Israele non può ritenersi un’eccezione
del diritto internazionale
di Mario Giro
Il danno reputazionale inferto da Netanyahu a Israele è immenso. Era urgente ascoltare gli avvertimenti della Corte Penale Internazionale per evitare il peggio. Hamas è riuscita a trascinare Israele nel suo gorgo di morte. Ma esiste un limite all’autodifesa: sia per le persone che per gli Stati.
Israele non può divenire un’eccezione nel contesto internazionale, svincolato dai limiti della legge internazionale o delle regole comuni. È noto che tali norme vengono spesso violate ma considerarsi in diritto di porsi al di fuori di esse è molto pericoloso.
I suprematisti israeliani hanno elaborato una tesi politico-religiosa secondo la quale Israele non debba sottostare alle regole della convivenza globale perché rappresenterebbe un’eccezione tra le nazioni.
La Shoà viene reinterpretata in tale direzione: un unicum (come in effetti lo è) che tuttavia permetterebbe oggi allo Stato di Israele si sottrarsi ad ogni norma comune. Il 7 ottobre verrebbe a confermare tale teoria secondo la quale Israele non ammette nessun limite al suo diritto di autodifesa, nemmeno se si tratta di uccidere civili e nemmeno se questi ultimi sono donne e bambini.
L’allergia al diritto
Ci sono purtroppo ormai innumerevoli dichiarazioni di ministri e generali israeliani in questo senso. La Corte penale internazionale (CPI) si oppone precisamente a questo. Secondo la Corte tale eccezionalità di Israele mette in pericolo tutta l’architettura del diritto internazionale. Come avevamo scritto a maggio scorso – al momento della richiesta del procuratore della CPI Karim Khan – i mandati di incriminazione per il premier e il ministro della difesa israeliani (così come per i vertici di Hamas) non creano un’equivalenza tra un governo democraticamente eletto e un’organizzazione terroristica.
La CPI incrimina persone e non stati, governi o movimenti di qualsivoglia natura: considera solo il fatto che nessuno è esente dalle conseguenze dei propri atti. Secondo i trattato di Roma che istituisce la Corte, l’impunità non può esistere per nessuno e per nessuna ragione. Ciò che è in discussione non è la natura dell’istituzione (governo o entità terroristica) ma il giudizio sulle azioni dei singoli e sulle conseguenze.
L’equivalenza semmai è tra ciò che ha commesso Hamas (il pogrom del 7 ottobre con 1.200 morti accertati e oltre 200 rapiti) e la rappresaglia israeliana (45.000 morti stimati). Avevamo ammonito che Hamas stava trascinando Israele nel suo abisso di morte e distruzione. L’aspetto notevole dal punto di vista giuridico (e che crea scandalo nei circoli ultranazionalisti israeliani ) è che la Corte non accetta la rappresaglia israeliana come legittima: viene posto un limite al “diritto di difendersi” invocato da Israele e non si accetta nessun eccezionalismo.
Non tutto è concesso, né permesso, né legittimo, dice la Corte: non ci può essere un diritto illimitato nemmeno all’autodifesa di Israele che è una nazione come le altre. D’altronde ciò è anche vero per la legge sugli individui ed è opinione prevalente un po’ dappertutto. Nemmeno tra la popolazione europea e americana c’è unanimità su ciò che sta facendo il governo israeliano; nemmeno in Israele stesso.
Il governo Netanyahu e i suprematisti che lo compongono hanno cercato di far accettare la propria ritorsione come un “diritto” dello stato, basandosi sul fatto che Israele è una democrazia legittima mentre Hamas è un movimento terroristico.
La Corte non ha accettato tale tesi perché giudica persone e non gli stati: considera cioè che ciò che sta facendo Israele discende da una decisione politica di individui, che ne sono responsabili. Il procuratore Khan non insiste nemmeno solo sul termine «genocidio»: le accuse sono di «crimini di guerra» e «crimini contro l’umanità».
Le colpe di Bibi
C’è grande incertezza nelle cancellerie: la CPI è stata voluta essenzialmente dagli europei che ora non sanno come reagire. Né Mosca, né Pechino né tanto meno Washington hanno mai ratificato l’esistenza della CPI: di per sé non li riguarda. Nemmeno Israele l’ha firmata ma doveva reagire subito alle accuse e cambiare linea perché un aggravamento era già nell’aria.
Sarà difficile sfuggire alla trappola: Israele non può immaginarsi di essere sola al mondo e di non pagarne un prezzo. Come minimo Netanyahu sarà costretto a mettere le proprie ragioni a confronto con quelle degli altri: difficile, scomodo ma obbligatorio.
Infatti dopo aver rifiutato di occuparsene ora Netanyahu ha fatto appello… un modo indiretto di riconoscere la CPI. Dopo la sfuriata iniziale il premier sta pensando a come giustificarsi: non basta accusare tutto e tutti di antisemitismo. I suoi alleati suprematisti gli dicono di non curarsene ma così portano il paese nel baratro: nemmeno Israele è un isola.
Netanyahu e i suoi hanno inferto al loro paese un danno reputazionale immenso. A meno di non invalidare il trattato di Roma con una serie di abrogazioni da parte di molti paesi che l’avevano ratificato. Ma in quel caso Netanyahu sarebbe considerato l’affossatore del diritto internazionale, crimine di genocidio incluso (pensate le conseguenze sulla Shoà…), e la sua colpa, come gli effetti, sarebbe ancora maggiore.
Il governo di Israele non ha voluto ascoltare i ripetuti richiami di Khan mettendo tutto il paese all’angolo. Paradossalmente la Corte offre però una via di uscita: liberarsi dell’ingombrante premier e dei suoi peggiori sostenitori. In genere i cambi di maggioranza per via giudiziaria non funzionano ma in questo caso siamo ad un livello di gravità inaudito.
Inoltre ciò che i suprematisti laici e i millenaristi religiosi israeliani hanno aborrito fino ad ora, cioè la tesi dei due stati, con la Corte diviene di nuovo legalmente possibile, non solo per il fatto di rimanere l’unica soluzione ancora sul tavolo ma soprattutto perché contrasta giuridicamente in via preventiva l’annessione di “Giudea e Samaria”, come gli estremisti definiscono la West Bank. E questo può far comodo alla politica internazionale. Israele deve urgentemente salvarsi dalla trappola in cui Netanyahu l’ha fatto cadere.
(Pubblicato su“Domani” del 5 dicembre 2024)