatica utilità per tutti, o, almeno, per quanti siamo convinti di vivere giorni molto sbagliati, e cioè convinti di essere giunti a queste attuali situazioni anche perché non si è accolto l'insegnamento, il messaggio che ci veniva precisamente dalla Resistenza, dall'evento della Resistenza - colpa certo non vostra.

... Dio non era con Hitler - anche se i tedeschi portavano sulla pancia il "Gott mit uns", "Dio con noi" - come potrebbe non essere oggi dalla parte dei nuovi potenti. Bisogna star bene attenti, perché là dove c'è questo, c'è la storia della liberazione che si scatena.

... Io non penso che Dio - amante della vita - possa essere geloso di chi dona la vita per il fratello: nessuno ha maggior amore di colui che dona la vita per un fratello, ne abbia o non ne abbia coscienza, egli si mette nella scia di Cristo, o almeno di quanto Cristo significa. Il buddista, il bonzo che si brucia sulla piazza di Saigon, può anche non sapere di Cristo, ma già dona la vita per i fratelli: è nella scia di Cristo e di ciò che Cristo significa!

Perciò si dice: Egli è il primogenito di tutti, di quanti credono in una umanità, in una vita donata al riscatto di molti, cosa che sta avvenendo oggi in tutto il mondo. Perché poi, dovete anche pensare che non c'è mai stata nel mondo tanta gente che sa morire come oggi, in tutte le parti del mondo! Questo è tempo di moltitudini di martiri...
Sì, è vero che se c'è tanta gente che sa morire - e io ne ho conosciuta tanta - dobbiamo anche dire che c'è tanta gente assassina, che sa uccidere. Ma intanto c'è anche questo aspetto, e l'importante, allora, è da che parte stare, da che parte sentirci, nella via e nella scelta giusta.

Per questo, vedete, Resistenza può considerarsi addirittura una categoria teologale; può far parte della stessa concezione della vita.

Difatti Cristo è sempre stato in uno stato di resistenza, di contrapposizione. Difatti è scritto: "Egli sarà segno di contraddizione". E addirittura nell'ultima preghiera dice: "Padre, io non ti prego, non ti chiedo di toglierli dal mondo. Essi sono nel mondo ma non sono del mondo". Che vuol dire, tradotto in termini correnti: essi sono nel sistema, ma non sono del sistema, sono in contrapposizione al sistema. Ecco il concetto, la posizione, la scelta che dovremmo avere noi, di noi stessi, quali il Vangelo ci pensa.

... Il nostro motto era: "Non tradire più l'Uomo". Resistenza era la scelta dell'umano contro il disumano, quale presupposto di ogni ideologia e di ogni etica personale. Ciò che valeva, e che dovrebbe sempre valere, è da che parte stare; se si è, appunto, dalla parte giusta.

In certe situazioni storiche, come quelle del fascismo e della guerra, io ho sempre stimato "beati" coloro che avevano fame e sete di opposizione, giudizio che ritengo ancora valido, riscontrando il perdurare di sistemi altrettanto disumani. E perciò io mi auguro che la Resistenza come valore possa diventare l'anima ispiratrice delle nuove generazioni.

Se fossero... ecco qui: qui è il mio problema più grande, rispetto ai giovani: se fossero educate, queste nuove generazioni, al costo della libertà, ad esempio, e anche al costo di questo malvissuto benessere, non saremmo certo al punto in cui siamo.

Invece oggi abbiamo... ma non è colpa vostra, cari giovani! anzi io qui sento di dire... di sfondare porte aperte; perché quando un Istituto ha queste preoccupazioni, vuol dire che ha la coscienza, di che cosa tramandare; ma in generale - dicevo - oggi abbiamo giovani senza ricordi! Giovani astorici! Generazione rapinata del dono della Memoria, e perciò incapaci o almeno inadatti a credere perfino in un loro definitivo avvenire, perché non sanno nulla del passato - non possono prevedere il futuro. Così rischiano di essere alla mercè del cinismo, o almeno dell'indifferenza, quando, appunto, frange molto estese non si danno anche alla droga; quando molti non siano portati al disprezzo della stessa vita, appunto perché non sanno.

Voglio dirvi un pensiero di Calamandrei, quella grande figura di Calamandrei: "I ragazzi delle scuole (lui dice così) imparano chi fu Muzio Scevola, o Orazio Coclite (magari non sanno neanche quello, oggi, eh? ma comunque si suppone) ma non sanno chi furono i fratelli Cervi; non sanno chi fu ...

Non sanno nulla del primo Piazzale Loreto: in quel giorno io ho chiesto perdono di vivere - era nell'agosto 1944. Perché tutti sanno del secondo Piazzale Loreto, ma non sanno del primo ...
Gente rapinata del ricordo e della coscienza! Io mi domando: questi giovani, in che cosa potranno credere e sperare?

Se nel campo morale la Resistenza significò rivendicazione della dignità umana uguale per tutti, e rifiuto di tutte le tirannie, nel campo politico la Resistenza significò volontà di creare una società retta sulla collaborazione volontaria degli uomini liberi, nel senso di autoresponsabilità e di autodisciplina, che necessariamente si stabilisce quando tutti gli uomini si sentono ugualmente artefici del destino comune e non divisi tra padroni e servi. Ma ora siamo di nuovo divisi tra padroni e servi, tanto che per i servi non c'è più neanche la possibilità di parlare!

Tra i morti della Resistenza vi erano seguaci di tutte le fedi: questa è cosa che dovreste tramandare, voi! ognuno aveva il suo Dio, ognuno aveva il suo credo, e parlavano lingue diverse, e avevano pelle di diverso colore, eppure nella libertà e nella dignità umana si sentivano fratelli. Volevano costruire un mondo giusto, dove tutti gli uomini vivano del proprio lavoro, dove ogni uomo conti veramente per uno, e non la massa, la moltitudine, gli stadi, dove la vita umana non conta più nulla!

Capire la Resistenza può non essere facile, soprattutto quando non si vuol capire, ma ignorarla non è possibile. Ecco, io vorrei che questo fosse il vero messaggio: la Resistenza non è finita; è stata frutto di pochi precursori, che avevano seminato durante un ventennio, ma è stata anche una più vasta semente per l'avvenire. E non dobbiamo scoraggiarci. ... 
Ho detto, perciò, come e perché ricordare; ma che cosa ricordare? Ecco, vorrei che aveste ancora un po' di pazienza; e vi leggo alcune testimonianze - semplicemente - di quello che io volevo che fosse tramandato. ...

E proprio qui, mi viene in mente il giuramento dei sopravvissuti, che si sciolgono da Mauthausen, ripartono finalmente per i propri Paesi, dopo essersi stretti la mano, e fatto un patto: "Noi sopravvissuti, in nome di questi morti (perché ormai tutto era un ossario, l'Europa era solo cenere di morti, come vi dicevo all'inizio) noi, in nome dei morti, come sopravvissuti giuriamo di sentirci sempre come fratelli, di non odiarci più, di non fare più guerre. Noi giuriamo di sentire l'Europa unita, di fare l'Europa unita. Noi giuriamo di non tradire questi morti, affinché non siano morti invano. Rendiamoci grati della vita che ci è stata regalata, lavorando soltanto per la libertà e per la pace".

Vi ho riassunto il giuramento dei sopravvissuti di Mauthausen. Credo che sia quello il messaggio da accogliere - e in cui sperare. Se questo dovesse avverarsi, allora io continuerò a invidiarvi, e mai a compiangervi.

Leggi il testo integrale dell'intervento di Padre Davide Maria Turoldo


Davide Maria Turoldo nasce a Coderno (Friuli) nel 1916.
Di origini contadine, nono di dieci fratelli, a soli 13 anni entra nella Casa di Formazione dell'Ordine monastico dei Servi di Maria. Viene ordinato sacerdote nel 1940, e si trasferisce a Milano su invito del Cardinale Schuster.
Si laurea in Filosofia nel 1946 all'Università Cattolica di Milano, e a Milano, la sua città d'elezione, tiene le predicazioni domenicali nel Duomo dal 1943 al 1953, e fonda la Corsia dei Servi, centro culturale dedicato all'approfondimento dei problemi di attualità italiani e internazionali.
Partecipa attivamente alla Resistenza antifascista con il gruppo cattolico raccolto intorno al giornale clandestino "L'Uomo".
Scrittore di saggi, di libri di spiritualità, collaboratore di giornali e riviste, sceneggiatore in collaborazione con P.P. Pasolini del film "Gli ultimi" (1962), ha pubblicato diverse raccolte poetiche dal 1948 al 1992, anno della sua morte.
Con la sua opera e la sua costante presenza nella vita pubblica, occupa un importante ruolo nella chiesa e nella società, non senza incorrere in incomprensioni e scontri con le autorità ecclesiastiche, tanto da dover trascorrere vari anni fra il 1953 e il 1964 in diversi conventi del suo Ordine lontano dall'Italia.
Il Concilio Vaticano II è per lui l'avvenimento più importante della vita della Chiesa contemporanea. Tornato in Italia nel 1964, decide di andare a vivere a Sotto il Monte, il paese natale di Papa Giovanni XXIII, restaurando un'antica abbazia cluniacense, e trasformandola in centro di studi ecumenici aperto ad ogni confessione religiosa, compresa l'islamica, e anche ai non credenti.
In un rapporto più sereno con la Chiesa, e per chiamata del Cardinale Martini, negli ultimi anni torna a predicare nel Duomo di Milano.
Muore a Milano il 6 febbraio del 1992.


Enzo Bianchi: Cosa ricordo della Resistenza

Enzo Bianchi
Cosa ricordo della Resistenza

La Repubblica - 22 Aprile 2024


Inequivocabili segnali d’allarme non sono mancati in questi ultimi decenni: abbiamo denunciato la barbarie incalzante, vera minaccia alla convivenza democratica, l’involgarimento dei modi e del gusto e il dilagare della mediocrità e della rozzezza che secondo Robert Musil inducono a una prassi della stupidità. Queste situazioni non sono malesseri delle persone, sono patologie della vita sociale che rappresentano un attentato alla democrazia e innanzitutto all’esercizio della libertà. Domina ormai una cultura della forza, dell’autoritarismo, l’ostentazione della prepotenza che dilaga “tra la gente”, “nel popolo”, l’autorizzazione all’odio a tal punto da impedire che questo sia il soggetto della responsabilità, capace di condurre una vita democratica. Di fatto “il popolo” viene usato e degradato a “massa di manovra” e la volontà popolare della maggioranza può propendere per un regime che fa sognare architetture politiche di forza in cui le prime ad essere offese sono le libertà.

Appartengo all’ultima generazione vivente nata durante la Resistenza e della Resistenza abbiamo solo sbiaditi ricordi, ma è viva in noi la memoria che durante la nostra crescita ci veniva ripetuto: “Prima della caduta del Fascismo non potevamo parlare, avevamo paura... Eravamo testimoni di una violenza legalizzata... C’era la censura ovunque e ora invece abbiamo la libertà!”. Non erano i racconti delle battaglie che venivano tramandati, ma questa coscienza della decisiva importanza della libertà. E come un lascito ho ricevuto l’affermazione: “La libertà non devi mai mendicarla, ma esercitarla e basta!”.

Ma ora ci domandiamo perché è avvenuta la perdita di questa memoria morale, perché non c’è stata una trasmissione di questo messaggio della libertà che è sempre apertura a cammini di liberazione, perché da sempre nella società compaiono forze che innanzitutto contrastano la libertà? Certamente la libertà richiede responsabilità da parte degli uomini e delle donne che la sentono come il primo riconoscimento della propria dignità: responsabilità del soggetto che sa affermare l’“io” per poter affermare il “noi”, contro ogni appiattimento acritico e contro ogni tentativo di manovrare le masse; responsabilità della propria unicità e irripetibilità che rifugge il conformismo e non si lascia abbagliare dal fascismo che sotto diverse forme pretende che il potere sia imposto e non riceva critiche e opposizioni.

Fuori di questa responsabilità, che non è altro che assunzione dell’umanità e della storia come “nostro compito”, c’è la demissione di fatto che o apre al regime autoritario o lascia solo spazio alla stupidità del populismo.

Dietrich Bonhoeffer, teologo luterano impiccato dai nazisti nel 1945, aveva scritto: “Per il bene la stupidità è un nemico più pericoloso della malvagità ... In determinate circostanze gli uomini vengono resi stupidi, ovvero si lasciano rendere tali ... Sì, qualsiasi ostentazione esteriore di potenza, politica o religiosa che sia, provoca l’istupidimento di una gran parte degli uomini ... La potenza dell’uno richiede la stupidità degli altri”.

All’orizzonte della nostra polis il cielo è oscuro soprattutto in Europa e non solo per le guerre in territorio europeo e attorno al Mediterraneo, ma per gli orientamenti delle masse, talmente accecate da promesse di potenza e di forza da non saper più discernere la democrazia che si nutre di libertà.
(fonte: blog dell'autore)


mercoledì 24 aprile 2024

Papa Francesco «Il cristiano non è mai solo. ... se abbiamo perso la fiducia, Dio ci riapre alla fede; se siamo scoraggiati, Dio risveglia in noi la speranza; e se il nostro cuore è indurito, Dio lo intenerisce col suo amore. » Udienza Generale 24/04/2024 (foto, testo e video)

UDIENZA GENERALE

Piazza San Pietro
Mercoledì, 24 aprile 2024


Colonna sonora particolare, oggi, per l’udienza generale di Papa Francesco in piazza San Pietro. A fare da sfondo al consueto giro tra i vari settori della piazza sono stati, infatti, i cori degli alpini. Sulla papamobile, come è ormai consuetudine, il Santo Padre ha fatto salire quattro bambini, che si sono goduti il tragitto sorridendo e salutando anche loro, insieme al Papa, che si è rivolto alla folla – anche oggi straripante, con file che dal lato del Sant’Uffizio cominciavano all’altezza di Casa Santa Marta – facendo più volte il segno dell’“ok” con la mano. Molti anche oggi i bambini che Francesco ha accarezzato e baciato lungo il percorso, grazie al solerte aiuto degli uomini della Gendarmeria Vaticana.
Papa Francesco ha dedicato la catechesi dell’udienza di oggi alle tre virtù teologali: fede, speranza e carità.







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Il testo qui di seguito include anche parti non lette che sono date ugualmente come pronunciate.

Catechesi. I vizi e le virtù. 16. La vita di grazia secondo lo Spirito


Cari fratelli e sorelle, buongiorno!

Nelle scorse settimane abbiamo riflettuto sulle virtù cardinali: prudenza, giustizia, fortezza e temperanza. Sono le quattro virtù cardinali. Come abbiamo sottolineato più volte, queste quattro virtù appartengono a una sapienza molto antica, che precede anche il cristianesimo. Già prima di Cristo si predicava l’onestà come dovere civile, la sapienza come regola delle azioni, il coraggio come ingrediente fondamentale per una vita che tende verso il bene, la moderazione come misura necessaria per non essere travolti dagli eccessi. Questo patrimonio tanto antico, patrimonio dell’umanità, non è stato sostituito dal cristianesimo, ma messo bene a fuoco, valorizzato, purificato e integrato nella fede.

C’è dunque nel cuore di ogni uomo e donna la capacità di ricercare il bene. Lo Spirito Santo è donato perché chi lo accoglie possa distinguere chiaramente il bene dal male, avere la forza per aderire al bene rifuggendo dal male e, così facendo, raggiungere la piena realizzazione di sé.

Ma nel cammino che tutti stiamo facendo verso la pienezza della vita, che appartiene al destino di ogni persona – il destino di ogni persona è la pienezza, essere piena di vita –, il cristiano gode di una particolare assistenza dello Spirito Santo, lo Spirito di Gesù. Essa si attua con il dono di altre tre virtù, prettamente cristiane, che spesso vengono nominate insieme negli scritti del Nuovo Testamento. Questi atteggiamenti fondamentali, che caratterizzano la vita del cristiano, sono tre virtù che noi diremo adesso insieme: la fede, la speranza e la carità. Diciamolo insieme: [insieme] la fede, la speranza… non sento niente, più forte! [insieme] La fede, la speranza e la carità. Siete stati bravi! Gli scrittori cristiani le hanno ben presto chiamate virtù “teologali”, in quanto si ricevono e si vivono nella relazione con Dio, per differenziarle dalle altre quattro chiamate “cardinali”, in quanto costituiscono il “cardine” di una vita buona. Queste tre sono ricevute nel Battesimo e vengono dallo Spirito Santo. Le une e le altre, sia le teologali sia le cardinali, accostate in tante riflessioni sistematiche, hanno così composto un meraviglioso settenario, che spesso viene contrapposto all’elenco dei sette vizi capitali. Così il Catechismo della Chiesa Cattolica definisce l’azione delle virtù teologali: «Fondano, animano e caratterizzano l’agire morale del cristiano. Esse informano e vivificano tutte le virtù morali. Sono infuse da Dio nell’anima dei fedeli per renderli capaci di agire quali suoi figli e meritare la vita eterna. Sono il pegno della presenza e dell’azione dello Spirito Santo nelle facoltà dell’essere umano» (n. 1813).

Mentre il rischio delle virtù cardinali è quello di generare uomini e donne eroici nel compiere il bene, ma tutto sommato soli, isolati, il grande dono delle virtù teologali è l’esistenza vissuta nello Spirito Santo. Il cristiano non è mai solo. Compie il bene non per un titanico sforzo di impegno personale, ma perché, come umile discepolo, cammina dietro al Maestro Gesù. Lui va avanti nella via. Il cristiano ha le virtù teologali che sono il grande antidoto all’autosufficienza. Quante volte certi uomini e donne moralmente ineccepibili corrono il rischio di diventare, agli occhi di chi li conosce, presuntuosi e arroganti! È un pericolo davanti al quale il Vangelo ci mette bene in guardia, là dove Gesù raccomanda ai discepoli: «Anche voi, quando avrete fatto tutto quello che vi è stato ordinato, dite: “Siamo servi inutili. Abbiamo fatto quanto dovevamo fare”» (Lc 17,10). La superbia è un veleno, è un veleno potente: ne basta una goccia per guastare tutta una vita improntata al bene. Una persona può avere compiuto anche una montagna di opere benefiche, può aver mietuto riconoscimenti ed encomi, ma se tutto ciò l’ha fatto solo per se stesso, per esaltare se stessa, può dirsi ancora una persona virtuosa? No!

Il bene non è solo un fine, ma anche un modo. Il bene ha bisogno di tanta discrezione, di molta gentilezza. Il bene ha bisogno soprattutto di spogliarsi di quella presenza a volte troppo ingombrante che è il nostro io. Quando il nostro “io” è al centro di tutto, si rovina tutto. Se ogni azione che compiamo nella vita la compiamo solo per noi stessi, è davvero così importante questa motivazione? Il povero “io” si impadronisce di tutto e così nasce la superbia.

Per correggere tutte queste situazioni che a volte diventano penose, le virtù teologali sono di grande aiuto. Lo sono soprattutto nei momenti di caduta, perché anche coloro che hanno buoni propositi morali a volte cadono.  Come anche chi si esercita quotidianamente nella virtù a volte sbaglia – tutti sbagliamo nella vita –: non sempre l’intelligenza è lucida, non sempre la volontà è ferma, non sempre le passioni sono governate, non sempre il coraggio sovrasta la paura. Ma se apriamo il cuore allo Spirito Santo – il Maestro interiore –, Egli ravviva in noi le virtù teologali: allora, se abbiamo perso la fiducia, Dio ci riapre alla fede – con la forza dello Spirito, se abbiamo perso la fiducia, Dio ci riapre alla fede –; se siamo scoraggiati, Dio risveglia in noi la speranza; e se il nostro cuore è indurito, Dio lo intenerisce col suo amore. Grazie.

Guarda il video della catechesi

Saluti
...

* * *

Rivolgo un cordiale benvenuto ai pellegrini di lingua italiana. In particolare ...

Il mio pensiero va infine ai giovani, ai malati, agli anziani e agli sposi novelli. Domani celebreremo la festa liturgica di san Marco, l’Evangelista che ha descritto con vivacità e concretezza il mistero della persona di Gesù di Nazaret. Invito tutti voi a lasciarvi affascinare da Cristo, per collaborare con entusiasmo e fedeltà alla costruzione del Regno di Dio.

E poi il pensiero va alla martoriata Ucraina, alla Palestina, a Israele, al Myanmar che sono in guerra, e a tanti altri Paesi. La guerra sempre è una sconfitta, e quelli che guadagnano di più sono i fabbricatori di armi. Per favore, preghiamo per la pace! Preghiamo per la martoriata Ucraina: soffre tanto, tanto. I soldati giovani vanno a morire. Preghiamo. E preghiamo anche per il Medio Oriente, per Gaza: si soffre tanto lì, nella guerra. Per la pace tra Palestina e Israele, che siano due Stati, liberi e con buoni rapporti. Preghiamo per la pace.

A tutti la mia benedizione!


Guarda il video integrale


Enzo Bianchi: Il Patriarca d’Occidente

Enzo Bianchi
Il Patriarca d’Occidente


La Repubblica - 15 Aprile 2024

Nelle chiese cristiane e dunque anche nella chiesa cattolica succedono fatti, si compiono azioni che non sembrano interessare i lettori dei nostri giornali e perciò non trovano né spazio, né narrazione, né se ne intravvede il significato. E tuttavia qualche volta quasi in silenzio si compiono atti che sono molto importanti nel dialogo tra le chiese e nella possibile condivisione del loro stare nel mondo in mezzo all’umanità.

Il Vescovo di Roma, lo si sa, abbonda di titoli che ne vogliono celebrare la dignità. Questi appaiono nelle prime pagine dell’Annuario Pontificio (un organo informativo pubblicato ogni anno dalla Santa Sede) e di conseguenza nei documenti più solenni: Vicario di Cristo, Successore del Principe degli Apostoli, Sommo Pontefice della Chiesa Universale, Patriarca d’Occidente, Primate d’Italia, Arcivescovo e Metropolita della Provincia romana, Sovrano dello Stato della città del Vaticano...

Nell’attuale Annuario vengono detti “titoli storici” per significare che sono legati alle vicende storiche e non sono originati dal Vangelo. Risuona perciò un po’ stonato che dopo tutti questi titoli storici appaia quello vero, il più appropriato, usato da Papa Gregorio Magno, che definisce il Papa “Servo dei servi si Dio”. Ma è pur vero che nella gerarchia ecclesiastica i titoli contano, soprattutto quelli che sono riconosciuti anche da altre chiese non cattoliche. Tale il titolo di Patriarca dell’Occidente perché i canali ecumenici avevano definito il Sistema di governo della chiesa cristiana come “pentarchia”, cioè governo dei cinque patriarchi che si affacciavano sul Mediterraneo: Gerusalemme, Alessandria, Antiochia, Roma, Costantinopoli.

Purtroppo Benedetto XVI nel 2006, spinto da quanti vedevano nel titolo di Patriarca d’Occidente una riduzione nei confronti del primato universale del vescovo di Roma, fece cadere questo titolo che non apparve più nell’Annuario pontificio.

Grande fu la meraviglia delle chiese ortodosse che vissero il fatto come un ulteriore distacco di Roma dalla sinfonia del primo millennio e giudicarono questa omissione antiecumenica. Purtroppo il Pontificio Consiglio dell’unità di allora giustificò questo provvedimento cercando di spiegare agli ortodossi che questo era diventato un titolo inadeguato a causa di un Occidente oggi da intendersi nel senso di unità culturale e non più geografica.

Ma Papa Francesco, che ha ascoltato i desideri delle chiese ortodosse e di quanti lavorano veramente per l’unità della chiesa, fin dall’inizio del suo papato ha messo in evidenza il titolo di Vescovo di Roma, e ora ha reintrodotto quello di Patriarca d’Occidente, dando inizio a un processo che riconfigura la chiesa latina come Patriarcato d’Occidente, in cui il primato papale, com’è esercitato nella chiesa cattolica, potrebbe essere esercitato in forma non di giurisdizione ma di comunione con le chiese ortodosse come nel primo millennio. Con questo non si risolve il problema della divisione tra le chiese, oggi diventato tragico anche all’interno della stessa Ortodossia e delle singole chiese, ma si rimuove un ostacolo al cammino verso l’unità: la chiesa cattolica sta umilmente nella sinfonia delle altre chiese senza per questo negare il primato del Vescovo di Roma.

Papa Francesco, lo sappiamo, ha ascoltato, ha fatto discernimento, ha scelto la via evangelica delle chiese sorelle tra le quali fraternità e sororità sono necessarie come nel quotidiano della vita cristiana.
Senza clamore, eppure significativi, questi gesti mostrano un’attenzione a ciò che ferisce o porta gioia ai fratelli non cattolici: perché solo se le chiese iniziano a camminare nel futuro consultandosi, comprendendosi da vere sorelle, si cammina verso l’unità a favore di tutta l’umanità.
(fonte: blog dell'autore)