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lunedì 27 marzo 2023

Ministero della confessione. La misericordia realizza la Chiesa

XXXIII CORSO SUL FORO INTERNO

Ministero della confessione.
La misericordia realizza la Chiesa

Accogliere tutti senza pregiudizi, perché solo Dio sa che cosa può operare la grazia nei cuori, in qualunque momento; ascoltare i fratelli con l’orecchio del cuore, ferito come il cuore di Cristo; assolvere i penitenti, dispensando con generosità il perdono di Dio; accompagnare il percorso penitenziale, senza forzature, mantenendo il passo dei fedeli, con pazienza e preghiera costanti

foto SIR/Marco Calvarese

In questi primi dieci anni di pontificato si stanno delineando i tratti caratteristici del pensiero teologico e pastorale di Papa Francesco. Dieci anni di grazia e soprattutto di misericordia. Tra i temi centrali, infatti, è presente in modo insistente e costante quello della misericordia, con un’attenzione e uno sguardo tutto particolare al confessionale.

“Vivendo di misericordia e offrendola a tutti, la Chiesa realizza se stessa e compie la propria azione apostolica e missionaria. Potremmo quasi affermare che la misericordia è inclusa nelle note caratteristiche della Chiesa, in particolare fa risplendere la santità e l’apostolicità”.

Lo ha detto Papa Francesco incontrando i partecipanti al XXXIII corso sul foro interno promosso dalla Penitenzieria apostolica, svoltosi in Vaticano dal 20 al 24 marzo. Ancora una volta Francesco torna sulla necessità di vivere nel confessionale l’esperienza di un “incontro d’amore”, come lui stesso lo ha definito. Al suo ampio e luminoso magistero sulla confessione Papa Francesco ha aggiunto quattro parole per lui fondamentali: “accogliere, ascoltare, assolvere e accompagnare” sono le parole accorate che Francesco ha indirizzato ai sacerdoti, chiamati a vivere e ad amare il ministero della confessione.

Accogliere tutti senza pregiudizi, perché solo Dio sa che cosa può operare la grazia nei cuori, in qualunque momento; ascoltare i fratelli con l’orecchio del cuore, ferito come il cuore di Cristo; assolvere i penitenti, dispensando con generosità il perdono di Dio; accompagnare il percorso penitenziale, senza forzature, mantenendo il passo dei fedeli, con pazienza e preghiera costanti. 

Il confessore, secondo Francesco, deve occupare molta parte del suo tempo nel confessionale, amare il silenzio, essere magnanimo di cuore e soprattutto deve essere consapevole che ogni penitente lo richiama alla sua stessa condizione personale. Lo ha detto nella sua riflessione ai sacerdoti: “Essere peccatore e ministro di misericordia. Questa è la vostra verità: peccatore e ministro di misericordia stanno insieme”. Per Francesco questa consapevolezza farà sì che i confessionali non restino abbandonati e che i sacerdoti non manchino di disponibilità.
Per Francesco la missione evangelizzatrice della Chiesa passa in buona parte dalla riscoperta del dono della confessione, anche in vista dell’ormai prossimo Giubileo del 2025. Da sempre la Chiesa, ricorda ancora Francesco, con stili differenti nelle varie epoche, ha espresso questa sua “identità di misericordia”, rivolta sia al corpo sia all’anima, desiderando, con il suo Signore, la salvezza integrale della persona.

E l’opera della misericordia divina viene così a coincidere con la stessa azione missionaria della Chiesa, con l’evangelizzazione,

perché in essa traspare il volto di Dio così come Gesù ce lo ha mostrato. Noi confessori, ha detto il Papa, dobbiamo moltiplicare i “focolai di misericordia”. Non dimentichiamo che siamo in una lotta soprannaturale, una lotta che appare particolarmente virulenta nel nostro tempo, anche se conosciamo già l’esito finale della vittoria di Cristo sulle potenze del male. La lotta, però, c’è ancora e la vittoria si attua realmente ogni volta che un penitente viene assolto.

Nulla allontana e sconfigge di più il male della divina misericordia.

(fonte: Sir, articolo di Paolo Morocutti 25/03/2023)

Fabrizio Filiberti / Giannino Piana DOPO UN ANNO DI GUERRA UN INVITO A RIFLETTERE

Fabrizio Filiberti / Giannino Piana
 
DOPO UN ANNO DI GUERRA
UN INVITO A RIFLETTERE


Dopo un anno di guerra la sfida è massima, per tutti. Da un lato, gli interventisti scontano solo il crescente invio di armi che produce un’escalation senza esito. La diplomazia europea o internazionale non ha prodotto risultati. Dalla ricerca della pace si è scivolati alla ricerca della vittoria. Dall’altro lato, i pacifisti hanno continuato a dichiarare la loro contrarietà all’invio delle armi, a non rispondere in modo alternativo alla domanda di aiuto del popolo ucraino, a denunciare l’abbandono e il silenzio graduale sulla ricerca di soluzioni alternative. Ciò lascia lacerate le coscienze.

L’orizzonte della Pace del mondo

A fronte della grande mobilitazione di solidarietà, anche da parte delle comunità ecclesiali, è mancata una più puntuale rielaborazione del dramma, l’interrogazione non solo sul “che fare?” ma sul “cosa pensare?”. Proponiamo a voce alta le poche note seguenti, augurandoci una condivisa discussione.

“Da dove vengono le guerre e le liti che sono in mezzo a voi? Non vengono forse dalle vostre passioni che fanno guerra nelle vostre membra? Siete pieni di desideri e non riuscite a possedere; uccidete, siete invidiosi e non riuscite a ottenere; combattete e fate guerra!” (Lettera di Giacomo, 4,1-2).

A questo stato di conflitto permanente si contrappongono le istanze di riconciliazione (Mt 5,23-26), di non violenza (5,38-42) e di amore dei nemici (5,44). Siamo ad un vertice assoluto dell’insegnamento di Gesù che trova evidenti difficoltà ad incarnarsi nella storia, ma che costituisce un criterio irrinunciabile di ogni uomo pacifico.

Un totale disarmo del cuore violento. La pace si ottiene divenendo pacifici, facendosi pace come Gesù stesso è pace: “Egli infatti è la nostra pace” (Lettera agli Efesini, 2,14).

Tra Vangelo e storia

Come, dunque, essere operatore di pace e speranza? Come posizionarsi davanti alla guerra?

La prima direzione è quella della scelta evangelica in senso pieno. Il cristiano sa da che parte stare: nel rifiuto della violenza, dell’uso della forza, della guerra, dell’uccisione del soldato dalla divisa diversa, nel non rispondere al male se non con il bene. Evidente è l’insostenibilità della guerra come risoluzione dei conflitti, forte della denuncia che nessuna guerra oggi può essere “giusta” perché le modalità e le conseguenze distruttive con le quali viene combattuta sono sproporzionate rispetto ad ogni offesa.

Ciò richiede – come nei primi tempi cristiani – la necessità di rifiutare il servizio armato offrendo semmai se stessi a un servizio non violento. Il rischio di subire persecuzioni fisiche o legali di fronte alla prescrizione obbligatoria e alla denuncia per tradimento (previste da molti ordinamenti giuridici) vanno dunque assunti con coraggio. Il diffondersi dell’obiezione di coscienza, da riconoscere come diritto di libertà, può favorire nel tempo anche lo sviluppo di tecniche e pratiche di difesa armata più efficaci e proporzionate, meno invasive sul piano umano, riformulando idea e forma degli eserciti a scopi difensivi.

La seconda direzione chiede l’elaborazione creativa di forme non violente di difesa. Al meritorio lavoro dei movimenti, occorre promuovere la difesa non violenta a livello istituzionale e pubblico. Solo una sua specifica previsione all’interno del Ministero della Difesa può garantirne lo sdoganamento dalla mera testimonianza soggettiva e renderla oggetto di un pensiero strategico organizzato, farne un percorso educativo autorevole e obbligatorio di tutta la cittadinanza. Non ultimo, può configurare un alternativo contributo della nazione alle operazioni di difesa messe in atto in conformità alla partecipazione a organismi e alleanze internazionali, dando concretezza al dettato costituzionale secondo il quale l’Italia ripudia la guerra, ma non si sottrae agli obblighi internazionali (art. 11).

L’agire politico

La terza direzione è quella che coinvolge ciascun cittadino nella trama delle relazioni col mondo, in specie sul piano dell’agire politico, lì dove occorre assumere decisioni nell’immediato. In questo senso, lasciando al politico la responsabilità delle decisioni a partire da opzioni divergenti – inevitabili nel pluralismo delle idee e interessi in campo –, occorre partecipare e compromettersi nel dibattito pubblico per orientare quelle decisioni, nel loro sostegno o diniego in vista della praticabile difesa dei valori umani, giustizia e pace possibili qui e ora.

A questo livello, anche la Chiesa come soggettività sociale, può e deve discernere e valutare le politiche messe in atto. Il giudizio sulle scelte attuate misura la distanza tra Vangelo e storia. Se la pace storica è aperta ad un orizzonte di compiutezza (Is 2,4: “forgeranno le loro spade in vomeri / le loro spade in falci; / un popolo non alzerà più la spada contro un altro popolo / non si eserciteranno più nell’arte della guerra”) la pace evangelica è attuazione della prassi di Gesù nei suoi discepoli, smobilitazione già ora di ogni logica del nemico quale presupposto di ogni violenza e guerra.

Per questo, da un lato il giudizio morale sulla guerra suona perentorio e evidente (quel “Pazzi!” di Francesco davanti al riarmo annunciato dai paesi europei); il giudizio politico si misura sulla capacità di dare gambe alla vera pace nel qui e ora, pur se ancora lontani dalla perfezione; la cattiva politica è quella che, potendo, non ha il coraggio di realizzare il possibile, quella che preferisce strade non di “compromesso”, ma “compromettenti” perché piegate a interessi relativi rispetto all’assoluto della pace.

Preparare la pace

Vangelo e storia vivono insieme, sono correlativi. Senza la storia il Vangelo è mera idealità astratta; senza il Vangelo la storia rimane prigioniera dei fatti e delle pulsioni e non sa guardare oltre se stessa. In questa prospettiva il lavoro di preparazione della pace è quotidiano. Se vuoi la pace, prepara la pace. Non è questione dell’ultima ora, quando gli eventi precipitano.

Educarsi alla pace, al cuore non violento, ai gesti non violenti, alla resistenza, alla disobbedienza civile, all’obiezione di coscienza, deve assumere non solo un significato di testimonianza eroica, ma anche di educazione delle istituzioni, riconversione e disarmo dei linguaggi e degli eserciti, pratiche di diplomazia, definizione di protocolli rigidi di utilizzo della forza.

Per tutto questo occorrono coraggio, mitezza, risolutezza, pazienza, affidamento, speranza. Disponibilità al dialogo tra popoli e nazioni, che superi gli antagonismi, che cerchi il bene nell’altro prima di ciò che divide o distingue, in modo da non perdere occasioni e non relegare l’altro a posizioni difensive o ostili. Cose non facili in un mondo non facile. Ma possibili. La storia di quanto avvenuto e avviene ce lo suggerisce.

*Fabrizio Filiberti
Presidente di “Città di Dio” Associazione ecumenica di cultura religiosa – Invorio (NO) che aderisce alla Rete dei Viandanti. Membro del Consiglio direttivo e del Gruppo di riflessione e proposta (Grp) dell’Associazione Viandanti.
*Giannino Piana
Già docente di etica cristiana alla Libera Università di Urbino e di etica ed economia presso la Facoltà di Scienze Politiche dell’Università di Torino. Socio fondatore di Viandanti e membro del Gruppo di Riflessione e Proposta di Viandanti.

[Pubblicato in Viandanti il 17.3.2023]
[L’immagine che correda l’articolo è ripresa dal sito: www.avvenire.it]


«Maria, Madre della speranza, rinnovi in noi la gioia di non sentirci soli e la chiamata a portare luce nel buio che ci circonda.» Papa Francesco Angelus 26/03/2023 (testo e video)

ANGELUS

Piazza San Pietro
Domenica, 26 marzo 2023




Cari fratelli e sorelle, buongiorno!

Oggi, quinta domenica di Quaresima, il Vangelo ci presenta la risurrezione di Lazzaro (cfr Gv 11,1-45). È l’ultimo dei miracoli di Gesù narrati prima della Pasqua: la risurrezione del suo amico Lazzaro. Lazzaro è un caro amico di Gesù, il quale sa che sta per morire; si mette in cammino, ma arriva a casa sua quattro giorni dopo la sepoltura, quando ogni speranza è ormai perduta. La sua presenza però riaccende un po’ di fiducia nel cuore delle sorelle Marta e Maria (cfr vv. 22.27). Esse, pur nel dolore, si aggrappano a questa luce, a questa piccola speranza. E Gesù le invita ad avere fede e chiede di aprire il sepolcro. Poi prega il Padre e grida a Lazzaro: «Vieni fuori!» (v. 43). E questi torna a vivere ed esce. Questo è il miracolo, così, semplice.

Il messaggio è chiaro: Gesù dà la vita anche quando sembra non esserci più speranza. Capita, a volte, di sentirsi senza speranza – a tutti è capitato questo –, oppure di incontrare persone che hanno smesso di sperare, amareggiate perché hanno vissuto cose brutte, il cuore ferito non può sperare. Per una perdita dolorosa, una malattia, una delusione cocente, per un torto o un tradimento subito, per un grave errore commesso… hanno smesso di sperare. A volte sentiamo qualcuno che dice: “Non c’è più niente da fare!”, e chiude la porta ad ogni speranza. Sono momenti in cui la vita sembra un sepolcro chiuso: tutto è buio, intorno si vedono solo dolore e disperazione. Il miracolo di oggi ci dice che non è così, la fine non è questa, che in questi momenti non siamo soli, anzi che proprio in questi momenti Lui si fa più che mai vicino per ridarci vita. Gesù piange: il Vangelo dice che Gesù, davanti al sepolcro di Lazzaro ha pianto, e oggi Gesù piange con noi, come ha potuto piangere per Lazzaro: il Vangelo ripete due volte che si commosse (cfr vv. 33.38) e sottolinea che scoppiò in pianto (cfr v. 35). E al tempo stesso Gesù ci invita a non smettere di credere e di sperare, a non lasciarci schiacciare dai sentimenti negativi, che ti tolgono il pianto. Si avvicina ai nostri sepolcri e dice a noi, come allora: «Togliete la pietra» (v. 39). In questi momenti noi abbiamo come una pietra dentro e l’unico capace di toglierla è Gesù, con la sua parola: “Togliete la pietra”.

Questo dice Gesù, anche a noi. Togliete la pietra: il dolore, gli errori, anche i fallimenti, non nascondeteli dentro di voi, in una stanza buia e solitaria, chiusa. Togliete la pietra: tirate fuori tutto quello che c’è dentro. “Ah, mi dà vergogna”. Gettatelo in me con fiducia, dice il Signore, io non mi scandalizzo; gettatelo in me senza timore, perché io sono con voi, vi voglio bene e desidero che torniate a vivere. E, come a Lazzaro, ripete a ognuno di noi: Vieni fuori! Rialzati, riprendi il cammino, ritrova fiducia! Quante volte, nella vita, ci siamo trovati così, in questa situazione di non avere forza per rialzarci. E Gesù: “Vai, vai avanti! Io sono con te”. Ti prendo io per mano, dice Gesù, come quando da piccolo imparavi a fare i primi passi. Caro fratello, cara sorella, togliti le bende che ti legano (cfr v. 45); per favore, non cedere al pessimismo che deprime, non cedere al timore che isola, non cedere allo scoraggiamento per il ricordo di brutte esperienze, non cedere alla paura che paralizza. Gesù ci dice: “Io ti voglio libero, ti voglio vivo, non ti abbandono e sono con te! È tutto buio, ma io sono con te! Non lasciarti imprigionare dal dolore, non lasciar morire la speranza. Fratello, sorella, ritorna a vivere!” – “E come faccio?” – “Prendimi per mano”, e Lui ci prende per mano. Lasciati tirare fuori: e Lui è capace di farlo. In questi momenti brutti che succedono a tutti noi.

Cari fratelli e sorelle, questo brano del capitolo 11 del Vangelo di Giovanni, che fa tanto bene leggere, è un inno alla vita, e lo si proclama quando la Pasqua è vicina. Forse anche noi in questo momento portiamo nel cuore qualche peso o qualche sofferenza, che sembrano schiacciarci; qualche cosa brutta, qualche peccato vecchio che non riusciamo a tirare fuori, qualche errore di gioventù, non si sa mai. Queste cose brutte devono uscire. E Gesù dice: “Vieni fuori!”. Allora è il momento di togliere la pietra e di uscire incontro a Gesù, che è vicino. Riusciamo ad aprirgli il cuore e ad affidargli le nostre preoccupazioni? Lo facciamo? Riusciamo ad aprire il sepolcro dei problemi, siamo capaci, e a guardare oltre la soglia, verso la sua luce, o abbiamo paura di questo? E a nostra volta, come piccoli specchi dell’amore di Dio, riusciamo a illuminare gli ambienti in cui viviamo con parole e gesti di vita? Testimoniamo la speranza e la gioia di Gesù? Noi, peccatori, tutti? E anche, vorrei dire una parola ai confessori: cari fratelli, non dimenticatevi che anche voi siete peccatori, e siete nel confessionale non per torturare, per perdonare, e perdonare tutto, come il Signore perdona tutto. Maria, Madre della speranza, rinnovi in noi la gioia di non sentirci soli e la chiamata a portare luce nel buio che ci circonda.

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Dopo l'Angelus

Cari fratelli e sorelle!

Ieri, solennità dell’Annunciazione, abbiamo rinnovato la consacrazione al Cuore Immacolato di Maria, nella certezza che solo la conversione dei cuori può aprire la strada che conduce alla pace. Continuiamo a pregare per il martoriato popolo ucraino.

E restiamo vicini anche ai terremotati della Turchia e della Siria. A loro è destinata la speciale raccolta di offerte che si svolge oggi in tutte le parrocchie d’Italia. Preghiamo anche per la popolazione dello Stato del Mississippi, colpite da un devastante tornado.

Saluto tutti voi, romani e pellegrini di tanti Paesi, in particolare quelli di Madrid e di Pamplona e i messicani; come pure i peruviani, rinnovando la preghiera per la riconciliazione e la pace nel Perù. Dobbiamo pregare per il Perù, che sta soffrendo tanto.

Saluto i fedeli di Zollino, Rieti, Azzano Mella e Capriano del Colle, Bellizzi, Crotone e Castelnovo Monti con l’Unitalsi; e saluto i cresimandi di Pavia, Melendugno, Cavaion e Sega, Settignano e Prato; i ragazzi di Ganzanigo, Acilia e Longi; e l’Associazione Amici del Crocifisso delle Marche.

Rivolgo un saluto speciale alla delegazione dell’Aeronautica Militare Italiana, che celebra il centenario di fondazione. Formulo i miei auguri per questa ricorrenza e vi incoraggio ad operare sempre per la costruzione della giustizia e della pace.

Prego per tutti voi e fatelo per me. E a tutti auguro una buona domenica. Buon pranzo e arrivederci.

Guarda il video



domenica 26 marzo 2023

Preghiera dei Fedeli - Fraternità Carmelitana di Pozzo di Gotto (ME) - V Domenica di Quaresima - Anno A

Fraternità Carmelitana 
di Pozzo di Gotto (ME)

Preghiera dei Fedeli


V Domenica di Quaresima Anno A
26 Marzo 2023 

Per chi presiede

Fratelli e sorelle, abbiamo già percorso un bel tratto del nostro cammino quaresimale e si avvicina il grande giorno del nostro riscatto. Intensifichiamo il nostro impegno di conversione e per questo innalziamo al Signore Gesù le nostre preghiere ed insieme diciamo:

R/  Tu sei la nostra vita, o Signore

Lettore

- Visita, Signore Gesù, la tua Chiesa, così come ti sei fatto presente a Betania nella casa di Lazzaro, Marta e Maria. Senza di Te la vita fraterna si ammala e muore chiusa nel sepolcro dei propri egoismi. Vieni, Signore Gesù, e grida all’orecchio della tua Chiesa e di ogni cristiano, affinché si risveglino e tornino a camminare con Te per le vie dell’amore e della fraternità e sororità. Preghiamo.

- Signore Gesù, il nostro mondo oggi è martoriato da numerose guerre, che generano distruzione e morte. Abbi pietà dei tanti poveri della terra: fa’ che il flagello della guerra non aggiunga altro dolore alla loro povera esistenza. E dona un barlume di intelligenza ai governanti, affinché coltivino pensieri e progetti di pace. Preghiamo.

- Ti affidiamo, Signore Gesù, i disabili fisici e mentali, e tutte le loro famiglie. Ti affidiamo i malati più gravi e quelli oncologici. Ti affidiamo gli anziani e quanti si ritrovano a vivere in una grande solitudine. La tua presenza amorosa sostenga la loro fragilità. Preghiamo.

- Davanti a te, o Gesù, Signore della Vita, ci ricordiamo dei nostri parenti e amici defunti [pausa di silenzio]; ci ricordiamo di tutti coloro che muoiono nella solitudine, nell’abbandono e nella disperazione. Doni a tutti di contemplare il tuo Volto e di vivere nella gioia della comunione dei tuoi Santi. Preghiamo.


Per chi presiede

Esaudisci, Signore Gesù, le nostre suppliche e concedici di custodire i doni che ci elargisci, perché possiamo vivere la nostra esistenza terrena nella fraternità e nell’amore, come preludio della comunione eterna a cui tu ci chiami. Per Cristo nostro Signore. AMEN.




"Un cuore che ascolta - lev shomea" n° 19 - 2022/2023 anno A

"Un cuore che ascolta - lev shomea"

"Concedi al tuo servo un cuore docile,
perché sappia rendere giustizia al tuo popolo
e sappia distinguere il bene dal male" (1Re 3,9)



Traccia di riflessione sul Vangelo
a cura di Santino Coppolino


V Domenica di Quaresima (ANNO A)

Vangelo:


Facciamo quotidianamente esperienza di una vita che è per la morte, mentre Gesù ci rivela una morte, la sua, che è per la vita. Egli non è venuto per salvarci dalla morte - siamo mortali - ma nella morte; non annulla il nostro limite, la nostra fragile carne, ma lo assume vivendo da autentico Figlio di Dio. Il tema principale del brano è la fede in Gesù, tutta la sua esistenza è la conferma che l'uomo non è destinato a finire nel nulla, ma ad essere partecipe della stessa vita di Dio. Ora, in Gesù, la Parola del Padre fa udire la sua voce anche ai morti traendoli fuori dai loro sepolcri: questa è davvero l'alba radiosa della nuova creazione. La resurrezione di Lazzaro è la conferma che la morte non ha l'ultima parola, che la sua signoria sull'uomo e sul creato è oramai giunta alla fine perché essa è stata vinta e sconfitta per sempre dal Signore della vita. La resurrezione di Lazzaro è solo l'anticipo di ciò che avverrà a Gesù e a coloro che crederanno in Lui. Costoro, anche se sono morti, già fin da ora sono viventi e risorti perché in Gesù partecipano della stessa vita del Padre che è amore senza fine. «Sappiamo che siamo passati dalla morte alla vita perché amiamo i fratelli» (1Gv 3,14), come ha fatto Gesù. Se invece non amiamo, avremo miseramente fallito la nostra esistenza rimanendo prigionieri della morte, poiché «chi non ama rimane preda della morte» (1Gv 3,14). Uniamo, perciò, la nostra voce a quella di Sant'Ambrogio che così pregava: «Voglia tu o Signore degnarti di venire a questa mia tomba per lavarmi con le tue lacrime. Chiama fuori dalla sua tomba il tuo servo e, alla tua Voce, uscirò libero e diverrò uno dei commensali del tuo convito. E così la tua casa si riempirà di soave profumo, se custodirai colui che ti sarai degnato di riscattare» ( De Poenitentia).


sabato 25 marzo 2023

Papa Francesco: "Non stanchiamoci di affidare la causa della pace alla Regina della pace." - ATTO DI CONSACRAZIONE AL CUORE IMMACOLATO DI MARIA

Papa Francesco:
"Non stanchiamoci di affidare la causa della pace 
alla Regina della pace." 


Papa Francesco, al termine dell'udienza generale del 22/03/2023 ricorda l'Atto di consacrazione al Cuore Immacolato di Maria celebrato il 25 marzo dello scorso anno:

"Sabato si celebrerà la Solennità dell’Annunciazione del Signore e il pensiero va al 25 marzo dello scorso anno, quando, in unione con tutti i Vescovi del mondo, si sono consacrate la Chiesa e l’umanità, in particolare la Russia e l’Ucraina, al Cuore Immacolato di Maria. Non stanchiamoci di affidare la causa della pace alla Regina della pace. Desidero perciò invitare ciascun credente e comunità, specialmente i gruppi di preghiera, a rinnovare ogni 25 marzo l’atto di consacrazione alla Madonna, perché lei, che è Madre, possa custodirci tutti nell’unità e nella pace.
E non dimentichiamo, in questi giorni, la martoriata Ucraina, che soffre tanto."

* * *
Di seguito riportiamo il testo e il video dell'atto di consacrazione del 25 marzo 2022

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ATTO DI CONSACRAZIONE AL CUORE IMMACOLATO DI MARIA


O Maria, Madre di Dio e Madre nostra, noi, in quest’ora di tribolazione, ricorriamo a te. Tu sei Madre, ci ami e ci conosci: niente ti è nascosto di quanto abbiamo a cuore. Madre di misericordia, tante volte abbiamo sperimentato la tua provvidente tenerezza, la tua presenza che riporta la pace, perché tu sempre ci guidi a Gesù, Principe della pace.

Ma noi abbiamo smarrito la via della pace. Abbiamo dimenticato la lezione delle tragedie del secolo scorso, il sacrificio di milioni di caduti nelle guerre mondiali. Abbiamo disatteso gli impegni presi come Comunità delle Nazioni e stiamo tradendo i sogni di pace dei popoli e le speranze dei giovani. Ci siamo ammalati di avidità, ci siamo rinchiusi in interessi nazionalisti, ci siamo lasciati inaridire dall’indifferenza e paralizzare dall’egoismo. Abbiamo preferito ignorare Dio, convivere con le nostre falsità, alimentare l’aggressività, sopprimere vite e accumulare armi, dimenticandoci che siamo custodi del nostro prossimo e della stessa casa comune. Abbiamo dilaniato con la guerra il giardino della Terra, abbiamo ferito con il peccato il cuore del Padre nostro, che ci vuole fratelli e sorelle. Siamo diventati indifferenti a tutti e a tutto, fuorché a noi stessi. E con vergogna diciamo: perdonaci, Signore!

Nella miseria del peccato, nelle nostre fatiche e fragilità, nel mistero d’iniquità del male e della guerra, tu, Madre santa, ci ricordi che Dio non ci abbandona, ma continua a guardarci con amore, desideroso di perdonarci e rialzarci. È Lui che ci ha donato te e ha posto nel tuo Cuore immacolato un rifugio per la Chiesa e per l’umanità. Per bontà divina sei con noi e anche nei tornanti più angusti della storia ci conduci con tenerezza.

Ricorriamo dunque a te, bussiamo alla porta del tuo Cuore noi, i tuoi cari figli che in ogni tempo non ti stanchi di visitare e invitare alla conversione. In quest’ora buia vieni a soccorrerci e consolarci. Ripeti a ciascuno di noi: “Non sono forse qui io, che sono tua Madre?” Tu sai come sciogliere i grovigli del nostro cuore e i nodi del nostro tempo. Riponiamo la nostra fiducia in te. Siamo certi che tu, specialmente nel momento della prova, non disprezzi le nostre suppliche e vieni in nostro aiuto.

Così hai fatto a Cana di Galilea, quando hai affrettato l’ora dell’intervento di Gesù e hai introdotto il suo primo segno nel mondo. Quando la festa si era tramutata in tristezza gli hai detto: «Non hanno vino» (Gv 2,3). Ripetilo ancora a Dio, o Madre, perché oggi abbiamo esaurito il vino della speranza, si è dileguata la gioia, si è annacquata la fraternità. Abbiamo smarrito l’umanità, abbiamo sciupato la pace. Siamo diventati capaci di ogni violenza e distruzione. Abbiamo urgente bisogno del tuo intervento materno.

Accogli dunque, o Madre, questa nostra supplica.

Tu, stella del mare, non lasciarci naufragare nella tempesta della guerra.
Tu, arca della nuova alleanza, ispira progetti e vie di riconciliazione.
Tu, “terra del Cielo”, riporta la concordia di Dio nel mondo.
Estingui l’odio, placa la vendetta, insegnaci il perdono.
Liberaci dalla guerra, preserva il mondo dalla minaccia nucleare.
Regina del Rosario, ridesta in noi il bisogno di pregare e di amare.
Regina della famiglia umana, mostra ai popoli la via della fraternità.
Regina della pace, ottieni al mondo la pace.

Il tuo pianto, o Madre, smuova i nostri cuori induriti. Le lacrime che per noi hai versato facciano rifiorire questa valle che il nostro odio ha prosciugato. E mentre il rumore delle armi non tace, la tua preghiera ci disponga alla pace. Le tue mani materne accarezzino quanti soffrono e fuggono sotto il peso delle bombe. Il tuo abbraccio materno consoli quanti sono costretti a lasciare le loro case e il loro Paese. Il tuo Cuore addolorato ci muova a compassione e ci sospinga ad aprire le porte e a prenderci cura dell’umanità ferita e scartata.

Santa Madre di Dio, mentre stavi sotto la croce, Gesù, vedendo il discepolo accanto a te, ti ha detto: «Ecco tuo figlio» (Gv 19,26): così ti ha affidato ciascuno di noi. Poi al discepolo, a ognuno di noi, ha detto: «Ecco tua madre» (v. 27). Madre, desideriamo adesso accoglierti nella nostra vita e nella nostra storia. In quest’ora l’umanità, sfinita e stravolta, sta sotto la croce con te. E ha bisogno di affidarsi a te, di consacrarsi a Cristo attraverso di te. Il popolo ucraino e il popolo russo, che ti venerano con amore, ricorrono a te, mentre il tuo Cuore palpita per loro e per tutti i popoli falcidiati dalla guerra, dalla fame, dall’ingiustizia e dalla miseria.

Noi, dunque, Madre di Dio e nostra, solennemente affidiamo e consacriamo al tuo Cuore immacolato noi stessi, la Chiesa e l’umanità intera, in modo speciale la Russia e l’Ucraina. Accogli questo nostro atto che compiamo con fiducia e amore, fa’ che cessi la guerra, provvedi al mondo la pace. Il sì scaturito dal tuo Cuore aprì le porte della storia al Principe della pace; confidiamo che ancora, per mezzo del tuo Cuore, la pace verrà. A te dunque consacriamo l’avvenire dell’intera famiglia umana, le necessità e le attese dei popoli, le angosce e le speranze del mondo.

Attraverso di te si riversi sulla Terra la divina Misericordia e il dolce battito della pace torni a scandire le nostre giornate. Donna del sì, su cui è disceso lo Spirito Santo, riporta tra noi l’armonia di Dio. Disseta l’aridità del nostro cuore, tu che “sei di speranza fontana vivace”. Hai tessuto l’umanità a Gesù, fa’ di noi degli artigiani di comunione. Hai camminato sulle nostre strade, guidaci sui sentieri della pace.
Amen.



UNA GOCCIA PER VEDERE Credo nel sole, anche se non splende; e nell'amico anche se non lo sento; e in Dio, anche quando tace. - V Domenica di Quaresima (ANNO A) - Commento al Vangelo a cura di P. Ermes Ronchi

UNA GOCCIA PER VEDERE
 

Credo nel sole, anche se non splende;
e nell'amico anche se non lo sento;
e in Dio, anche quando tace.


I commenti di p. Ermes al Vangelo della domenica sono due:
  • il primo per gli amici dei social
  • il secondo pubblicato su Avvenire

In quel tempo, un certo Lazzaro di Betània, il villaggio di Maria e di Marta sua sorella, era malato. Maria era quella che cosparse di profumo il Signore e gli asciugò i piedi con i suoi capelli; suo fratello Lazzaro era malato. Le sorelle mandarono dunque a dire a Gesù: «Signore, ecco, colui che tu ami è malato».
All’udire questo, Gesù disse: «Questa malattia non porterà alla morte, ma è per la gloria di Dio, affinché per mezzo di essa il Figlio di Dio venga glorificato». Gesù amava Marta e sua sorella e Lazzaro. Quando sentì che era malato, rimase per due giorni nel luogo dove si trovava. Poi disse ai discepoli: «Andiamo di nuovo in Giudea!». I discepoli gli dissero: «Rabbì, poco fa i Giudei cercavano di lapidarti e tu ci vai di nuovo?». Gesù rispose: «Non sono forse dodici le ore del giorno? Se uno cammina di giorno, non inciampa, perché vede la luce di questo mondo; ma se cammina di notte, inciampa, perché la luce non è in lui».
Disse queste cose e poi soggiunse loro: «Lazzaro, il nostro amico, s’è addormentato; ma io vado a svegliarlo». Gli dissero allora i discepoli: «Signore, se si è addormentato, si salverà». Gesù aveva parlato della morte di lui; essi invece pensarono che parlasse del riposo del sonno. Allora Gesù disse loro apertamente: «Lazzaro è morto e io sono contento per voi di non essere stato là, affinché voi crediate; ma andiamo da lui!». Allora Tommaso, chiamato Dìdimo, disse agli altri discepoli: «Andiamo anche noi a morire con lui!».
Quando Gesù arrivò, trovò Lazzaro che già da quattro giorni era nel sepolcro. Betània distava da Gerusalemme meno di tre chilometri e molti Giudei erano venuti da Marta e Maria a consolarle per il fratello. Marta dunque, come udì che veniva Gesù, gli andò incontro; Maria invece stava seduta in casa. Marta disse a Gesù: «Signore, se tu fossi stato qui, mio fratello non sarebbe morto! Ma anche ora so che qualunque cosa tu chiederai a Dio, Dio te la concederà». Gesù le disse: «Tuo fratello risorgerà». Gli rispose Marta: «So che risorgerà nella risurrezione dell’ultimo giorno». Gesù le disse: «Io sono la risurrezione e la vita; chi crede in me, anche se muore, vivrà; chiunque vive e crede in me, non morirà in eterno. Credi questo?». Gli rispose: «Sì, o Signore, io credo che tu sei il Cristo, il Figlio di Dio, colui che viene nel mondo».
Dette queste parole, andò a chiamare Maria, sua sorella, e di nascosto le disse: «Il Maestro è qui e ti chiama». Udito questo, ella si alzò subito e andò da lui. Gesù non era entrato nel villaggio, ma si trovava ancora là dove Marta gli era andata incontro. Allora i Giudei, che erano in casa con lei a consolarla, vedendo Maria alzarsi in fretta e uscire, la seguirono, pensando che andasse a piangere al sepolcro.
Quando Maria giunse dove si trovava Gesù, appena lo vide si gettò ai suoi piedi dicendogli: «Signore, se tu fossi stato qui, mio fratello non sarebbe morto!». Gesù allora, quando la vide piangere, e piangere anche i Giudei che erano venuti con lei, si commosse profondamente e, molto turbato, domandò: «Dove lo avete posto?». Gli dissero: «Signore, vieni a vedere!». Gesù scoppiò in pianto. Dissero allora i Giudei: «Guarda come lo amava!». Ma alcuni di loro dissero: «Lui, che ha aperto gli occhi al cieco, non poteva anche far sì che costui non morisse?».
Allora Gesù, ancora una volta commosso profondamente, si recò al sepolcro: era una grotta e contro di essa era posta una pietra. Disse Gesù: «Togliete la pietra!». Gli rispose Marta, la sorella del morto: «Signore, manda già cattivo odore: è lì da quattro giorni». Le disse Gesù: «Non ti ho detto che, se crederai, vedrai la gloria di Dio?». Tolsero dunque la pietra. Gesù allora alzò gli occhi e disse: «Padre, ti rendo grazie perché mi hai ascoltato. Io sapevo che mi dai sempre ascolto, ma l’ho detto per la gente che mi sta attorno, perché credano che tu mi hai mandato». Detto questo, gridò a gran voce: «Lazzaro, vieni fuori!». Il morto uscì, i piedi e le mani legati con bende, e il viso avvolto da un sudario. Gesù disse loro: «Liberàtelo e lasciàtelo andare».
Molti dei Giudei che erano venuti da Maria, alla vista di ciò che egli aveva compiuto, credettero in lui. Gv 11,1-45

Forma breve: Gv 11, 3-7.17.20-27.33b-45  


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UNA GOCCIA PER VEDERE

Credo nel sole, anche se non splende; e nell'amico anche se non lo sento; e in Dio, anche quando tace.

Quel giorno, a Betania, Gesù si rivela più umano che mai. Lo vediamo fremere, piangere, gridare. Piange l’amico Lazzaro, piange un vuoto, duro come la pietra che chiude il sepolcro.
Lacrime ribelli le sue, stupenda arroganza di chi non accetta la morte. Amore arrogante fino al grido: vieni fuori!
Quando ama, l'uomo compie gesti divini; quando ama, Dio lo fa con gesti molto umani. Le lacrime d’amore sono una potente lente d'ingrandimento sulla vita: ci guardi dentro e leggi ciò che sui libri non troverai mai.

Ciascuno di noi è Lazzaro, e il pianto di Dio è la nostra salvezza.

Lì attorno, i suoi amori. Maria è la donna dei piedi e degli abbracci. Marta, delle manie delle parole che, con la confidenza propria dell’amicizia, vanno dritte al cuore di Gesù: se tu fossi stato qui egli non sarebbe morto.
Gesù va diritto al cuore delle cose: tuo fratello risorgerà. Marta ribatte: lo so! Ma quel giorno è così lontano dal mio desiderio e dal mio dolore.

Marta parla al futuro, Gesù, al presente. E incide parole che per il vangelo saranno di fuoco: io sono la risurrezione e la vita.

La ribellione di Gesù scardina la morte scendendo i suoi tre gradini:

1. Togliete la pietra. Via i macigni dal cuore, le macerie sotto cui vi seppellite da soli; via i sensi di colpa, il non saper perdonare noi e gli altri; via il male ricevuto, che vi inchioda ai vostri ergastoli interiori.

2. Lazzaro, vieni: fuori c’è il sole! Esci dalla grotta nera dei rimpianti e delle delusioni, dal sentirti il centro delle cose. Vieni fuori, ripete alla farfalla che è in me, chiusa dentro il bruco che temo di essere.

3. Lasciatelo andare! Scioglietevi tutti dall'idea che la morte sia la fine di tutto. E poi dategli una strada e amici con cui camminare, qualche lacrima, e una stella polare.

Una pietra si è mossa, una fessura di primavera è penetrata. Un grido d'amico ha scosso il silenzio, e lacrime hanno bagnato le bende.
Tutto ciò è accaduto per palesi e pubbliche ragioni d'amore.

Invidio Lazzaro, e non perché esce vivo dalla grotta, ma perché circondato da una folla che gli vuole bene, segno di una vita riuscita. La sua fortuna è l'amicizia, la sua santità è l’affetto che lo assedia.
E Lazzaro esce avvolto della suprema speranza: qualcosa, qualcuno è più forte della morte.

Ma nel giorno delle lacrime, Dio sembra essere lontano. Il suo ritardo pesa.

Quattro giorni pesò su Marta e Maria. Eppure siamo noi il cielo di Dio. Lui è qui non come esenzione, ma come riscatto dentro la morte.
Io lo credo, con la fede dell'anonimo che scriveva: credo nel sole, anche se non splende; e nell'amico anche se non lo sento; e in Dio, anche quando tace.
A risorgere siamo chiamati noi vivi, più che i morti: a svegliarci da tutte le vite immobili, spente e inutili. A fare viva la vita, sulla scia dell’amore dato e ricevuto.

per Avvenire 

Lazzaro siamo noi. Risorgiamo perché amati  (...)

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Aprire il cuore – Annunciazione del Signore

Antonio Savone

Aprire il cuore – Annunciazione del Signore


Il mistero di Nazareth è il mistero che richiama la generosità di una risposta e la disponibilità a fare spazio contraendosi. Quando l’angelo porta l’annuncio a Maria, non le consegna alcuna garanzia circa il futuro: solo le chiede fiducia nel qui e ora di quella vicenda che non la metterà al riparo da infortuni futuri.

Accogliere il dono della vita non è mai facile, per quanto lo si possa desiderare, ma accogliere il dono della vita del Figlio di Dio, travalica ogni pensiero e ogni possibilità umana. Da capogiro. Se è vero che la presenza di un altro nella nostra vita mette sempre a repentaglio la nostra esistenza, accogliere la vita del Figlio di Dio misura tutta l’inadeguatezza umana: ne sarò capace? Non è un caso che Maria resti turbata a quell’annuncio così destabilizzante.

Accogliere il dono della vita significa disporsi a soffrire: e non perché Maria sarà la Madre del Signore, il peso dei dolori diminuirà. Anzi! Proverà angoscia come ogni madre, conoscerà l’ansia proprio come chi sente che qualcosa gli sfugge di mano. Nessuna semplificazione dell’umano esistere.

L’aver dato credito alla parola del Signore, non le risparmierà l’eventualità di pensare al futuro come a qualcosa dal volto incerto. Come se non bastasse, il Figlio che nascerà da Maria sarà, sì, “il più bello tra i figli dell’uomo”, ma resterà comunque “pietra di inciampo”. Paradossalmente, la prima a doversi misurare con quella pietra sarà proprio lei.

E poi, c’era proprio bisogno che la nascita del Figlio di Dio venisse annunciata “prima che Maria andasse a vivere con il suo fidanzato”? In fondo, quell’evento atteso da secoli, poteva essere ancora procrastinato di qualche mese: cosa sarebbe cambiato, del resto?

Non credo che l’eco delle parole consegnate all’angelo – “Eccomi, sono la serva del Signore” – non abbiano avuto il retrogusto della fatica e del pianto. Ritrovarsi incinta fuori dal matrimonio significava conoscere il giudizio e la condanna di chi spia dalla finestra la vita altrui e non teme di usare certi argomenti come passatempo per le proprie giornate trascorse nella banalità e nel cicaleccio. Se con una certa disinvoltura può aver detto di sì al Signore (non senza peraltro aver conosciuto un vero e proprio percorso emotivo), la partenza dell’angelo avrà significato l’averla messa di fronte alla portata reale di ciò che quel dialogo aveva significato. Cosa sapeva del mondo, della vita, lei che era solo una ragazza? Il gesto che senz’altro avrà accompagnato quei giorni e tutti i suoi giorni è stato quello del tendere la mano per restare aggrappata a Dio. A buon diritto Elisabetta non tarderà a riconoscere: “Hai avuto coraggio nel fidarti di Dio. Beata te”. Non ha chiesto garanzie per fidarsi, non rassicurazioni circa l’esito di quella consegna. Per fidarsi, a Maria è bastato sapere che sulla strada appena imboccata c’era di mezzo anche Dio, e su due piedi ha accettato la sfida. Sentiva compiersi le parole del Salmo 22 che tante volte avrà ripetuto e che ora acquistavano un sapore e un peso nuovi: “Se anche vado per valle tenebrosa, non temo alcun male. Il tuo bastone e il tuo vincastro mi danno sicurezza”. Dio c’è e tanto basta.

Certo, noi sappiamo come sono andate a finire le cose, e perciò il fatto non ci sconvolge più di tanto. La storia di casi simili a quelli di Maria, ci ricorda che non poche volte, ragazze trovatesi nella sua stessa condizione, hanno conosciuto l’amaro calice dell’abbandono e della solitudine. Il Vangelo non tacerà che un simile progetto ha attraversato i pensieri del suo futuro sposo Giuseppe. Sogniamo e invochiamo un Dio che ci risolva la vita: stando al vangelo e alla vicenda di chi ha avuto a che fare con lui seriamente, sembra quasi che egli la complichi continuamente. E, tuttavia, non senza mettersi in gioco egli stesso.

Mentre diceva “sì” all’annuncio dell’angelo, Maria accettava di giocare la partita più faticosa della sua esistenza perché fino alla fine non le lascerà un attimo di tregua. Quel figlio sarà la preoccupazione di tutti i suoi giorni. L’essere madre, infatti, non è qualcosa di circoscritto ad una fase dell’esistenza del figlio finché egli non impara ad assumersi le sue responsabilità e finalmente può uscire di casa. Si è madre e si è figli per sempre (come si è padre per sempre, d’altronde), persino quando il figlio non dovesse esserci più: l’amore, anche se non potrà essere dispiegato concretamente attraverso la cura della persona fisica, non verrà mai meno.
(fonte: A casa di Cornelio 24/03/2023)


Enzo Bianchi Se nella Chiesa manca il confronto

Enzo Bianchi
Se nella Chiesa manca il confronto

La Repubblica - 20 Marzo 2023


Si vive nella chiesa una situazione paradossale della quale purtroppo non c’è consapevolezza né tra coloro che non ne fanno parte, né tra quelli che la compongono, e magari se ne sentono anche fieri militanti. Oggi, tra i cristiani è attestato molto impegno, soprattutto nelle opere di carità verso i bisognosi, i poveri, i migranti. C’è anche indubbiamente molta attenzione e un giudizio positivo sulla voce di Papa Francesco che appare a tutti capace di una parola chiara e di un annuncio radicale del Vangelo. Ma nello stesso tempo manca una soggettività matura nella vita della chiesa soprattutto in Italia, a differenza che in altri paesi, e lo si constata anche nel cammino sinodale in corso: c’è una certa afonia, un’assenza di dibattito intraecclesiale e di consapevolezza, la mancanza di proposte per il futuro della chiesa. È significativo che ciò che è pervenuto alla Segreteria del Sinodo dalle assemblee diocesane di tutta Italia ripresenti in realtà le proposte già discusse nei decenni precedenti, coniugando l’evangelizzazione con le diverse realtà ecclesiali.

Quando ci si riunisce non si affrontano i temi che appaiono conflittuali, ma che sono i più sentiti e sofferti dal popolo di Dio, si sceglie invece di dare spazio alle “testimonianze”, vere e proprie esibizioni di leader spirituali che incantano ma non convertono nessuno e soprattutto non lasciano spazio al confronto delle idee. Fin dall’inizio del cammino sinodale il Papa e tutti i pastori delle chiese locali hanno enunciato il primato dell’ascolto invitando tutti all’ascolto reciproco, ma senza che si accendesse il dibattito e il confronto intraecclesiale.

Conosco bene la tradizione monastica e i suoi inganni: per mostrare di praticare la sinodalità l’autorità fa parlare tutti, ascolta tutti, ma non lascia spazio al dibattito, spegne ogni confronto sul suo nascere e poi decide come vuole. È un rischio presente in ogni cammino sinodale, soprattutto se nella chiesa manca l’opinione pubblica. Già nel 1950 Pio XII diceva: “Là dove non appare nessuna manifestazione di opinione pubblica, là dove si constata una sua reale inesistenza … occorre vedervi un vizio, una infermità, una malattia della vita sociale. Così anche in seno alla chiesa: essa, corpo vivente, mancherebbe di qualcosa di vitale se l’opinione pubblica mancasse, e questo sarebbe un difetto che ricadrebbe sui pastori e sui fedeli”. Parole da riproporre ancora oggi perché non abbiamo bisogno di voci uniformi, né di adulatori, né di parole che ripetono quelle del Papa, ma innanzitutto di persone che si distinguono per la loro libertà. Quella libertà che tanto fu propugnata dall’apostolo Paolo come necessaria al cristiano, libertà da esercitare, non da mendicare, anche nei confronti dei pastori.

Non basta ascoltare, occorre poi anche discernere, prendere posizione, parlare, opporsi se è necessario, e confrontarsi per giungere a una comunione plurale, una comunione sinfonica. Basta con queste “testimonianze” che la chiesa non conosceva fino a cinquant’anni fa, basta con queste presunte “conversazioni spirituali”, che in realtà vengono richieste per nascondere i conflitti, basta con la paura della libertà. L’Evangelii gaudium di Papa Francesco è estremamente chiara su questo metodo e su questo stile.

Se non compariranno cristiani adulti, maturi, con una soggettività ecclesiale che sappia esprimersi, la chiesa non solo sarà sempre clericale, ma continuerà a essere astenica, incapace di una parola profetica, libera e critica, una parola che non conosca la paura ma solo il primato del Vangelo.

Certo non basta parlare, occorre ascoltare, ma non basta neanche ascoltare, perché occorre poi confrontarsi, discutere, per camminare insieme.
(fonte: blog dell'autore)


venerdì 24 marzo 2023

La beatitudine dei martiri, amici in Paradiso

La beatitudine dei martiri, amici in Paradiso


«Vinse in loro Colui che visse in loro; di conseguenza, neppure defunti morirono quelli che non per sé, ma per Lui erano vissuti»
(Sant’Agostino, Discorso 280)

Oggi, 24 marzo 2023, ricorre la trentunesima Giornata dei Missionari Martiri.
Nel 1992 l’allora Movimento Giovanile delle Pontificie Opere Missionarie italiane (oggi Missio Giovani) propose per la prima volta alla Chiesa italiana la celebrazione di una Giornata che facesse memoria di quanti ogni anno vengono uccisi durante il proprio servizio pastorale. La celebrazione fin da allora fu collocata nel giorno dell’uccisione di Oscar Arnulfo Romero, l’Arcivescovo salvadoregno ammazzato il 24 marzo 1980 mentre celebrava la messa nella cappella dell’Hospedalito, a San Salvador.
L’8 gennaio 2015, il Congresso dei teologi della Congregazione per le cause dei Santi aveva riconosciuto con voto unanime che l’Arcivescovo Romero era un martire, ucciso “in odium fidei”: a spingere i carnefici a eliminarlo non era stata la brama di far fuori un nemico politico, ma l’odio scatenato dalla sua predilezione dei poveri, riverbero diretto della sua fede in Cristo e della sua fedeltà al magistero della Chiesa. La fede – riconobbero allora i teologi del dicastero vaticano - era il punto sorgivo del suo operare, delle parole che pronunciava e dei gesti che compiva nel contesto in cui era chiamato a operare e a vivere come arcivescovo.

Nel Salvador degli squadroni della morte e della guerra civile, la Chiesa subiva una persecuzione feroce da parte di persone che almeno sociologicamente erano cristiane. Proprio il lavoro del processo di beatificazione aveva confermato che Romero – come scrisse il professore Roberto Morozzo della Rocca – era «un sacerdote e vescovo romano, obbediente alla Chiesa e al Vangelo attraverso la Tradizione», chiamato a svolgere il suo ministero di pastore «in quell’Occidente estremo e stravolto che era l’America Latina di quegli anni». Dove sacerdoti e catechisti venivano ammazzati e nelle campagne diventava pericoloso possedere un Vangelo. Dove bastava chiedere giustizia per essere bollato come comunista sovversivo.

Il riconoscimento del martirio dell’Arcivescovo Romero è stato un momento decisivo nel cammino del processo per la sua canonizzazione. L’Arcivescovo martire è stato elevato alla gloria degli altari come Beato il 23 maggio 2015, ed è stato proclamato Santo insieme a Papa Paolo VI e a altri 5 beati da Papa Francesco, nella solenne liturgia eucaristica da lui presieduta in Piazza San Pietro, il 14 ottobre 2018.

Nei giorni scorsi, l’Agenzia Fides ha riproposto le storie di 5 missionari e missionarie martirizzati, per i quali è in corso o si è da poco concluso il processo di beatificazione. Nella serie di articoli curati da Stefano Lodigiani, sono state ripercorse le vicende martiriali di Suor Maria Agustina Rivas, uccisa il 27 settembre 1990 in Perù dai guerriglieri di Sendero Luminoso; quelle della dottoressa italiana Luisa Guidotti, missionaria laica uccisa in Zimbabwe il 6 luglio 1979; quelle del giovane pachistano Akash Bashir, ucciso il 15 marzo 2015 a Lahore da un terrorista kamikaze, e quelle di João de Deus Kamtedza e Sílvio Alves Moreira, padri gesuiti sequestrati e uccisi in Mozambico il 30 ottobre 1985.

La vicenda di San Romero, e anche quelle dei nuovi martiri ripercorse da Fides (una suora, una laica, un giovane, due sacerdoti) aiutano a percepire l’ordito luminoso che lungo la storia della salvezza intreccia insieme martirio, missione apostolica e santità. La Chiesa non si è mai lamentata dei suoi martiri. Non ha mai avuto reticenze nel proclamare che proprio loro, con le loro vite strappate a forza e con dolore da morti cruente inferte da carnefici sanguinari, pregustano la gloria del Paradiso. Attestano e testimoniano una predilezione che rende quelle stesse vite abbracciate e rivestite da una beatitudine senza pari. Nel dinamismo imparagonabile della grazia, scandalo e stoltezza per il mondo, martirio e beatitudine diventano sinonimi.

All’inizio della vicenda cristiana nel mondo, l’appellativo di “martire”, cioè “testimone”, era riservato agli Apostoli e ai discepoli di Gesù. A coloro che erano stati «testimoni oculari» della vita di Cristo, della sua Passione, e morte, e avevano incontrato il Risorto. Ma già durante le grandi persecuzioni dei primi secoli di cristianesimo, cominciarono a essere definiti «martiri» anche coloro che venivano condannati a morte “in odium fidei”, a causa della fede.

La connotazione martiriale accompagna e accompagnerà sempre il cammina della Chiesa lungo la Storia. E la Chiesa riconoscerà sempre l’intimo e speciale vincolo di comunione che unisce i martiri a Cristo stesso e al suo Mistero di salvezza. Anche per questo, la normativa vigente sulle Cause di canonizzazione, definita su questo punto dalla Costituzione apostolica Divinus perfectionis Magister, promulgata da Giovanni Paolo II il 25 gennaio 1983, stabilisce che nelle procedure per la beatificazione di un martire non è richiesta la prova e il riconoscimento di un miracolo avvenuto per intercessione del beatificando. Il martirio è riconosciuto come una manifestazione così evidente dell’amore per Dio e della propria conformazione a Cristo, da far ritenere non necessaria la “conferma” del riconoscimento di un miracolo per affermare che i martiri, tutti i martiri, sono in Paradiso.
Come scrive Sant’Agostino nel Discorso 280, ricordando il “dies natalis” delle martiri romane Perpetua e Felicita, “come quell'Uno ha dato la sua vita per noi, così i martiri hanno seguito il suo esempio e hanno dato la loro vita per i fratelli; anche allo scopo di suscitare un'abbondantissima messe di popoli, quasi germogli, irrigarono la terra con il loro sangue. Pertanto anche noi siamo i frutti della loro fatica. Noi li ammiriamo, essi hanno compassione di noi. Noi ci rallegriamo con loro, essi pregano per noi”.
(fonte: Agenzia Fides, articolo di Gianni Valente 24/3/2023)


Ripensare la prassi penitenziale

Ripensare la prassi penitenziale

Il processo di conversione; il rispetto dei tempi dell’uomo; il primato della misericordia; la riscoperta dalla penitenza come virtù; il bisogno di comunità e di relazione… Sono numerosi gli spunti emersi dalla giornata di studio “Ripensare la prassi penitenziale”, in cui la terza forma della penitenza, riscoperta in tempo di pandemia, è diventata l’occasione per aprire nuove finestre nell’orizzonte del quarto sacramento.


La domanda di riconciliazione non manca, è la forma a essere in crisi. È partita da questo dato di fatto – che ha trovato evidenza nel tempo di pandemia con l’alta partecipazione di fedeli alla celebrazione della penitenza nella terza forma – la riflessione sviluppata nella giornata di studio “Ripensare la prassi penitenziale. La terza forma della penitenza: esperienza da archiviare o risorsa?”, che si è svolta il 27 febbraio 2023 a Padova, nella sede della Facoltà teologica del Triveneto.

L’iniziativa è stata promossa dalla stessa Facoltà in collaborazione con la Facoltà di Diritto canonico San Pio X di Venezia e l’Istituto di Liturgia pastorale Santa Giustina di Padova. Le tre istituzioni già nei due anni precedenti avevano approfondito la questione in un percorso di ricerca con i contributi di docenti di liturgia, teologia morale, diritto canonico, sociologia, teologia pastorale e sacramentale.

Numerosi e differenti gli stimoli portati dalle otto relazioni, da cui sono emersi alcuni passaggi ricorrenti: la necessità di passare dall’atto puntuale a un processo di conversione; il rispetto dei tempi dell’uomo; il primato della misericordia; la riscoperta della penitenza come virtù; il bisogno di comunità e di relazione.

La terza forma è diventata così il pretesto per aprire nuove finestre nell’orizzonte del quarto sacramento.

Generare processi di conversione

Ad aprire i lavori della giornata di studio è stata Elena Massimi (Pontificia Facoltà di Scienze dell’educazione Auxilium, Roma), evidenziando che «il contesto della pandemia è fortemente penitenziale e la penitenza forzata ha messo in luce l’importanza del sacramento, nella sua dimensione comunitaria e liturgica; venuto meno il contesto è sparita la domanda, come dimostrano le sintesi sinodali, dove non si dice nulla del sacramento della penitenza».

Quale sistema penitenziale è allora possibile per l’epoca contemporanea? Una sola forma forse è insufficiente. «La terza forma ha risposto a una situazione emergenziale; è stato un atto puntuale che non ha dato vita a un processo. Nella nostra prassi – ha sottolineato – non c’è un cammino di conversione del cristiano e per questo il sacramento non trova l’orizzonte entro il quale poter vivere».

È necessario dunque «recuperare la complessità e la varietà cristiana nel fare penitenza. Se la prima forma potrebbe garantire itinerari di conversione personalizzati, la terza potrebbe aprire a un processo che si distende nel tempo e mettersi dentro il dinamismo di un cammino di conversione che chiede anche il rispetto – a cui non siamo più abituati – dei tempi di maturazione umana».

Infine, è fondamentale «recuperare una forma storica e credibile alla virtù della penitenza, cioè alla conversione vissuta grazie al dono dello Spirito ricevuto nel sacramento del battesimo e in cui il sacramento stesso esprime la sua efficacia».

Un’indagine sulla terza forma: dati e riflessioni

Una ricerca sociologica sulla terza forma è stata curata da Simone Zonato (Facoltà teologica del Triveneto), che ha operato sulla base di dati raccolti in un sondaggio che ha coinvolto gli studenti della Facoltà teologica e i presbiteri delle diocesi del Triveneto. Le risposte raccolte sono state 250: il 50,4% maschi e il 49,6% femmine; poco meno della metà sono laiche (45,6%), mentre i laici maschi sono il 22,4%; i presbiteri il 21,2%, l’8% sono religiose e religiosi, il 2,8% diaconi. L’età media è 50,2 anni. Quasi metà dei rispondenti appartiene alla diocesi di Trento e quasi un quarto a quella di Treviso.

«Dalle risposte, risulta una pluralità di visioni, di percezioni e di posizioni – ha affermato –. Emerge quel “Dio a modo mio” che conferma quanto già rilevato dalle ricerche sociologiche degli ultimi anni».

C’è una differenza di visione tra presbiteri e laici (che appaiono meno entusiasti) e in genere «si percepisce una contrapposizione tra confessione individuale e terza forma, per cui la prima si rivendica come la formula autentica; soprattutto in rapporto ai peccati gravi la terza appare incompleta. C’è inoltre il riconoscimento generale della crisi del sacramento della confessione».

Nel complesso, comunque, «da parte di coloro che hanno usufruito della terza forma si ricava – ha concluso – una valutazione positiva dell’esperienza, specie nella sua dimensione comunitaria».

Il tempo è superiore allo spazio

Che cosa pensano i preadolescenti della confessione? Che esperienza ne hanno? Sul tema ha condotto un’indagine Daniela Conti, pubblicata nel volume Fare penitenza, scritto con Andrea Grillo, e riportata da Assunta Steccanella (Facoltà teologica del Triveneto) per impossibilità dell’autrice a essere presente.

Dalle risposte raccolte da 196 ragazzi e ragazze veronesi, fra gli 11 e i 14 anni, emerge come gli atti umani della penitenza chiamati in causa nel sacramento si stiano svuotando del loro peso esistenziale, e dunque del loro contenuto. I ragazzi sentono l’imposizione del sacramento e non è percepito il volto misericordioso di Dio; Dio appare piuttosto come un giudice, il peccato è una colpa e la penitenza è la liberazione dalla colpa. La dimensione vissuta nella celebrazione del sacramento è esclusivamente orizzontale, circoscritta alla figura del confessore; estremamente rara è la relazione verticale di rapporto con il Signore.

«Emerge la necessità di recuperare la dimensione integrale del quarto sacramento, con una catechesi iniziatica e mistagogica al fare penitenza, – ha riportato Steccanella – oltre a un ripensamento del ruolo dei catechisti». Occorre passare «dall’atto puntuale al percorso di conversione. La terza forma – ha aggiunto – ha mostrato che non c’è bisogno solo di formule di assoluzione, ma anche del rispetto dei tempi dell’uomo, di parole e di relazioni da coltivare».

Il primato della misericordia

Sono quattro le sfide che Alessio dal Pozzolo (Istituto superiore di Scienze religiose “Mons. A. Onisto” di Vicenza) vede oggi per la Chiesa nell’adozione in via eccezionale della terza forma della penitenza.

Innanzitutto la presa d’atto che la Chiesa, sorta storicamente e situata in contesti socio-culturali concreti, è in stato permanente di conversione comporta la necessità di integrare fino in fondo la storicità.

La Chiesa è inoltre chiamata ad assumere la forma della misericordia, non slegata dal lavoro della libertà, che è insieme personale e comunitario: «La terza forma della penitenza può diventare luogo di attuazione singolare della misericordia come forma della Chiesa, purché – ha specificato – non si riduca alla mera celebrazione puntuale ma sia momento di un processo più ampio, teso a riabilitare una libertà ferita. È decisivo che tutta la Chiesa sia coinvolta nell’opera della riconciliazione».

La terza sfida è di onorare il sensus fidei e l’ultima è di riattivare una collegialità intermedia tracciando una figura di Chiesa che, dal basso, percorre vie modeste di collegialità che iniziano a dare corpo ai proclami di sinodalità. «La pratica della terza forma della penitenza – ha concluso – può allora diventare sprone per una ricognizione ecclesiale complessiva (la misericordia come forma ecclesiae), al di là delle possibili forme rituali adottate o da adottare. Ecco che il cambiamento subito diventa via di rinnovamento anche ecclesiale».

Questioni canoniche

Nel rispondere al quesito se l’utilizzo della terza forma, avvenuto in occasione della pandemia, possa aprire la strada a un ripensamento della celebrazione della penitenza, Pierpaolo Dal Corso (Facoltà di Diritto canonico San Pio X di Venezia) ha messo in evidenza come «i presupposti storici della vigente disciplina evidenziano l’assoluta eccezionalità di questo strumento; estendere la sua applicazione fino a concepirlo come un’ulteriore forma ordinaria significherebbe snaturarlo, perpetrando un chiaro abuso in violazione di quanto ci deriva dal diritto divino. Non si può prescindere dal fatto che la completezza assolutoria avviene in ogni caso con l’integra confessione individuale dei peccati gravi, a cui si deve sempre ricorrere, a meno che non sia impossibile».

Di certo, l’impiego di questa modalità nel periodo pandemico ha contribuito a far riscoprire il valore ecclesiale del perdono. «La revisione del sacramento dovrebbe rendere maggiormente consapevoli i fedeli sia del motivo per cui ricorrono alla misericordia divina, ovvero la rottura dell’alleanza con Dio cagionata dal peccato grave – che non si riduce alla mera infrazione di norme morali –, sia del rilievo comunitario della riconciliazione, che coinvolge tutta la Chiesa pur mantenendo anche carattere personale».

In conclusione, «l’imprescindibile dato storico-giuridico non lascia spazio per espandere l’applicazione dell’assoluzione collettiva, senza contare che una sua estensione sistematica e ordinaria potrebbe sortire anche l’effetto, sotto il profilo pastorale, di una ulteriore disaffezione al sacramento».

Una pastorale della conversione

L’idea di una “prospettiva catecumenale” è stata marcata da Roberto Bischer (Istituto superiore di Scienze religiose “Giovanni Paolo I” di Belluno-Feltre, Treviso, Vittorio Veneto), in una rilettura teologico-fondamentale del quarto sacramento e nell’ottica di una “pastorale della conversione”, senza la quale il rito della penitenza è destinato a restare lettera morta.

«Si tratta di considerare e di valorizzare – ha spiegato – la gradualità di un cammino di fede e di vita in modo da evitare, per quanto possibile, il rischio di ridurre la celebrazione e la grazia sacramentale a un unico momento celebrativo; ma piuttosto di integrare il carattere personale della riconciliazione, che non si realizza senza la dinamica antropologica della conversione».

Ha poi richiamato la prospettiva di una Chiesa che si riscopre caratterizzata dalla dimensione penitenziale: un grembo entro il quale il battezzato peccatore può comprendere la portata del proprio allontanamento da Dio e la Chiesa può ritrovare un aspetto decisivo della missione ricevuta da Gesù. «In questa prospettiva – ha concluso – potrebbe essere compresa l’idea di papa Francesco della Chiesa come ospedale da campo, luogo di guarigione, dove il battezzato ritrova la propria identità come perdonato e dunque salvato».

Riconoscere e discernere il nuovo che ci provoca

Non abbiamo bisogno di ricette nuove, ma di processi da ridestare, oltre che di riattingere agli elementi sorgivi di un’azione penitenziale stanca e scontata. È questa l’opinione di Ezio Falavegna (Istituto superiore di Scienze religiose “San Pietro martire”, Verona), che richiama il vangelo della prossimità e l’annuncio delle persone fragili, segni dell’amore di Dio che converte e guarisce.

Sottolinea inoltre il valore formativo e pedagogico del sacramento vissuto nella terza forma, che chiama oggi un cammino diverso e diversificato. «Occorre prendere atto della fragilità – ha affermato – e la fatica di accogliere la debolezza come un elemento della vita. C’è bisogno di comunità, di una storia fatta di relazioni e di tempo per coltivarle, alla luce di una Parola che è per tutti, in una Chiesa che, nella pandemia, ha saputo consegnare segni e parole di misericordia comprensibili. Il perdono del Signore impegna a un cammino condiviso».

Passare dalla dimensione emergenziale a quella progettuale «chiede un vero e proprio commiato da irrigidimenti tradizionali – ha concluso –; reclama disponibilità accogliente nei confronti dei nuovi segni del nostro tempo e ci obbliga a rischiare, non semplicemente lasciandoci attirare, ma mettendoci a servizio, in uno stile di discernimento del nuovo che lo Spirito ci dona».

Risorse inattuate e sfide pastorali

Uno dei rischi del Rito della penitenza è di istituire il perdonato e non il convertito ma, nella faticosa proposta della riconciliazione con Dio nella Chiesa, ciò che non può morire è il gioco fra una coraggiosa attività e una benefica passività, cioè tra il primato della misericordia di Dio e la necessità della risposta dell’uomo che si dà nella penitenza.

Lo ha messo bene a fuoco Loris Della Pietra (Istituto di Liturgia pastorale Santa Giustina, Padova), spiegando che «questo intreccio imprescindibile, come ha trovato consenso nella riflessione teologica, così deve e può trovare felice realizzazione nei cammini pastorali e in una celebrazione attenta al primato della Parola, alla soggettualità della Chiesa e dell’assemblea radunata, al gesto dell’invocazione, al silenzio nel quale lo Spirito opera».

Questo sarà possibile solo «nell’audacia di andare oltre il modello confessionale, comodo da gestire ma anche limitante, per attuare forme celebrative dove il dono divino possa essere gustato nelle pieghe dell’umano. A condizione – ha aggiunto – che non manchino luoghi e tempi a ciò dedicati (e non soltanto occasioni) e ministri dediti a creare le premesse affinché il credente accidentato si sporga sul dono immeritato di Dio e ne tragga guarigione».
(fonte: Settimana News, articolo di: Paola Zampieri 16/03/2023)

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Per approfondire:
SACRAMENTO DELLA PENITENZA. LE TRE FORME RITUALI.