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venerdì 30 novembre 2018

«L'annuncio di Cristo non è né proselitismo, né pubblicità, né marketing deve essere testimonianza ossia deve esserci coerenza tra la parola e la propria vita» - Papa Francesco - S. Messa Cappella della Casa Santa Marta - (video e testo)

S. Messa - Cappella della Casa Santa Marta, Vaticano
30 novembre 2018
inizio 7 a.m. fine 7:45 a.m. 

Papa Francesco:
Biglietto di sola andata

«Oggi, in questa messa, ci faremo vicini alla Chiesa di Costantinopoli, la Chiesa di Andrea, pregheremo per la Chiesa, per l’unità delle Chiese». Con queste parole, all’inizio della celebrazione di venerdì 30 a Santa Marta, Papa Francesco ha voluto ricordare la festa liturgica di sant’Andrea. E la vocazione di «Pietro e Andrea» è stata richiamata dal Pontefice con le parole dell’antifona d’ingresso: «Sulle sponde del mare di Galilea il Signore vide due fratelli, Pietro ed Andrea, e li chiamò: “Venite dietro a me, vi farò pescatori di uomini” (cfr Matteo 4, 18-19)». L’annuncio del Vangelo, ha poi affermato il Papa, è «testimonianza» e «coerenza» fino al martirio: è una missione che prevede «il biglietto di sola andata». E non ha nulla a che vedere con il «proselitismo» e la «logica del marketing».

Nell’omelia il Pontefice ha anzitutto ripreso i contenuti dalla lettera di Paolo ai Romani (10, 9-18) proposta come prima lettura. L’apostolo, ha spiegato, «dice ai romani che è importante l’annuncio del Vangelo: portare questo annuncio, che Cristo ci ha salvato, che Cristo è morto, risorto per noi». Ma l’apostolo dice anche «come questa gente deve invocare il nome del Signore per essere salvata: “come invocheranno colui nel quale non hanno creduto?”». Perché «senza fede non si può invocare». E ancora, ha proseguito il Papa ripetendo le parole di Paolo, «come crederanno in colui del quale non hanno sentito parlare? Come ne sentiranno parlare senza qualcuno che lo annunci? E come lo annunceranno, se non sono stati inviati? Come sta scritto: “Quanto sono belli i piedi di coloro che recano un lieto annuncio di bene!”».

«L’annunzio di Gesù Cristo è portare, sì, una notizia, ma non una notizia semplice, comune: la buona notizia» ha spiegato Francesco, aggiungendo che in realtà non si tratta «neppure di una buona notizia» ma della notizia, «l’unica grande buona notizia».

E «questo annunciare Gesù Cristo per i discepoli dei primi tempi e anche di questo tempo — ha detto il Pontefice — non è un lavoro di pubblicità: fare pubblicità per una persona molto buona, che ha fatto del bene, ha guarito tanta gente e ci ha insegnato cose belle». L’annuncio, ha insistito, «non è pubblicità, neppure è proselitismo». Tanto che «se qualcuno va a parlare di Gesù Cristo, a predicare Gesù Cristo per fare proselitismo, no, questo non è annuncio di Cristo: questo è un lavoro di predicatore, retto dalla logica del marketing».

Dunque, si è chiesto il Papa, «che cosa è l’annuncio di Cristo, che non è né proselitismo, né pubblicità, né marketing e come descriverlo?». Si tratta, ha risposto, «prima di tutto, di essere inviato, ma non come il capo di una ditta a cercare nuovi soci», bensì come «inviato alla missione». E «il segnale proprio, che uno è inviato alla missione» è «quando entra in gioco la propria vita: l’apostolo, l’inviato, che porta avanti l’annuncio di Gesù Cristo lo fa a condizione che metta in gioco la propria vita, il proprio tempo, i propri interessi, la propria carne». E «c’è un detto che può spiegare, un detto comune detto da gente semplice della mia terra, che dice: “per fare questo ci vuole mettere la propria carne sulla griglia”». La questione, ha ripetuto Francesco, è «mettersi in gioco e questo viaggio di andare all’annuncio rischiando la vita — perché io mi gioco la mia vita, la mia carne — ha soltanto il biglietto di andata, non del ritorno». Perché «ritornare è apostasia».

«Annuncio di Gesù Cristo con la testimonianza» dunque. E «testimonianza vuol dire mettere in gioco la propria vita: quello che io dico lo faccio» ha ribadito il Pontefice. Del resto, «Gesù rimproverava i dottori della legge di quel tempo che dicevano tante cose belle, ma facevano il contrario». Non a caso, «il consiglio che Gesù dava alla gente era: “Fate tutto quello che loro dicono, ma non imitate quello che fanno”». Infatti, ha aggiunto, «la parola per essere annuncio deve essere testimonianza».

Ma «quanto scandalo diamo noi cristiani quando diciamo di essere cristiani e poi viviamo come pagani, come non credenti, come se non avessimo fede» ha riconosciuto il Papa, invitando ad avere «coerenza tra la parola e la propria vita: questo si chiama testimonianza». E così «l’apostolo, quello che porta, l’annunciatore, quello che porta la parola di Dio, è un testimone che gioca la propria vita fino alla fine». Ed «è anche un martire».

A questo punto, ha suggerito Francesco, «qualcuno può domandarsi chi ha inventato questo metodo di far conoscere una persona come Gesù: è un metodo proprio del cristianesimo. Chi lo ha inventato? Forse san Pietro o sant’Andrea? No, Dio Padre, perché è stato il proprio metodo per farsi conoscere: inviare il suo Figlio in carne, rischiando la propria vita».

Infatti, ha fatto presente il Pontefice, «il primo atto di fede è: “Io credo che il Figlio si è incarnato”». E anche questa affermazione «scandalizzava tanto e continua a scandalizzare: Dio si è fatto uno di noi». Anche questo «è stato un viaggio — ha affermato Francesco — con biglietto soltanto di andata: il diavolo ha cercato di convincerlo a prendere un’altra strada e lui non ha voluto, ha fatto la volontà del Padre fino alla fine». Ma il suo «annuncio deve andare per la stessa strada, la testimonianza, perché lui è stato il testimone del Padre fatto carne». E anche «noi dobbiamo farci carne, cioè farci testimoni: fare, fare quello che diciamo, e questo è l’annuncio di Cristo».

«I martiri sono coloro che dimostrano che l’annuncio è stato vero» ha spiegato il Papa. Sono «uomini e donne che hanno dato la vita — gli apostoli hanno dato la vita — con il sangue». Ma sono «anche tanti uomini e donne nascosti nella nostra società e nelle nostre famiglie, che danno testimonianza tutti i giorni in silenzio di Gesù Cristo, ma con la propria vita, con quella coerenza di fare quello che dicono».

«Tutti noi siamo battezzati e abbiamo con il battesimo la missione di annunciare Gesù Cristo» ha rilanciato il Pontefice. Perciò «se noi viviamo come Gesù ci ha insegnato a vivere, viviamo in armonia con quello che predichiamo, l’annuncio sarà fruttuoso». Ma «se noi viviamo senza coerenza, dicendo una cosa e facendone un’altra contraria, il risultato sarà lo scandalo; e lo scandalo dei cristiani fa tanto male, tanto male al popolo di Dio».

«Chiediamo al Signore la grazia» — ha concluso Francesco — di fare «come Pietro e Andrea, Giacomo e Giovanni che hanno lasciato barca, rete, padre, famiglia: lasciare tutto quello che ci impedisce di andare avanti nell’annuncio della testimonianza». Perché «tutti noi abbiamo qualcosa da lasciare dentro, tutti. Cerchiamo cosa? Lasciamo. Quell’atteggiamento, quel peccato, quel vizio: ognuno sa la sua». Per questo, ha ripetuto, chiediamo «la grazia di lasciare per essere più coerenti e annunciare Gesù Cristo, perché la gente creda con la nostra testimonianza».
(fonte: L'Osservatore Romano)

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Immigrati e accoglienza: non è questione di sicurezza o di ordine pubblico di don Luigi Ciotti

Immigrati e accoglienza: 
non è questione di sicurezza o di ordine pubblico

di  don Luigi Ciotti
fondatore del Gruppo Abele

Certe misure hanno l’evidente scopo di ostacolare l’accoglienza e rendere plausibili, anche sulla base di un’informazione tendenziosa o apertamente manipolata, azioni che trascendono ogni limite etico, ogni senso minimo di umanità. Ne è convinto don Luigi Ciotti, fondatore del Gruppo Abele, che interviene su un argomento di grande attualità in questi giorni, nel Dossier “Immigrati e accoglienza” del prossimo numero del mensile “Vita Pastorale” (dicembre 2018). Pubblichiamo il testo integrale della sua riflessione



Sull’accoglienza dei migranti le parole più profonde e vere le ha pronunciate papa Francesco. Lo scorso 14 gennaio, in occasione della Giornata del migrante e del rifugiato, ha parlato delle paure che suscita l’immigrazione. Paure “legittime, fondate su dubbi pienamente comprensibili da un punto di vista umano”, perché “non è facile entrare nella cultura altrui, mettersi nei panni di persone così diverse da noi, comprenderne i pensieri e le esperienze”. Paure, dunque, che non costituiscono un peccato, perché: “Peccato è lasciare che queste paure determinino le nostre risposte, condizionino le nostre scelte, compromettano il rispetto e la generosità. […] Peccato è rinunciare all’incontro con l’altro, con il diverso, con il prossimo, che di fatto è un’occasione privilegiata d’incontro con il Signore”.

Non si potrebbe dire di più e di meglio. Le parole del Papa sottolineano l’importanza dell’incontro con l’altro come fondamento del nostro essere umani. E c’invitano a impedire che la paura dello straniero diventi il criterio delle nostre scelte e dei nostri giudizi. Parole sulle quali tutti dovrebbero riflettere, ma in particolare chi sta cercando di trasformare una tragedia umanitaria in una questione di sicurezza e ordine pubblico.

Certe misure hanno l’evidente scopo di ostacolare l’accoglienza e rendere plausibili, anche sulla base di un’informazione tendenziosa o apertamente manipolata, azioni che trascendono ogni limite etico, ogni senso minimo di umanità.

L’obbiettivo è rappresentare il migrante come un pericolo e un potenziale criminale, comunque sia una persona da respingere, arrestare o scaricare di nascosto oltre frontiera alla stregua di uno scarto ingombrante e inquinante (accade lungo il confine ovest tra Francia e Italia).

Azioni favorite dal vuoto o dalla debolezza legislativa (un trattato come quello di Dublino va contro ogni principio di condivisione e corresponsabilità) e da accordi internazionali che appaltano la “gestione” dei migranti a dittature repressive come la Turchia o Stati in mano a bande armate e gruppi criminali come la Libia. Azioni infamanti di cui l’Europa – culla dei diritti umani e della democrazia – dovrà un giorno rendere conto.

È fondamentale allora, a fronte di tale emorragia di umanità, denunciare le violenze, le ipocrisie, le manipolazioni. Non si tratta – come dicono gli impresari della propaganda – di essere “buonisti”, ma di esercitare la ragione e l’analisi onesta delle cose, quindi proporre misure che tengano conto della realtà e non la occultino sotto la grancassa degli slogan.

L’immigrato non è il “nemico”, semmai la vittima. Le migrazioni ci sono sempre state, fanno parte della storia dell’umanità. Ma se hanno toccato negli ultimi trent’anni i picchi che conosciamo è a causa di un sistema politico ed economico che ha prodotto laceranti disuguaglianze, sfruttato e depredato intere regioni del pianeta, concentrato enormi patrimoni in poche mani, dichiarato guerre per l’appropriazione esclusiva delle materie prime. E, di conseguenza, costretto milioni di persone a lasciare gli affetti, i legami, le case. Ma se le cose stanno così, chi è il “nemico”: gli immigrati o un sistema economico che il Papa ha definito “ingiusto alla radice”, e una politica che l’ha favorito, spalleggiato, se non addirittura rappresentato?


Il corso della storia non si può fermare

I muri, i fili spinati, le frontiere fortificate non sono solo disumani, sono anche inutili. Il corso della storia non lo si può fermare, ma lo si può certo governare. E governare significa cominciare a ridurre le disuguaglianze e le ingiustizie, gli squilibri sociali e climatici, facendo in modo che ogni persona, a ogni latitudine, possa vivere una vita libera e dignitosa: lavorare, abitare, aver garantite istruzione e assistenza sanitaria. Solo così la migrazione può essere contenuta in limiti fisiologici, smettere di essere un disperato esodo di massa che nessun muro o legge potrà mai fermare.

Per governare fenomeni globali occorrono risposte globali, con buona pace della retorica “sovranista” e delle sue allarmanti derive nazionaliste, fasciste e razziste. C’è chi afferma che questa risposta globale sia un’utopia dettata appunto dal “buonismo”. Ma allora era buonismo anche quello che ha ispirato la Dichiarazione universale dei diritti umani e la nostra Costituzione nel 1948 o la Convenzione di Ginevra sui rifugiati nel 1951. Documenti che hanno archiviato una stagione di barbarie, inaugurandone una di libertà e democrazia. Se questa è utopia, l’alternativa è la guerra, esito inevitabile degli egoismi degli Stati-nazione.

Se governata, l’immigrazione diventa per chi accoglie non solo un’opportunità ma una necessità. L’Europa – e il nostro Paese in particolare – è un continente di diffusa denatalità con conseguente innalzamento dell’età media della popolazione. A livello mondiale le tendenze demografiche sono destinate a spostare assetti consolidati.

Se la tendenza attuale troverà conferma, fra quindici anni, nel 2033, avremo una popolazione di 8,4 miliardi di abitanti (1,56 miliardi di più) di cui il 58% (4,9 miliardi) in Asia e il 19% in Africa (attualmente è il 9%). I Paesi sviluppati conosceranno nel loro insieme un forte calo: dal 17,6% al 7%! Non è allarmistico dire che, senza una decisa inversione di marcia, il rischio sui tempi lunghi è l’estinzione e su quelli brevi una sempre più marcata irrilevanza politica ed economica.

Diventa allora imprescindibile una “iniezione” di umanità giovane e anche “diversa”, e una politica che sappia guardare lontano, che voglia realizzare speranza e non speculare sulle paure. Per tornare a noi, il fallimento dello ius soli, una legge per costruire futuro e dare a 600mila bambini figli di genitori stranieri ma nati in Italia il diritto, la responsabilità e anche l’orgoglio di sentirsi italiani, è un esempio di come quella politica sia in Italia merce sempre più rara.

C’è, infine, l’aspetto etico che si lega alla citazione del Papa. Nessuno di noi, nel momento in cui è venuto al mondo, sarebbe sopravvissuto se non fosse stato accolto.

L’accoglienza è vita che sorregge la vita.

Anche Gesù è stato un profugo, un esiliato. Sta a noi, in un tempo avaro di accoglienza, riconoscere nel volto dei migranti quello di milioni di “poveri cristi” bisognosi come noi di accoglienza e di umanità.


(fonte: Sir del 29 novembre 2018)




Vedi anche il post precedente:

Etty Hillesum, la ragazza che trovò Dio durante la Shoah


Etty Hillesum, la ragazza che trovò Dio durante la Shoah

La storia della giovane ebrea olandese, morta ad Auschwitz 75 anni fa, che scriveva: «una volta che si comincia a camminare con Dio si continua semplicemente a camminare e la vita diventa un’unica, lunga passeggiata»

Etty Hillesum
«Si vorrebbe esser un balsamo per molte ferite». Con queste parole si conclude il Diario scritto da Etty Hillesum, giovane ebrea olandese che il 7 settembre 1943 fu deportata ad Auschwitz dove morì, secondo un rapporto della Croce Rossa, il 30 novembre 1943, 75 anni fa. Di lei Benedetto XVI, ricordando a tutti che «la grazia di Dio è al lavoro e opera meraviglie nella vita di tante persone», disse: «Inizialmente lontana da Dio […], nella sua vita dispersa e inquieta Etty Hillesum Lo ritrova proprio in mezzo alla grande tragedia del Novecento, la Shoah. Trasfigurata dalla fede, si trasforma in una donna piena di amore e di pace interiore, capace di affermare: “Vivo costantemente in intimità con Dio”». 

Parole per il nostro tempo 

Non ancora conosciuto come meriterebbe, il “Diario” (pubblicato in edizione ridotta e integrale da Adelphi, insieme al volume delle “Lettere”), consente di scoprire un seme di agape che, insieme ad altri, fu impiantato nel grembo insanguinato della storia del Novecento; un seme buono che può accompagnare e sostenere in modo speciale gli uomini e le donne del nostro tempo. 

Come una pattumiera 

Etty Hillesum era nata nel 1914 in Olanda, a Middelburg, in una famiglia ebrea non praticante. Trasferitasi ad Amsterdam, si era laureata in Legge e cominciava a studiare lingue slave e a dare lezioni di russo (la lingua della madre). Era una giovane donna colta, vivace, curiosa. E molto irrequieta. Dotata di grande capacità introspettiva, all’inizio del Diario (nel 1941), si descriveva con queste parole: «Io voglio qualcosa e non so che cosa. Di nuovo mi sento presa da una grandissima irrequietezza e ansia di ricerca, tutto è in tensione nella mia testa. […] Nel profondo di me stessa, io sono come prigioniera di un gomitolo aggrovigliato, e con tutta chiarezza di pensiero, a volte non sono altro che un povero diavolo impaurito. […] A volte mi sento proprio come una pattumiera; sono così torbida, piena di vanità, irrisolutezza, senso di inferiorità. Ma in me c’è anche onestà, e un desiderio appassionato, quasi elementare di chiarezza e di armonia tra esterno e interno». 

La gratitudine 

Intenzionata a mettere ordine nel suo caos interiore, Etty si rivolse a un allievo di Jung – Julius Spier – ebreo, fondatore della psicochirologia (scienza che analizzando le mani studia la persona), con il quale poi visse una relazione sentimentale. Alla morte di quest’uomo, da lei battezzato «l’ostetrico della sua anima», gli dedicò queste parole: «Tu mi hai insegnato a pronunciare con naturalezza il nome di Dio. Sei stato l’intermediario tra Dio e me […]. Ora sarò io l’intermediaria per tutti quelli che potrò raggiungere». La limpida gratitudine verso Spier, espressa in molti passi del Diario, contrasta l’odierna pressione culturale a “farsi da sé senza vincoli né debiti con alcuno” e invita a onorare e ringraziare quanti, ad ogni generazione, insegnano “a pronunciare il nome di Dio” consegnando un tesoro del quale poi ciascuno, a propria volta, ha la responsabilità nei confronti di altri. 

Purché tu mi tenga per mano 

Mentre la guerra infuriava e le condizioni di vita si facevano sempre più drammatiche per gli ebrei olandesi, le pagine del Diario restituiscono il percorso interiore di Etty, il suo volgersi a Dio e la fiducia con cui si abbandona a Lui: «Mio Dio, prendimi per mano, ti seguirò da brava, non farò troppa resistenza. Non mi sottrarrò a nessuna delle cose che mi verranno addosso in questa vita, cercherò di accettare tutto e nel modo migliore. Il calore e la sicurezza mi piacciono, ma non mi ribellerò se mi toccherà stare al freddo purché tu mi tenga per mano andrò dappertutto allora, e cercherò di non avere paura. E dovunque mi troverò, io cercherò di irraggiare un po’ di quell’amore, di quel vero amore per gli uomini che mi porto dentro. […] Una volta che si comincia a camminare con Dio si continua semplicemente a camminare e la vita diventa un’unica, lunga passeggiata». 

L’agape di Dio 

La preghiera, per Etty (lettrice attenta della Bibbia), non si configura come un ripiegamento narcisistico su di sé né come ricerca di una appagante relazione con Dio in cui immergersi ignorando il patire altrui. Sotto questo aspetto la sua esperienza aiuta a individuare la distorsione in cui oggi può incorrere la preghiera: nella nostra epoca, minata da un dilagante narcisismo, la preghiera è esposta al rischio di trasformarsi in una tecnica di autorassicurazione psicologica, una pratica da mettere in atto per raggiungere il benessere, per “stare bene con se stessi” (ormai diventato il diktat ossessionante delle società occidentali). Pregare significava, per Etty, coinvolgersi nella dinamica dell’agape di Dio per tutti i Suoi figli: «Dobbiamo abbandonare le nostre preoccupazioni per pensare agli altri, che amiamo. Voglio dir questo: si deve tenere a disposizione di chiunque si incontri per caso sul nostro sentiero, e che ne abbia bisogno, tutta la forza e l’amore e la fiducia in Dio che abbiamo in noi stessi e che ultimamente stanno crescendo meravigliosamente in me. O l’uno o l’altro: o si pensa solo a se stessi e alla propria conservazione, senza riguardi, o si prendono le distanze da tutti i desideri personali e ci si arrende. Per me, questa resa non si fonda sulla rassegnazione che è un morire, ma si indirizza là dove Dio per avventura mi manda ad aiutare come posso». 

La vita ricca di significato 

Intanto la repressione per gli ebrei olandesi era diventata durissima: i nazisti cominciarono a condurli nel campo di smistamento di Westerbork, ultima tappa prima di Auschwitz. Nel luglio del 1942 Etty iniziò a lavorare in una sezione del Consiglio Ebraico, organizzazione che faceva da cuscinetto tra i nazisti e gli ebrei: poco tempo dopo domandò di essere trasferita a Westerbork per prestare assistenza alle persone in transito, tornando alcune volte ad Amsterdam anche per ragioni di salute. Era chiara in lei la consapevolezza del destino che attendeva il suo popolo: «Bene, io accetto questa nuova certezza: vogliono il nostro totale annientamento. Non darò più fastidio con le mie paure, non sarò amareggiata se altri non capiranno cos’è in gioco per noi ebrei. Continuo a lavorare con la stessa convinzione e trovo la vita ugualmente ricca di significato». Le pagine del Diario ripetutamente restituiscono la celebrazione della vita: «Di minuto in minuto desideri, necessità, legami si staccano da me, sono pronta a tutto, a ogni luogo di questa terra nel quale Dio mi manderà. Sono pronta a ogni situazione e nella morte a testimoniare che questa vita è bella». 

Aprire la via a Dio 

Nel luglio del 1943 i nazisti stabilirono che la metà dei membri del Consiglio Ebraico presenti nel campo rientrasse ad Amsterdam, mentre l’altra metà avrebbe dovuto restare senza poter più uscire. Etty, che pure avrebbe potuto cercare salvezza nascondendosi, scelse di restare. Voleva prendersi cura di quella umanità dolente e spaventata: «Quanto sono grandi le necessità delle tue creature terrestri, Dio mio. Ti ringrazio perché lasci che tante persone vengano a me con le loro pene: parlano tranquille e senza sospetti e d’un tratto vien fuori tutta la loro pena e si scopre una povera creatura disperata che non sa come vivere. E a quel punto cominciano i miei problemi. Non basta predicarti, mio Dio, non basta disseppellirti dai cuori altrui. Bisogna aprirti la via, mio Dio, e per far questo bisogna essere un gran conoscitore dell’animo umano. I miei strumenti per aprirti la strada negli altri sono ancora ben limitati. Ma esistono già, in qualche misura: li migliorerò pian piano e con molta pazienza». 

Ogni atomo di odio 

In un tempo come il nostro – nel quale toni ringhiosi e parole di odio paiono diffondersi come un virus malefico – Etty sostiene e incoraggia quella moltitudine immensa di uomini e donne che anche oggi – ovunque sulla terra – con letizia, e non senza molti sacrifici, seminano quotidiane opere di agape: quelle infinite forme della custodia, dell’accudimento, della dedizione che tengono in piedi il mondo e che sono incanti quotidiani: mediaticamente invisibili, esistenzialmente decisivi. Annotava Etty: «L’assenza di odio non significa di per sé assenza di un elementare sdegno morale. So che chi odia ha fondati motivi per farlo. Ma perché dovremmo sempre scegliere la strada più corta e a buon mercato? Laggiù (a Westerbork) ho potuto toccare con mano come a ogni atomo di odio che si aggiunge al mondo lo si renda ancora più inospitale. E credo anche, forse ingenuamente ma ostinatamente, che questa terra potrebbe ridiventare un po’ più abitabile solo grazie a quell’amore di cui l’ebreo Paolo scrisse agli abitanti di Corinto». 

Sino all’ultimo respiro 

Mostrando la convinzione che l’umanità formi una catena i cui anelli sono saldati gli uni agli altri, Etty pensava anche a quanti sarebbero venuti dopo di lei e scriveva: «Ho il dovere di vivere nel modo migliore e con la massima convinzione, sino all’ultimo respiro: allora il mio successore non dovrà più ricominciare tutto da capo, e con tanta fatica». Tutti gli esseri umani nascono “in debito” con altri e sono destinati a vivere “in favore” di altri: nel Diario di Etty questa verità granitica dell’umano risplende. 
(fonte: Vatican Insider, articolo di Cristina Uguccioni del 26/11/2018)



giovedì 29 novembre 2018

«Ci sono delle tragedie, anche nella nostra vita, ma davanti a queste, guardare l’orizzonte, perché siamo stati redenti e il Signore verrà a salvarci.» - Papa Francesco - S. Messa Cappella della Casa Santa Marta - (video e testo)

S. Messa - Cappella della Casa Santa Marta, Vaticano
29 novembre 2018
inizio 7 a.m. fine 7:45 a.m. 

Papa Francesco:
Crisi di una civiltà


La «paganizzazione», la «mondanità», la «corruzione» portano alla distruzione della persona. Ma il cristiano, chiamato a confrontarsi con le «prove del mondo», nelle difficoltà della vita ha un orizzonte di speranza perché è invitato alle «nozze dell’Agnello». Durante la messa celebrata a Santa Marta la mattina di giovedì 29 novembre, Papa Francesco ha continuato a seguire gli spunti della liturgia che, nella settimana conclusiva dell’anno liturgico, propone una serie di provocazioni sul tema della fine, della «fine del mondo», della «fine di ognuno di noi».

Nella liturgia della parola del giorno, ha spiegato il Pontefice all’inizio dell’omelia, le due letture tratte dall’Apocalisse (18, 1-2.21-23; 19, 1-3.9) e dal vangelo di Luca (21, 20-28) sono caratterizzate entrambe «da due parti: una parte di distruzione e poi una parte di fiducia; una parte di sconfitta, una parte di vittoria». Al centro dell’attenzione sono poste due città dalla grande potenza evocativa: Babilonia e Gerusalemme, «due città che sono sconfitte».

Innanzitutto Babilonia, «simbolo della città mondana, del lusso, dell’autosufficienza, del potere di questo mondo, ricca». Una realtà che «sembra gioiosa», eppure «sarà distrutta» . Lo afferma l’Apocalisse descrivendo «un rito di vittoria: “È caduta. È caduta Babilonia, la grande. È caduta”». Ritenendola «incapace di essere fedele», il Signore la condanna: «Ha condannato la grande prostituta che corrompeva la terra con la sua prostituzione».

Sempre rifacendosi al testo biblico, il Pontefice è entrato nel dettaglio della realtà di Babilonia. «Quell’appariscenza di lusso, di gloria, di potere — ha detto — era una grande seduzione che portava la gente alla distruzione. E quella grande città così bella fa vedere la sua verità: “è diventata covo di demoni, rifugio di ogni spirito impuro, rifugio di ogni uccello impuro, rifugio di ogni bestia impura e orrenda”». Dietro la «magnificenza», quindi, si nasconde la «corruzione: le feste di Babilonia sembravano feste di gente felice», ma «erano feste finte di felicità, erano feste di corruzione». E per questo, ha spiegato il Papa, il gesto dell’angelo descritto dall’Apocalisse ha una potenza simbolica: «Prese una grande pietra, grande come una macina e la gettò nel mare esclamando: “Con questa violenza sarà distrutta Babilonia, la grande città”».

Significativo è l’elenco, ricordato dal Pontefice, delle conseguenze riservate a essa. Innanzitutto non ci saranno più le feste: «Il suono dei musicisti, dei suonatori di cetra, di flauto e di tromba, non si udrà più in te». Poi, giacché non è «una città di lavoro ma di corruzione», in essa non si troverà più «ogni artigiano di qualsiasi mestiere» e non si udrà più «il rumore della macina». E ancora: «La luce della lampada non brillerà più in te; sarà forse una città illuminata, ma senza luce, non luminosa; questa è la civiltà corrotta». Infine, «la voce dello sposo e della sposa non si udiranno più in te”. C’erano tante coppie, tanta gente, ma non ci sarà l’amore».

Un destino di distruzione, ha rimarcato il Pontefice, che «incomincia da dentro e finisce quando il Signore dice: “Basta”. E ci sarà un giorno nel quale il Signore dirà: “Basta, alle apparenze di questo mondo”». Di fatto, ha aggiunto, questa «è la crisi di una civiltà che si crede orgogliosa, sufficiente, dittatoriale e finisce così».

Ma un triste destino è riservato anche all’altra città-simbolo, Gerusalemme. Ne parla il brano evangelico nel quale Gesù — che «da buon israelita» amava Gerusalemme, ma la vedeva «adultera, non fedele alla legge» — dice: «Quando vedrete Gerusalemme circondata da eserciti, allora sappiate che la sua devastazione è vicina”». Cioè, ha spiegato Francesco, la città «è distrutta per un altro tipo di corruzione: la corruzione dell’infedeltà all’amore». Per questa infedeltà essa «non è stata capace di riconoscere l’amore di Dio nel suo Figlio». Anche per Gerusalemme, dunque, il destino è duro: «E cadrà, e saranno giorni di vendetta. Gerusalemme sarà calpestata dai pagani».

È proprio in questo passaggio del vangelo di Luca che il Pontefice ha individuato «una frase che aiuta a capire il senso della distruzione di ambedue le città: la città mondana e la città santa: “Finché i tempi dei pagani non siano compiuti”». La città santa sarà punita, perché ha aperto «le porte del cuore ai pagani». Il Papa ha spiegato come qui emerga «la paganizzazione della vita, nel nostro caso, cristiana»; e ha lanciato una provocazione: «Viviamo come cristiani? Sembra di sì. Ma in verità, la nostra vita è pagana». Il cristiano, cioè, entra nella medesima «seduzione della Babilonia e Gerusalemme vive come Babilonia. Vuol fare una sintesi che non si può fare. E ambedue saranno condannate». Da qui le domande: «Tu sei cristiano? Tu sei cristiana?». Allora, ha esortato, «vivi come cristiano», perché «non si può mescolare l’acqua con l’olio». Oggi invece assistiamo alla «fine di una civiltà contraddittoria in se stessa, che dice di essere cristiana» ma «vive come pagana».

A questo punto, nella riflessione di Francesco si è aperto l’orizzonte di speranza suggerito dalle letture. Infatti, «dopo la fine della città mondana e della città di Dio paganizzata, si udrà la voce del Signore: “Dopo questo udii come una voce potente di folla immensa nel cielo che diceva: Alleluia!”». Quindi: «dopo la distruzione c’è la salvezza». Come si legge nel capitolo 19 dell’Apocalisse: «Salvezza, gloria e potenza sono del nostro Dio, perché veri e giusti sono i suoi giudizi». E la distruzione delle due città, ha spiegato il Pontefice, è «un giudizio di Dio: Egli ha condannato la grande prostituta che corrompeva la terra con la sua prostituzione, vendicando su di lei il sangue dei suoi servi!». Quella città mondana, infatti, «sacrificava i servi di Dio, i martiri. E quando Gerusalemme si paganizza, sacrificò il grande martire: il Figlio di Dio».

La visione dell’Apocalisse è grandiosa: «E per la seconda volta dissero: “Alleluia!”. E l’angelo disse: “Venite: Beati gli invitati alle nozze dell’Agnello!”». È l’immagine della «grande festa, la vera festa. Non la festa pagana e la festa mondana». Un’immagine di vittoria e di speranza evocata anche da Gesù nel vangelo: «In quel momento di tragedia, allora vedranno il Figlio dell’uomo venire su una nube con grande potenza e gloria. Quando cominceranno ad accadere queste cose, risollevatevi — davanti alle tragedie, alla distruzione della paganità, della mondanità, risollevatevi — alzate il capo, perché la vostra liberazione è vicina».

Ecco il messaggio che interpella ogni cristiano: «Ci sono delle tragedie, anche nella nostra vita, ma davanti a queste, guardare l’orizzonte, perché siamo stati redenti e il Signore verrà a salvarci. E questo — ha aggiunto Francesco — ci insegna a vivere le prove del mondo non in un patto con la mondanità o con la paganità che ci porta alla distruzione, ma in speranza, distaccandoci da questa seduzione mondana e pagana, e guardando l’orizzonte, sperando Cristo, il Signore».

In questa prospettiva di speranza, il Papa ha invitato a gettare uno sguardo al passato, anche recente per rileggere la storia alla luce della parola di Dio: «Pensiamo come sono finite le “babilonie” di questo tempo. Pensiamo agli imperi del secolo scorso, per esempio: “Era la grande, la grande potenza...”. Tutto crollato. Solo, rimangono gli umili che hanno la propria speranza nel Signore. E così finiranno anche le grandi città di oggi». Allo stesso modo «finirà la nostra vita, se continuiamo a portarla su questa strada di paganizzazione. È il contrario della speranza: ti porta alla distruzione. É la seduzione babilonica della vita che ci allontana dal Signore». Invece il Signore, ha concluso il Pontefice, invita a «un percorso «contrario: andare avanti, guardare con quell’Alleluia di speranza», perché «siamo, tutti noi, stati invitati alla festa di nozze del Figlio di Dio». Quindi «apriamo il cuore con speranza e allontaniamoci dalla paganizzazione della vita».
(fonte: L'Osservatore Romano)

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«Abbiamo bisogno di un “trapianto” di cuore... Il Decalogo è la “radiografia” di Cristo... In Lui smette di essere condanna e diventa l’autentica verità della vita umana, cioè desiderio di amore... si incontrano le due gioie: la gioia di Dio di amarci e la nostra gioia di essere amati...» Papa Francesco Udienza 28/11/2018 (foto, testo e video)


UDIENZA GENERALE
Aula Paolo VI
Mercoledì, 28 novembre 2018

Il Papa ha fatto il suo ingresso in Aula Paolo VI poco prima delle 9.30, per la sua prima udienza di quest’inverno svoltasi non in piazza, ma al coperto, vista la giornata di tramontana. Appena cominciato il percorso a piedi lungo il corridoio centrale, acclamato dalle 7mila persone presenti, ha salutato un bambino protetto dalla mascherina e poi si è sottoposto volentieri allo scambio dello zucchetto, ripetuto poi altre volte lungo il percorso. Moltissimi i doni che sono stati offerti a Francesco da entrambi i lati del corridoio, tra cui anche letterine scritte a mano dagli ospiti più piccoli. Durante il tragitto, il Papa si è soffermato anche a parlare con una donna che gli ha chiesto di benedire la sua piccola bambina, alla quale ha imposto le mani sulla fronte. Tra i 7mila in Aula Paolo VI, anche un gruppo di 700 donne della sezione pugliese della Fondazione Komen, al termine della campagna di prevenzione del tumore al seno organizzata in questo mese, con il patrocinio della Fondazione Policlinico Gemelli. I 700 fazzoletti che sventolano oggi per il Papa provengono da tutte le province pugliesi. 









Fuori programma imprevisto e imprevedibile, al termine della catechesi durante i saluti nelle varie lingue, il Papa si è trovato improvvisamente di fronte un bambino che, sfuggito al controllo degli adulti, ha fatto di corsa tutte le scale di marmo bianco, pur di arrivare di fronte al Papa e abbracciarlo. Il Papa ha restituito l’abbraccio e il saluto, sorridendo piacevolmente stupito – “è argentino, è indisciplinato”, ha scherzato rivolgendosi a mons. Georg Gänswein, prefetto della Casa Pontificia, seduto al suo fianco. Anche una bimba si è per un po' unita a lui. Il piccolo è stato riaccompagnato dalla mamma al suo posto, ma è di nuovo ritornato dal Santo Padre che non si è lasciato sfuggire l'occasione, e, usando la sua lingua madre, ha commentato a braccio l’accaduto. “Este chico...
Questo bambino non riesce a parlare: è muto, però sa “comunicare”, sa esprimersi. E ha una cosa che mi fa pensare: è libero, indisciplinatamente libero. Però è libero. E mi induce a pensare: sono anch’io libero così davanti a Dio? Quando Gesù dice che dobbiamo comportarci come bambini, ci dice che dobbiamo avere la libertà che ha un bambino davanti a suo Padre. … questo bambino… chiediamo la grazia che possa parlare”.





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Catechesi sui Comandamenti, 14-B: La legge nuova in Cristo e i desideri secondo lo Spirito.

Cari fratelli e sorelle, buongiorno!

Nella catechesi di oggi, che conclude il percorso sui Dieci Comandamenti, possiamo utilizzare come tema-chiave quello dei desideri, che ci permette di ripercorrere il cammino fatto e riassumere le tappe compiute leggendo il testo del Decalogo, sempre alla luce della piena rivelazione in Cristo.

Siamo partiti dalla gratitudine come base della relazione di fiducia e di obbedienza: Dio, abbiamo visto, non chiede niente prima di aver dato molto di più. Egli ci invita all’obbedienza per riscattarci dall’inganno delle idolatrie che tanto potere hanno su di noi. Infatti, cercare la propria realizzazione negli idoli di questo mondo ci svuota e ci schiavizza, mentre ciò che dà statura e consistenza è il rapporto con Lui che, in Cristo, ci rende figli a partire dalla sua paternità (cfr Ef 3,14-16).

Questo implica un processo di benedizione e di liberazione, che sono il riposo vero, autentico. Come dice il Salmo: «Solo in Dio riposa l’anima mia: da lui la mia salvezza» (Sal 62,2).

Questa vita liberata diventa accoglienza della nostra storia personale e ci riconcilia con ciò che, dall’infanzia al presente, abbiamo vissuto, facendoci adulti e capaci di dare il giusto peso alle realtà e alle persone della nostra vita. Per questa strada entriamo nella relazione con il prossimo che, a partire dall’amore che Dio mostra in Gesù Cristo, è una chiamata alla bellezza della fedeltà, della generosità e della autenticità.

Ma per vivere così – cioè nella bellezza della fedeltà, della generosità e dell’autenticità – abbiamo bisogno di un cuore nuovo, inabitato dallo Spirito Santo (cfr Ez 11,19; 36,26). Io mi domando: come avviene questo “trapianto” di cuore, dal cuore vecchio al cuore nuovo? Attraverso il dono di desideri nuovi (cfr Rm 8,6) che vengono seminati in noi dalla grazia di Dio, in modo particolare attraverso i Dieci Comandamenti portati a compimento da Gesù, come Lui insegna nel “discorso della montagna” (cfr Mt 5,17-48). Infatti, nella contemplazione della vita descritta dal Decalogo, ossia un’esistenza grata, libera, autentica, benedicente, adulta, custode e amante della vita, fedele, generosa e sincera, noi, quasi senza accorgercene, ci ritroviamo davanti a Cristo. Il Decalogo è la sua “radiografia”, lo descrive come un negativo fotografico che lascia apparire il suo volto – come nella sacra Sindone. E così lo Spirito Santo feconda il nostro cuore mettendo in esso i desideri che sono un dono suo, i desideri dello Spirito. Desiderare secondo lo Spirito, desiderare al ritmo dello Spirito, desiderare con la musica dello Spirito.

Guardando a Cristo vediamo la bellezza, il bene, la verità. E lo Spirito genera una vita che, assecondando questi suoi desideri, innesca in noi la speranza, la fede e l’amore.

Così scopriamo meglio cosa significhi che il Signore Gesù non è venuto per abolire la legge ma per dare compimento, per farla crescere, e mentre la legge secondo la carne era una serie di prescrizioni e di divieti, secondo lo Spirito questa stessa legge diventa vita (cfr Gv 6,63; Ef 2,15), perché non è più una norma ma la carne stessa di Cristo, che ci ama, ci cerca, ci perdona, ci consola e nel suo Corpo ricompone la comunione con il Padre, perduta per la disobbedienza del peccato. E così la negatività letteraria, la negatività nell’espressione dei comandamenti – “non rubare”, “non insultare”, “non uccidere” – quel “non” si trasforma in un atteggiamento positivo: amare, fare posto agli altri nel mio cuore, tutti desideri che seminano positività. E questa è la pienezza della legge che Gesù è venuto a portarci.

In Cristo, e solo in Lui, il Decalogo smette di essere condanna (cfr Rm 8,1) e diventa l’autentica verità della vita umana, cioè desiderio di amore – qui nasce un desiderio del bene, di fare il bene – desiderio di gioia, desiderio di pace, di magnanimità, di benevolenza, di bontà, di fedeltà, di mitezza, dominio di sé. Da quei “no” si passa a questo “sì”: l’atteggiamento positivo di un cuore che si apre con la forza dello Spirito Santo.

Ecco a che cosa serve cercare Cristo nel Decalogo: a fecondare il nostro cuore perché sia gravido di amore, e si apra all’opera di Dio. Quando l’uomo asseconda il desiderio di vivere secondo Cristo, allora sta aprendo la porta alla salvezza, la quale non può che arrivare, perché Dio Padre è generoso e, come dice il Catechismo, «ha sete che noi abbiamo sete di lui» (n. 2560).

Se sono i desideri malvagi che rovinano l’uomo (cfr Mt 15,18-20), lo Spirito depone nel nostro cuore i suoi santi desideri, che sono il germe della vita nuova (cfr 1 Gv 3,9). La vita nuova infatti non è il titanico sforzo per essere coerenti con una norma, ma la vita nuova è lo Spirito stesso di Dio che inizia a guidarci fino ai suoi frutti, in una felice sinergia fra la nostra gioia di essere amati e la sua gioia di amarci. Si incontrano le due gioie: la gioia di Dio di amarci e la nostra gioia di essere amati.

Ecco cos’è il Decalogo per noi cristiani: contemplare Cristo per aprirci a ricevere il suo cuore, per ricevere i suoi desideri, per ricevere il suo Santo Spirito.

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Saluti:
...

Rivolgo un cordiale benvenuto ai pellegrini di lingua italiana.
...

Un pensiero particolare rivolgo ai giovani, agli anziani, agli ammalati e agli sposi novelli.

Domenica prossima inizieremo il tempo liturgico dell’Avvento. Prepariamo i nostri cuori ad accogliere Gesù Salvatore; riconosciamo nel Natale l’incontro del Cristo con l’umanità, soprattutto quella che ancora oggi vive ai margini della società, nel bisogno e nella sofferenza, e nelle tante guerre.


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Rapporto Sbilanciamoci! 2019 - Come usare la spesa pubblica per i diritti, la pace e l’ambiente - 101 proposte per un cambiamento vero

Rapporto Sbilanciamoci! 2019
Come usare la spesa pubblica per i diritti, la pace e l’ambiente
101 proposte per un cambiamento vero

La Campagna Sbilanciamoci! ha presentato il 27 novembre in un affollato evento a Roma presso la Sala Nilde Iotti della Camera dei Deputati la sua “Controfinanziaria”, giunta alla ventesima edizione.
Il Rapporto di Sbilanciamoci!, intitolato “Come usare la spesa pubblica per i diritti, la pace e l’ambiente”, come ogni anno esamina in dettaglio il Disegno di Legge di Bilancio 2019 e delinea una manovra economica alternativa articolata in sette aree chiave di analisi e intervento. Dal fisco e la finanza al lavoro e al reddito, dall’istruzione e la cultura all’ambiente, dal welfare all’altraeconomia, passando per la pace e la cooperazione internazionale: proposte puntuali e praticabili da subito per contrastare le disuguaglianze e garantire giustizia, diritti e sostenibilità all’Italia.

Come usare la spesa pubblica per i diritti, la pace e l’ambiente

Il nostro Rapporto 2019 contiene la Legge di Bilancio che vorremmo, quella del cambiamento, ma quello vero.

Con le 101 proposte che abbiamo elaborato, delineiamo una diversa idea di economia, di spesa pubblica, di modello di sviluppo. Sbilanciamoci! ritiene necessario cambiare pagina, un salto di paradigma, un’inversione di rotta rispetto alle politiche neoliberiste di questi anni. Bisogna rimettere al centro la politica, le politiche. Servono investimenti pubblici per consumi e produzioni legate alla green economy e ai nuovi bisogni sociali, capaci di produrre qualità sociale ed eguaglianza.

Per questo sono fondamentali politiche redistributive che intacchino privilegi, rendite di posizione, ricchezze abnormi. Il welfare non è un costo, è un diritto ed è un investimento. Una società più istruita, formata e sana esprime anche un’economia più innovativa e capace di futuro. Abbiamo bisogno di una radicale riconversione ecologica e civile dell’economia. Dobbiamo eliminare i sussidi ambientali dannosi e ridurre drasticamente le spese militari.

Tutto questo non è il “libro dei sogni”. Lo dimostriamo con la nostra contromanovra di bilancio da 38,5 miliardi di euro a saldo zero e le nostre 101 proposte specifiche, concrete e dettagliate. Si può fare: questa è la strada del vero cambiamento...

Le alternative di Sbilanciamoci!: 101 proposte per un vero cambiamento

La Legge di Bilancio 2019-2021 del Governo è un’occasione mancata, un testo che di certo non rappresenta la “manovra del cambiamento”. Tra luci, ombre e molte contraddizioni si è persa un’occasione per voltare pagina rispetto all’obiettivo di mettere i mattoni di un modello di sviluppo fondato sull’ambiente, la pace e i diritti.

La nostra Legge di Bilancio vale 38,851 miliardi di euro. Non aumentiamo l’indebitamento, né il rapporto deficit-Pil, sterilizziamo le clausole di salvaguardia. Troviamo risorse con una politica di giustizia fiscale (Tobin e Digital Tax, patrimoniale, rimodulazione in senso progressivo dell’Irpef) che fa entrare nelle casse dello Stato poco più di 24,5 miliardi di euro e che permette di ridurre le tasse ai due scaglioni più bassi di reddito, dove sono concentrati i lavoratori con più bassi salari e del ceto medio.

La nostra spending review parte dalla riduzione delle spese militari (4,2 miliardi di euro) e dall’abrogazione delle agevolazioni per le scuole private (337 milioni). Proponiamo da un lato di raddoppiare gli investimenti pubblici (fino a 7 miliardi) per far ripartire l’economia e creare lavoro, e dall’altro una forma di sostegno al reddito (quasi 7 miliardi) con caratteristiche diverse dal cosiddetto “reddito di cittadinanza” del Governo.

Avanziamo misure alternative sulle pensioni rispetto a “Quota 100”: riduzione strutturale dell’età di pensionamento, attenzione alle pensioni dei giovani. Proponiamo 4 miliardi di euro per la scuola e l’università (diritto allo studio, offerta formativa, edilizia scolastica) e quasi 600 milioni per le politiche culturali, abrogando la misura spot del “Bonus Cultura”.

Chiediamo un grande piano di opere utili per l’ambiente: messa in sicurezza del territorio, prevenzione antisismica, lotta all’abusivismo.

Vogliamo un welfare dei diritti: non bonus bebè, ma asili nido pubblici (500 milioni). Proponiamo di aumentare il Fondo politiche sociali di 900 milioni e l’abolizione del superticket. Serve un impegno più forte sui temi della disabilità e per questo chiediamo uno stanziamento di 280 milioni per il supporto dei caregiver familiari e maggiori risorse per progetti individuali che assicurino una maggiore autonomia delle persone con disabilità.

Contro la criminalizzazione dei migranti e della solidarietà proponiamo un fondo aggiuntivo di 400 milioni di euro per l’accoglienza. Per le politiche abitative sosteniamo un piano di 1,1 miliardi per abitazioni sociali senza consumo di suolo. Insieme a tutto questo proponiamo tante specifiche misure per l’economia solidale e solidale, 1,5 miliardi per la cooperazione allo sviluppo e 252 milioni per il servizio civile.

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mercoledì 28 novembre 2018

29 novembre, giornata di digiuno e di preghiera comunitaria per la terra dei fuochi


29 novembre, giornata di digiuno e di preghiera comunitaria per la terra dei fuochi

Pubblichiamo la lettera dei vescovi di Caserta, Acerra, Nola e Aversa: “Preoccupazione per il continuo degrado, preghiera e impegno dei cristiani per un atto di conversione”

DIOCESI di CASERTA
DIOCESI di ACERRA
DIOCESI di NOLA
DIOCESI di AVERSA

Carissimi fratelli e sorelle,
nella carità che ci unisce perché figli dell’unico Padre, noi, chiamati, per grazia di Dio, ad essere Vescovi per annunciare il Vangelo del Cristo e per celebrare e vivere con tutti voi la grazia e la misericordia di Dio, vi scriviamo condividendo, oggi, grande preoccupazione per il continuo degrado della nostra terra.
Questo nostro scritto è stato, purtroppo, sollecitato dai recenti, gravissimi incendi che ci sono stati in questi ultimi mesi proprio nei luoghi che erano stati adibiti alla raccolta, allo stoccaggio e, in qualche modo, già al trattamento dei rifiuti.
Abbiamo appreso e seguiamo con attenzione l’attività e l’impegno che le autorità di governo, sia locale che regionale e nazionale, stanno ancora rivolgendo al problema ed alle sue cause per cercare una soluzione efficace.
Come Chiesa campana, con il coinvolgimento di tante persone, in tempi ancora recenti, abbiamo richiamato l’attenzione dei cittadini e delle autorità sulla gravità dell’inquinamento ambientale della nostra terra e sulla drammaticità delle sue ricadute sulla salute e sulla vita della nostra gente. Con grande dispiacere, abbiamo dovuto sopportare che la nostra terra, da sempre identificata come l’antica, splendida “Campania felix”, sia stata, ora, indicata come “terra dei fuochi”.
Non si può negare che in questi anni ci sia stato un positivo e notevole impegno di Associazioni di cittadini, di Sacerdoti e Comunità parrocchiali, di Sindaci e Consigli comunali, di Medici e Ricercatori, di Operatori della comunicazione, delle Forze dell’ordine, di Vigili del fuoco, di tanti che in vario modo hanno testimoniato una viva sensibilità ed attenzione all’importanza della vita e del bene comune e si sono mostrati responsabili promotori di una nuova cultura di partecipazione sociale.
L’entità degli incendi di rifiuti che sono stati registrati in questi ultimi tempi, con le gravi conseguenze che ne ricadono sulla salute umana, unitamente al perdurare di intollerabili situazioni di degrado ambientale ci chiamano ancora una volta ad invitare la comunità cristiana a testimoniare la verità della fede, a riconoscere che la terra e la vita sono un dono che la sapienza luminosa del Creatore ci ha offerto e ci ha affidato.
Papa Francesco ha spiegato che la fede dona sapienza nuova alla vita della società umana, e ha scritto: “La fede, nel rivelarci l’amore di Dio Creatore, ci fa rispettare maggiormente la natura, facendoci riconoscere in essa una grammatica da Lui scritta e una dimora a noi affidata perché sia coltivata e custodita; ci aiuta a trovare modelli di sviluppo che non si basino solo sull’utilità e sul profitto, ma che considerino il creato come dono di cui tutti siamo debitori…”. (Lumen fidei 55)

Carissimi,
di fronte a tante gravi forme di inquinamento e di maltrattamento della “nostra madre terra”, come diceva S. Francesco d’Assisi, avvertiamo un terribile senso di impotenza, di incapacità a fermare la mano di chi inquina o incendia rifiuti. C’è il forte rischio che davanti al male, che agisce nelle tenebre, si rimanga indifferenti, abituati, rassegnati.
Come insegna ancora Papa Francesco citando il Patriarca Bartolomeo I, noi vogliamo annunziare “che un crimine contro la natura è un crimine contro noi stessi e un peccato contro Dio” (Laudato Sì, 8), e siamo chiamati a testimoniare che solo cambiando l’atteggiamento dell’umanità verso la natura, imparando a non considerarla come qualcosa da usare solo per soddisfare il proprio egoismo, ma che, al contrario, attraverso di essa siamo invitati a conoscere a dialogare con Dio, a saper scegliere l’essenziale, a valorizzare la bellezza e la bontà di ogni creatura e a riconoscere la dignità della persona umana. Per questo il Papa ci invita ad un cammino di conversione, a “passare dal consumo al sacrificio, dall’avidità alla generosità, dallo spreco alla capacità di condividere… È un modo di amare, di passare gradualmente da ciò che io voglio a ciò di cui ha bisogno il mondo di Dio. È liberazione dalla paura, dall’avidità e dalla dipendenza” (Laudato Sì, 9).

Illuminati da questo insegnamento, nello stile proprio dei cristiani, vogliamo far sentire a tutta la nostra società la voce potente dei figli di Dio che chiedono rispetto per la terra e vogliono offrire amore e fraternità a tutta l’umanità. Per questo non scenderemo in piazza a protestare contro qualcuno, non alzeremo il volume di roboanti strumenti di amplificazione, ma semplicemente vorremo dedicare, offrire una giornata di digiuno e di preghiera, di penitenza e di ascolto della Parola di Dio.
Il silenzioso digiuno dei cristiani e l’intensità della preghiera comune vorranno essere un atto di conversione, di riparazione per i peccati commessi contro la bellezza e la bontà della natura che Dio ci ha donato, e speriamo possa coinvolgere ed essere come un’onda lunga, che parte da lontano per arrivare ad immergere in sé ogni scoglio e ciò che trova sul suo cammino.
A ciascuno dei fratelli e sorelle cui arriverà questa nostra lettera affidiamo l’impegno di diffonderla mediante tutti gli strumenti possibili, affinché tanti possano partecipare alla giornata di digiuno e di preghiera per la nostra conversione ad amare e rispettare la natura e perché si abbia cura dell’ambiente e si possa veramente conoscere ed amare Dio in ogni sua creatura.
Invitiamo tutte le Comunità parrocchiali e religiose, le Associazioni, i Movimenti e tutti i cristiani a vivere nella giornata di GIOVEDI 29 NOVEMBRE 2018 una GIORNATA DI DIGIUNO che possa culminare a sera in un momento di PREGHIERA COMUNITARIA .

Grati per la comunione nella preghiera e nella fraternità, cordialmente invochiamo su tutti la benedizione del Signore che ama la vita.

I vostri Vescovi
+ Giovanni D’Alise
+ Antonio Di Donna
+ Angelo Spinillo
+ Francesco Marino



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Don Maurizio Patriciello, parroco di Caivano, ospite di Lucia Ascione a Bel tempo si spera spiega il senso della Giornata di digiuno e preghiera per la Terra dei fuochi, in programma per il 29 novembre: "Ogni lacrima non andrà perduta - dice don Maurizio - neanche una sola lacrima andrà perduta, perché il Signore raccoglie nei suoi otri queste lacrime di sofferenza e le trasforma in diamanti che dureranno per l'eternità".


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Girare in lungo e largo, da molti anni, la Terra dei fuochi (due milioni di abitanti a sud di Caserta e nord di Napoli) mostra come non sia cambiato granché nell’ultimo decennio. Si sversano o sotterrano meno rifiuti tossici e s’accendono meno roghi, è vero, in qualche caso evidente, ma questa specie d’inferno non è esaurito. Annota la Direzione nazionale antimafia, nel capitolo sui "Crimini ambientali" della sua ultima Relazione di un anno e mezzo fa, che «il sistema della gestione dei rifiuti in campo nazionale si è sempre basato e continua a basarsi sulla commistione di attività legali ed illegali».
Leggi tutto il Reportage di Pino Ciociola in Avvenire: Terra dei fuochi, in Campania nulla è cambiato

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