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giovedì 30 giugno 2022

Intenzione di preghiera per il mese di Luglio 2022 Preghiamo per gli anziani.

Intenzione di preghiera per il mese di Luglio 2022

Preghiamo per gli anziani.


Questo mese, il Papa ci parla in prima persona per trasmetterci la sua intenzione di preghiera: si sente parte, infatti, degli anziani che non sono mai stati “tanto numerosi nella storia dell'umanità”. Agli anziani, ci dice Francesco, la società offre “molti progetti di assistenza, ma pochi progetti di esistenza”, dimenticando il grande contributo che possono apportare. “Sono il pane che alimenta le nostre vite, sono la saggezza nascosta di un popolo”, aggiunge il Papa, invitando a “festeggiarli” nella “giornata dedicata a loro”: la Giornata Mondiale dei Nonni e degli Anziani. 
Condividere questo video è un modo per ringraziarli per tutto quello che sono e che fanno nelle nostre famiglie. 

Guarda il video


Il testo in italiano del videomessaggio del Papa

Non possiamo parlare della famiglia senza parlare dell'importanza che hanno gli anziani tra noi. 

Non siamo mai stati tanto numerosi nella storia dell'umanità,
ma non sappiamo bene come vivere questa nuova tappa della vita:
per la vecchiaia ci sono molti progetti di assistenza, ma pochi progetti di esistenza. 

Noi persone anziane abbiamo spesso una sensibilità speciale 
per la cura, per la riflessione e per l'affetto. 

Siamo, o possiamo diventare, maestri della tenerezza. E quanto!

Abbiamo bisogno, in questo mondo abituato alla guerra, di una vera rivoluzione della tenerezza.
In questo abbiamo una grande responsabilità nei confronti delle nuove generazioni.

Ricordiamolo: i nonni e gli anziani sono il pane che alimenta le nostre vite,
sono la saggezza nascosta di un popolo: per questo è bello festeggiarli,
e ho istituito una giornata dedicata a loro. 

Preghiamo per gli anziani, che si convertano in maestri di tenerezza,
perché la loro esperienza e la loro saggezza aiutino i più giovani 
a guardare al futuro con speranza e responsabilità.


3 milioni di passi per ripercorrere dopo 300 anni le strade percorse da Sant’Antonio in Italia da Milazzo a Padova

3 milioni di passi per ripercorrere dopo 300 anni
le strade percorse da Sant’Antonio in Italia
da Milazzo a Padova

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A piedi «sui passi» di sant'Antonio
1800 chilometri da Milazzo a Padova


Uno dopo l’altro al termine saranno oltre tre milioni di passi, per un totale di 1.800 chilometri percorsi. Partenza domani (30/06/2022) da Capo Milazzo, in provincia di Messina, là dove nella primavera 1221 spiaggiò Antonio, quello che sarebbe poi diventato il santo dei miracoli, dottore della Chiesa, grande oratore. Una partenza anticipata in questi giorni (26-29 giugno) da un “pre-cammino”, dal sapore del Festival antoniano, a Milazzo. Arrivo a Padova, alla Basilica che ne conserva il corpo, il 9 ottobre. In totale 103 giorni di cammino inframmezzati da alcune domeniche di sosta, com’era solito per i pellegrini medievali. ...

Continua a leggere l'articolo da Avvenire 

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1222-2022

800 anni dalla svolta francescana di Antonio, 800 anni dal suo naufragio in Sicilia, 800 anni dal suo primo abbraccio con San Francesco d’Assisi.

Un triplice anniversario importante, in cui ripercorrere assieme la storia dell’uomo rimasto nel cuore di tutti, conosciuto in ogni angolo del mondo con il nome di Sant’Antonio di Padova.


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3 milioni di passi

Il cammino del 2021 e 2022 viene percorso da un gruppo ristretto di pellegrini in 108 tappe, per un totale di 2180 chilometri a piedi da colmare con oltre 3 milioni di passi lungo le strade percorse da Sant’Antonio in Italia.

Di volta in volta altri camminatori possono aggiungersi anche per brevi tratti e tutti possono coinvolgersi negli eventi religiosi e culturali di arrivo tappa.

Vogliamo trasformare i chilometri che percorriamo dal 30 giugno al 9 ottobre in un aiuto concreto: scopri le tappe della staffetta e adotta un chilometro virtuale, ci aiuterai a sostenere le persone assistite da Caritas Antoniana.


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Da Capo Milazzo a Padova, 30 giugno – 9 ottobre 2022

Oltre 1.800 chilometri separano il luogo dello spiaggiamento di frate Antonio di Lisbona dalla sua città di elezione, Padova. Quest’estate, a 800 anni dal suo primo arrivo in Italia e dalla predica di Forlì che lo rivelò come grande annunciatore del Vangelo, la staffetta del «Progetto Antonio 20-22» ripercorrerà a piedi i suoi passi attraversando tutta l’Italia, in 93 tappe di cammino da Capo Milazzo fino alla «sua» Basilica, a Padova. Chiunque può affiancarsi lungo il cammino, per condividere qualche chilometro o qualche tappa dell’impresa.



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Sant'Antonio un naufrago innamorato di Cristo 
che sceglie di ripartire

A Capo Milazzo, in attesa di iniziare il nostro cammino, con fra Giovanni Milani, responsabile Peregrinatio delle Reliquie di sant'Antonio, rileggiamo il naufragio di sant'Antonio alla luce della sua volontà di ripartire, innamorato di Cristo.



ANDREA TORNIELLI L’incontro con Gesù vivo nella comunità che celebra - “Desiderio desideravi” Lettera apostolica di Papa Francesco

“Desiderio desideravi” 
Lettera apostolica di Papa Francesco

ANDREA TORNIELLI
L’incontro con Gesù vivo nella comunità che celebra

Ogni paragrafo del nuovo documento di Francesco è pervaso dalla consapevolezza che la liturgia è innanzitutto lasciare spazio a un Altro: qui sta il vero antidoto a ogni forma di celebrazione inadeguata


Una preghiera insieme (Vatican Media)

All’origine della Lettera apostolica di Francesco c’è il desiderio che tutto il popolo di Dio, a partire dai celebranti, riscopra la bellezza e lo stupore di fronte alla liturgia, lasciando che sia la liturgia stessa a “formare” coloro che vi partecipano, immergendoli in quello che il Papa definisce “l’oceano di grazia che inonda ogni celebrazione”.

Una qualche anticipazione del documento papale, pubblicato nel giorno della festa dei santi Pietro e Paolo, lo si può ritrovare nella “ponenza” che l’allora cardinale arcivescovo di Buenos Aires fece alla plenaria del Dicastero per il Culto Divino, il 1° marzo 2005. In quella occasione, parlando dell’arte di celebrare, Jorge Mario Bergoglio suggeriva l’importanza di “recuperare lo stupore davanti al mistero” e auspicava la pubblicazione di testo che non fosse un trattato giuridico o disciplinare, zeppo di norme e rubriche; e nemmeno un trattato sugli abusi liturgici. Chiedeva invece un documento dal “tono pastorale e spirituale, anzi meditativo”.

Con “Desiderio desideravi” in qualche modo si compie quell’auspicio. Nella Lettera apostolica il Successore di Pietro accompagna attraverso un percorso che va al cuore della celebrazione liturgica, che è al tempo stesso “il culmine verso cui tende l’azione della Chiesa” e “la fonte da cui promana tutta la sua energia”, come insegna il Concilio Ecumenico Vaticano II. Molto citato nel testo è Romano Guardini, teologo italiano naturalizzato tedesco, particolarmente caro anche a Benedetto XVI.

Ogni paragrafo del nuovo documento di Francesco è pervaso dalla consapevolezza che la liturgia è innanzitutto lasciare spazio a un Altro. Scrive il Papa: “Prima della nostra risposta al suo invito – molto prima – c’è il suo desiderio di noi: possiamo anche non esserne consapevoli, ma ogni volta che andiamo a Messa la ragione prima è perché siamo attratti dal suo desiderio di noi. Da parte nostra, la risposta possibile, l’ascesi più esigente, è, come sempre, quella dell’arrendersi al suo amore, del volersi lasciare attrarre da lui”.

E poco più avanti, Francesco aggiunge: “Se fossimo giunti a Gerusalemme dopo la Pentecoste e avessimo sentito il desiderio non solo di avere informazioni su Gesù di Nazareth, ma di poterlo ancora incontrare, non avremmo avuto altra possibilità se non quella di cercare i suoi per ascoltare le sue parole e vedere i suoi gesti, più vivi che mai. Non avremmo avuto altra possibilità di un incontro vero con Lui se non quella della comunità che celebra”.

Ripartire da questa consapevolezza, riscoprendo la bellezza della liturgia, aprendoci alla formazione e lasciandoci formare da essa, può aiutare a sgombrare il campo da tante inadeguatezze. Se partecipare alla celebrazione significa “ascoltare le parole” di Gesù e “vedere i suoi gesti, più vivi che mai”, non possono prevalere il protagonismo narcisista del celebrante, la spettacolarizzazione, la rigidità austera o la sciatteria e la banalizzazione. E la liturgia “fonte e culmine” non può trasformarsi nel terreno di scontro dove si cerca di far passare una visione di Chiesa che non accoglie quanto stabilito sinodalmente dal Concilio Ecumenico Vaticano II.
(fonte: Vatican News 29/06/2022)


mercoledì 29 giugno 2022

«Il cammino di fede non è mai una passeggiata, per nessuno, né per Pietro né per Paolo, per nessuno» Papa Francesco Angelus 29/06/2022 (testo e video)

SOLENNITÀ DEI SANTI APOSTOLI PIETRO E PAOLO

PAPA FRANCESCO

ANGELUS

Piazza San Pietro
Mercoledì, 29 giugno 2022


Cari fratelli e sorelle!

Il Vangelo della Liturgia odierna, solennità dei Santi Patroni di Roma, riporta le parole che Pietro rivolge a Gesù: «Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente» (Mt 16,16). È una professione di fede, che Pietro pronuncia non sulla base della sua comprensione umana, ma perché Dio Padre gliel’ha ispirata (cfr v. 17). Per il pescatore Simone, detto Pietro, fu l’inizio di un cammino: dovrà in effetti passare molto tempo prima che la portata di quelle parole entri a fondo nella sua vita, coinvolgendola interamente. C’è un “apprendistato” della fede, che ha riguardato anche gli apostoli Pietro e Paolo, simile a quello di ognuno di noi. Anche noi crediamo che Gesù è il Messia, il Figlio del Dio vivente, ma occorrono tempo, pazienza e tanta umiltà perché il nostro modo di pensare e di agire aderisca pienamente al Vangelo.

Di questo, l’apostolo Pietro fece esperienza immediatamente. Proprio dopo aver dichiarato a Gesù la propria fede, quando Lui annuncia che dovrà soffrire ed essere condannato a morte, rifiuta questa prospettiva, che considera incompatibile con il Messia. Si sente addirittura in dovere di rimproverare il Maestro, il quale a sua volta lo apostrofa: «Va’ dietro a me, Satana! Tu mi sei di scandalo, perché non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini!» ( v. 23).

Pensiamoci: non succede lo stesso anche a noi? Noi ripetiamo il Credo, lo diciamo con fede; ma davanti alle prove dure della vita sembra che tutto vacilli. Siamo portati a protestare col Signore, dicendogli che non è giusto, che ci devono essere altre vie, più diritte, meno faticose. Viviamo la lacerazione del credente, che crede in Gesù, si fida di Lui; ma nello stesso tempo sente che è difficile seguirlo ed è tentato di cercare strade diverse da quelle del Maestro. San Pietro ha vissuto questo dramma interiore, ed ha avuto bisogno di tempo e di maturazione. All’inizio inorridiva al pensiero della croce; ma alla fine della vita testimoniò il Signore con coraggio, fino al punto di farsi crocifiggere – secondo la tradizione – a testa ingiù, per non essere uguale al Maestro.

Anche l’apostolo Paolo ha il proprio percorso, anche lui è passato attraverso una lenta maturazione della fede, sperimentando momenti di incertezza e di dubbio. L’apparizione del Risorto sulla via di Damasco, che da persecutore lo rese cristiano, va vista come l’avvio di un percorso durante il quale l’Apostolo ha fatto i conti con le crisi, i fallimenti e i continui tormenti di quella che chiama “spina nella carne” (cfr 2 Cor 12,7). Il cammino di fede non è mai una passeggiata, per nessuno, né per Pietro né per Paolo, per nessun cristiano. Il cammino di fede non è una passeggiata, ma è impegnativo, a volte arduo: anche Paolo, divenuto cristiano, dovette imparare ad esserlo fino in fondo in maniera graduale, soprattutto attraverso i momenti di prova.

Alla luce di questa esperienza dei santi apostoli Pietro e Paolo, ognuno di noi può domandarsi: quando professo la mia fede in Gesù Cristo, il Figlio di Dio, lo faccio con la consapevolezza di dover sempre imparare, oppure presumo di “aver già capito tutto”? E ancora: nelle difficoltà e nelle prove mi scoraggio, mi lamento, oppure imparo a farne occasione per crescere nella fiducia verso il Signore? Egli infatti – scrive Paolo a Timoteo – ci libera da ogni male e ci porta in salvo nei cieli (cfr 2 Tm 4,18). La Vergine Maria, Regina degli Apostoli, ci insegni ad imitarli avanzando giorno per giorno nella via della fede.

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Dopo l'Angelus

Porto ogni giorno nel cuore la cara e martoriata Ucraina, che continua ad essere flagellata da barbari attacchi, come quello che ha colpito il centro commerciale di Kremenchuk. Prego perché questa folle guerra possa vedere presto la fine, e rinnovo l’invito a perseverare, senza stancarsi, nella preghiera per la pace: che il Signore apra quelle vie di dialogo che gli uomini non vogliono o non riescono a trovare! E non trascuriamo di soccorrere la popolazione ucraina, tanto sofferente.

In questi giorni, a Roma, sono scoppiati diversi incendi, favoriti dalle temperature molto alte, mentre in tanti luoghi la siccità rappresenta ormai un problema grave, che sta causando seri danni alle attività produttive e all’ambiente. Auspico che si attuino le misure necessarie a fronteggiare queste urgenze e a prevenire le emergenze future. Tutto questo deve farci riflettere sulla tutela del creato, che è responsabilità nostra, di ciascuno di noi. Non è una moda, è una responsabilità: il futuro della terra è nelle nostre mani e con le nostre decisioni!

Oggi viene distribuito qui in piazza il primo numero de “L’Osservatore di strada”, il nuovo mensile de “L’Osservatore Romano”. In questo giornale gli ultimi diventano protagonisti: infatti, persone povere ed emarginate partecipano al lavoro di redazione, scrivendo, lasciandosi intervistare, illustrando le pagine di questo mensile, che viene offerto gratuitamente. Se qualcuno vuole dare qualcosa la può dare volontariamente, ma prendetelo liberamente perché è un bel lavoro che viene dalla base, dai poveri, come espressione di quelli che sono emarginati.


In questa festa dei santi apostoli Pietro e Paolo, Patroni principali di Roma, formulo i miei auguri ai romani e a quanti soggiornano in questa città, auspicando che tutti possano trovare in essa un’accoglienza decorosa e degna della sua bellezza. Roma è bella!

Rinnovo la mia gratitudine alla Delegazione del Patriarcato Ecumenico di Costantinopoli, inviata da Sua Santità Bartolomeo, caro fratello, e invio a Lui un cordiale e fraterno saluto.

Saluto con affetto i pellegrini venuti per festeggiare gli Arcivescovi Metropoliti, per i quali stamattina ho benedetto i Palli.

Saluto tutti voi, cari pellegrini, in particolare quelli provenienti dagli Stati Uniti d’America e dalla Repubblica Ceca, da Berlino e da Londra. Saluto i ragazzi della Cresima di Barbara, presso Ancona, e quelli del Grest di Zagarolo; come pure i partecipanti al pellegrinaggio partito da Aquileia e promosso dall’Associazione Europea Romea Strata e saluto i ragazzi dell’Immacolata.

A tutti auguro una buona festa. Per favore, non dimenticatevi di pregare per me. Buon pranzo e arrivederci!

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«E qui mi vengono in mente due domande. La prima è: cosa posso fare io per la Chiesa? ... la seconda domanda è: cosa possiamo fare insieme, come Chiesa, per rendere il mondo in cui viviamo più umano, più giusto, più solidale, più aperto a Dio e alla fraternità tra gli uomini?» Papa Francesco Omelia 29/06/2022 (testo e video)

SANTA MESSA E BENEDIZIONE DEI PALLI PER I NUOVI ARCIVESCOVI METROPOLITI
NELLA SOLENNITÀ DEI SANTI APOSTOLI PIETRO E PAOLO

OMELIA DEL SANTO PADRE FRANCESCO

Basilica di San Pietro
Mercoledì, 29 giugno 2022



La testimonianza dei due grandi Apostoli Pietro e Paolo rivive oggi nella Liturgia della Chiesa. Al primo, fatto incarcerare dal re Erode, l’angelo del Signore dice: «Alzati, in fretta» (At 12,7); il secondo, riassumendo tutta la sua vita e il suo apostolato dice: «Ho combattuto la buona battaglia» (2 Tm 4,7). Guardiamo a questi due aspetti – alzarsi in fretta e combattere la buona battaglia – e chiediamoci che cosa hanno da suggerire alla Comunità cristiana di oggi, mentre è in corso il processo sinodale.

Anzitutto, gli Atti degli Apostoli ci hanno raccontato della notte in cui Pietro viene liberato dalle catene della prigione; un angelo del Signore gli toccò il fianco mentre dormiva, «lo destò e disse: Alzati, in fretta» (12,7). Lo sveglia e gli chiede di alzarsi. Questa scena evoca la Pasqua, perché qui troviamo due verbi usati nei racconti della risurrezione: svegliare e alzarsi. Significa che l’angelo risvegliò Pietro dal sonno della morte e lo spinse ad alzarsi, cioè a risorgere, a uscire fuori verso la luce, a lasciarsi condurre dal Signore per superare la soglia di tutte le porte chiuse (cfr v. 10). È un’immagine significativa per la Chiesa. Anche noi, come discepoli del Signore e come Comunità cristiana siamo chiamati ad alzarci in fretta per entrare nel dinamismo della risurrezione e per lasciarci condurre dal Signore sulle strade che Egli vuole indicarci.

Sperimentiamo ancora tante resistenze interiori che non ci permettono di metterci in movimento, tante resistenze. A volte, come Chiesa, siamo sopraffatti dalla pigrizia e preferiamo restare seduti a contemplare le poche cose sicure che possediamo, invece di alzarci per gettare lo sguardo verso orizzonti nuovi, verso il mare aperto. Siamo spesso incatenati come Pietro nella prigione dell’abitudine, spaventati dai cambiamenti e legati alla catena delle nostre consuetudini. Ma così si scivola nella mediocrità spirituale, si corre il rischio di “tirare a campare” anche nella vita pastorale, si affievolisce l’entusiasmo della missione e, invece di essere segno di vitalità e di creatività, si finisce per dare un’impressione di tiepidezza e di inerzia. Allora, la grande corrente di novità e di vita che è il Vangelo – scriveva padre de Lubac – nelle nostre mani diventa una fede che «cade nel formalismo e nell’abitudine, […] religione di cerimonie e di devozioni, di ornamenti e di consolazioni volgari […]. Cristianesimo clericale, cristianesimo formalista, cristianesimo spento e indurito» (Il dramma dell’umanesimo ateo. L’uomo davanti a Dio, Milano 2017, 103-104).

Il Sinodo che stiamo celebrando ci chiama a diventare una Chiesa che si alza in piedi, non ripiegata su se stessa, capace di spingere lo sguardo oltre, di uscire dalle proprie prigioni per andare incontro al mondo, con il coraggio di aprire le porte. Quella stessa notte, c’era un’altra tentazione (cfr At 12,12-17): quella ragazza spaventata, invece di aprire la porta, torna indietro a raccontare delle fantasie. Apriamo le porte. È il Signore che chiama. Non siamo come Rode che torna indietro.

Una Chiesa senza catene e senza muri, in cui ciascuno possa sentirsi accolto e accompagnato, in cui si coltivino l’arte dell’ascolto, del dialogo, della partecipazione, sotto l’unica autorità dello Spirito Santo. Una Chiesa libera e umile, che “si alza in fretta”, che non temporeggia, non accumula ritardi sulle sfide dell’oggi, non si attarda nei recinti sacri, ma si lascia animare dalla passione per l’annuncio del Vangelo e dal desiderio di raggiungere tutti e accogliere tutti. Non dimentichiamo questa parola: tutti. Tutti! Andate all’incrocio delle strade e portate tutti, ciechi, sordi, zoppi, ammalati, giusti, peccatori: tutti, tutti! Questa parola del Signore deve risuonare, risuonare nella mente e nel cuore: tutti, nella Chiesa c’è posto per tutti. E tante volte noi diventiamo una Chiesa dalle porte aperte ma per congedare gente, per condannare gente. Ieri uno di voi mi diceva: “Per la Chiesa questo non è il tempo dei congedi, è il tempo dell’accoglienza”. “Non sono venuti al banchetto…” – Andate all’incrocio. Tutti, tutti! “Ma sono peccatori…” – Tutti!

La seconda Lettura, poi, ci ha riportato le parole di Paolo che, ripercorrendo tutta la sua vita, afferma: «Ho combattuto la buona battaglia» (2 Tm 4,7). L’Apostolo si riferisce alle innumerevoli situazioni, talvolta segnate dalla persecuzione e dalla sofferenza, in cui non si è risparmiato nell’annunciare il Vangelo di Gesù. Ora, alla fine della vita, egli vede che nella storia è ancora in corso una grande “battaglia”, perché molti non sono disposti ad accogliere Gesù, preferendo andare dietro ai propri interessi e ad altri maestri, più comodi, più facili, più secondo la nostra volontà. Paolo ha affrontato il suo combattimento e, ora che ha terminato la corsa, chiede a Timoteo e ai fratelli della comunità di continuare questa opera con la vigilanza, l’annuncio, gli insegnamenti: ciascuno, insomma, compia la missione affidatagli e faccia la sua parte.

È una Parola di vita anche per noi, che risveglia la consapevolezza di come, nella Chiesa, ciascuno sia chiamato ad essere discepolo missionario e a offrire il proprio contributo. E qui mi vengono in mente due domande. La prima è: cosa posso fare io per la Chiesa? Non lamentarsi della Chiesa, ma impegnarsi per la Chiesa. Partecipare con passione e umiltà: con passione, perché non dobbiamo restare spettatori passivi; con umiltà, perché impegnarsi nella comunità non deve mai significare occupare il centro della scena, sentirsi migliori e impedire ad altri di avvicinarsi. Chiesa in processo sinodale significa: tutti partecipano, nessuno al posto degli altri o al di sopra degli altri. Non ci sono cristiani di prima e di seconda classe, tutti, tutti sono chiamati.

Ma partecipare significa anche portare avanti la “buona battaglia” di cui parla Paolo. Si tratta in effetti di una “battaglia”, perché l’annuncio del Vangelo non è neutrale – per favore, che il Signore ci liberi dal distillare il Vangelo per renderlo neutrale: non è acqua distillata il Vangelo –, non lascia le cose come stanno, non accetta il compromesso con le logiche del mondo ma, al contrario, accende il fuoco del Regno di Dio laddove invece regnano i meccanismi umani del potere, del male, della violenza, della corruzione, dell’ingiustizia, dell’emarginazione. Da quando Gesù Cristo è risorto, facendo da spartiacque della storia, «è iniziata una grande batta­glia tra la vita e la morte, tra speranza e disperazione, tra rassegnazione al peggio e lotta per il meglio, una battaglia che non avrà tregua fino alla sconfitta definitiva di tutte le po­tenze dell’odio e della distruzione» (C. M. Martini, Omelia Pasqua di Risurrezione, 4 aprile 1999).

E allora la seconda domanda è: cosa possiamo fare insieme, come Chiesa, per rendere il mondo in cui viviamo più umano, più giusto, più solidale, più aperto a Dio e alla fraternità tra gli uomini? Non dobbiamo certamente chiuderci nei nostri circoli ecclesiali e inchiodarci a certe nostre discussioni sterili. State attenti a non cadere nel clericalismo, il clericalismo è una perversione. Il ministro che si fa clericale con atteggiamento clericale ha preso una strada sbagliata; peggio ancora sono i laici clericalizzati. Stiamo attenti a questa perversione del clericalismo. Aiutiamoci ad essere lievito nella pasta del mondo. Insieme possiamo e dobbiamo porre gesti di cura per la vita umana, per la tutela del creato, per la dignità del lavoro, per i problemi delle famiglie, per la condizione degli anziani e di quanti sono abbandonati, rifiutati e disprezzati. Insomma, essere una Chiesa che promuove la cultura della cura, della carezza, la compassione verso i deboli e la lotta contro ogni forma di degrado, anche quello delle nostre città e dei luoghi che frequentiamo, perché risplenda nella vita di ciascuno la gioia del Vangelo: questa è la nostra “battaglia”, questa è la sfida. Le tentazioni di rimanere sono tante; la tentazione della nostalgia che ci fa guardare altri sono stati tempi migliori, per favore non cadiamo nell’“indietrismo”, questo indietrismo di Chiesa che oggi è alla moda.

Fratelli e sorelle, oggi, secondo una bella tradizione, ho benedetto i Palli per gli Arcivescovi Metropoliti di recente nomina, molti dei quali partecipano alla nostra celebrazione. In comunione con Pietro, essi sono chiamati ad “alzarsi in fretta”, non dormire, per essere sentinelle vigilanti del gregge e, alzati, “combattere la buona battaglia”, mai da soli, ma con tutto il santo Popolo fedele di Dio. E come buoni pastori devono stare davanti al popolo, in mezzo al popolo e dietro al popolo, ma sempre con il santo popolo fedele di Dio, perché loro sono parte del santo popolo fedele di Dio. E di cuore saluto la Delegazione del Patriarcato Ecumenico, inviata dal caro fratello Bartolomeo. Grazie! Grazie per la vostra presenza e del messaggio di Bartolomeo. Grazie, grazie di camminare insieme, perché solo insieme possiamo essere seme di Vangelo e testimoni di fraternità.

Pietro e Paolo intercedano per noi, intercedano per la città di Roma, intercedano per la Chiesa e per il mondo intero. Amen.

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Raniero La Valle - Guerra mondiale con sangue locale

Raniero La Valle
Guerra mondiale con sangue locale


Forse non tutti se ne sono resi conto, ma la guerra in Ucraina ha cambiato natura: se prima era una guerra della Russia contro l’Ucraina, ora è diventata una guerra della NATO contro la Russia. Di questo infatti si tratta, e non solo perché ormai le armi con cui l’Ucraina la combatte non sono più quelle “sovietiche” ereditate dall’URSS, ma quelle “atlantiche” attribuitele dalla NATO, ma anche perché, per tacere di tutte le altre forme di cobelligeranza, i capi della grandi Nazioni dell’Occidente ne hanno preso, insieme a Zelensky, la direzione collegiale. E lo hanno voluto fare nella forma più vistosa: mentre Biden dava il via alla fornitura di armi “pesanti” all’Ucraina e il capo di Stato maggiore americano Milley spiegava che gli alleati occidentali le avevano fornito 97.000 sistemi anti-carro, più di quanti carri esistano al mondo, Draghi, Macron e Scholtz, senza che nessun Parlamento gliene avesse dato mandato, sono andati a Kiew per dire a Zelensky che si mettevano nelle sue mani, sia per la condotta della guerra sia sui tempi ed i modi per mettervi fine; “se vogliamo la pace”, secondo le parole di Draghi, “sarà l’Ucraina a scegliere la pace che vuole” ma non l’Ucraina da sola bensì, “inequivocabilmente” come confermato dalla visita dei tre, anche l’Italia, l’Europa e i loro alleati, che appunto sono l’America e, tutti insieme, la NATO.

Proprio questo però è stato il “casus belli”. Come ha rivelato il papa parlando ai direttori delle riviste culturali dei Gesuiti europei: «Un paio di mesi prima dell’inizio della guerra ho incontrato un capo di Stato, un uomo saggio, che parla poco, davvero molto saggio. E dopo aver parlato delle cose di cui voleva parlare, mi ha detto che era molto preoccupato per come si stava muovendo la NATO. Gli ho chiesto perché, e mi ha risposto: “Stanno abbaiando alle porte della Russia. E non capiscono che i russi sono imperiali e non permettono a nessuna potenza straniera di avvicinarsi a loro”. Ha concluso: “La situazione potrebbe portare alla guerra”. Questa era la sua opinione. Il 24 febbraio è iniziata la guerra. Quel capo di Stato ha saputo leggere i segni di quel che stava avvenendo».

La questione è che il cane della NATO ha i denti atomici. Ma la NATO non è una potenza sovrana, dotata dello “ius ad bellum”. Neanche ai sensi della teoria dello Stato di Hobbes la NATO ha un diritto di guerra, e nemmeno perciò ne risponde; ma se la NATO, al di là dei singoli Paesi che vi appartengono, fa la guerra, vuol dire che l’intero ordine internazionale, pur iniquo com’era, è saltato.

Si può sperare che si tratti di una guerra a intensità limitata, grazie a quanto resta del tabù della bomba atomica, ma si può dire che l’insieme di questi avvenimenti trasforma il conflitto in Ucraina in una guerra mondiale, come Pearl Harbour il 7 dicembre 1941 fu il vero inizio della Seconda. In questo caso si tratta di una guerra mondiale con sangue locale, perché se le armi sono universali, il sangue è delle patrie, ucraini e russi; nessuno si deve illudere però che in questo nuovo corso della guerra anche il sangue non diventi universale.

Il segretario alla Difesa americano ha detto che sarà “una lunga guerra d’attrito”, che è proprio quella che ci vuole per stremare la Russia e metterla al bando come “paria”, come vuole Biden. Il che vuol dire però pensare il mondo come diviso in caste, spezzato da differenze e conflitti irriducibili: al di sopra di tutti sono gli Stati Uniti, come lo sono i brahmani in India, poi c’è la casta dei guerrieri che stabiliscono con la forza i rapporti di dominio, poi la casta dei mercanti, ossia multinazionali fabbricanti d’armi e banchieri e infine gli esclusi, gli intoccabili: non solo la Russia, pensata ancora con il marchio dell’Impero e dei Soviet, ma anche i servi, i poveri, i profughi, i fuggiaschi confinati in condizioni di inferiorità irrimediabili, metafisiche, più numerosi delle stelle nel cielo; cento milioni di migranti quest’anno, quasi sei milioni di poveri assoluti in Italia. Non è solo la fine dell’età moderna, come padre Balducci pensò che fosse la guerra del Golfo. Qui siamo al fallimento della ragione e del diritto, al rovesciamento delle speranze dell’89, al disprezzo del mondo e della storia.

Siamo ancora in tempo per scongiurare questo delitto? L’alternativa a questo crimine è una rifondazione della politica, che la sottragga alla sua cattiva identificazione con la mitologia del nemico, e alla sua sublimazione nel sacrificio delle vittime. Al contrario della ideologia vittimaria, l’unanimità violenta stabilita nel sacrificio delle vittime non è in grado di ricomporre l’unità sociale e di stabilire quel deserto che chiamano pace; le risorse sacrificali sono esaurite, la sola speranza è il ritorno della ragione e la conversione dell’amore.

(fonte: Nuova Atlantide 26/06/2022)

martedì 28 giugno 2022

Giuseppe Savagnone: La guerra che tutti abbiamo già perduto

Giuseppe Savagnone:
La guerra che tutti abbiamo già perduto

Photo by Chuko Cribb on Unsplash

Una guerra senza vincitori

Di solito le guerre hanno dei vinti e dei vincitori. C’è chi dal conflitto esce rafforzato e arricchito, chi, invece, indebolito e impoverito. La guerra in Ucraina resterà alla storia, probabilmente, per avere contraddetto questa logica elementare. Stanno perdendo tutti. O, per meglio dire, stiamo perdendo tutti.

Perché questa guerra la stiamo perdendo – anzi, l’abbiamo già perduta – anche noi che non la facciamo. Certo, i primi a sperimentare i suoi effetti rovinosi sono i due diretti protagonisti, la Russia e l’Ucraina. Loro, per cui avrebbe dovuto valere in modo più evidente il dualismo vincitore-vinto. E invece stanno perdendo entrambi.

Dall’illusione alla cruda realtà

Per quanto riguarda il Paese aggredito, il ruolo di perdente non dovrebbe sorprendere. Era quello che tutti si aspettavano quando l’invasione russa è cominciata, con forze soverchianti, da tutte le direzioni. Eppure c’è stato un momento in cui è sembrato che le facili previsioni dovessero avere una clamorosa smentita.

L’offensiva russa si è impantanata, i mezzi corazzati degli aggressori sono stati distrutti a centinaia, le navi affondate, i soldati uccisi a migliaia. Anche perché si è presto capito che l’esercito ucraino era da tempo addestrato ed armato dagli Stati Uniti, e che adesso stava ricevendo dagli stessi Stati Uniti forniture imponenti di armi modernissime, in grado di far fronte efficacemente all’esercito russo.

Per non parlare dell’appoggio, assai più moderato, ma pur sempre consistente, degli altri Paesi della Nato. Da parte sua, il presidente ucraino Zelensky, con la sua intensissima attività propagandistica e i suoi proclami di imminente vittoria, appariva il simbolo di questa edizione moderna del racconto biblico di Davide e Golia.

Al di là delle vicende militari, l’isolamento totale della Russia sembrava realizzato. I politici occidentali – primo fra tutti il presidente Biden – ripetevano che le sanzioni ne stavano mettendo in ginocchio l’economia e che la sua possibilità materiale di proseguire la guerra aveva i giorni contati.

Queste rosee prospettive si sono rivelate infondate. Dopo i clamorosi errori commessi nelle prime settimane, i russi hanno preso in mano le redini del conflitto, hanno conquistato gran parte del Donbass e proseguono lentamente ma implacabilmente la loro offensiva. In ogni caso, stanno distruggendo tutto quello che riescono a raggiungere.

Sono eloquenti le immagini di centri abitati rasi al suolo, da cui la gente è fuggita – più di cinque milioni di profughi! – , oppure è stata deportata – terribile la notizia dei duecentomila bambini ucraini trasferiti in Russia e proposti in adozione a cittadini russi. Per non parlare del blocco dell’esportazione del grano di cui l’Ucraina era una delle principali produttrici, o della sua sottrazione ad opera degli occupanti. Ma è tutta l’economia che, ovviamente, è andata in crisi.

Comunque finisca questa tragica vicenda, essa rimarrà consegnata alla storia di questo Paese, fino a poco tempo fa prospero, come una catastrofe. Nessuna possibile vittoria militare potrà compensare e riscattare questi costi paurosi.

Un’aggressione suicida

Ma anche dal punto di vista della Russia non si può certo parlare di una vittoria. Questa guerra, scatenata senza preavviso e senza tentare prima adeguate vie diplomatiche, si sta rivelando anche per essa un disastro. Un disastro militare, innanzi tutto, per le enormi perdite umane e materiali subite dal suo esercito: decine di generali e quarantamila soldati uccisi dall’eroica ed efficace resistenza degli ucraini, carri armati e aerei distrutti a centinaia, un incrociatore affondato.

Invece di essere una dimostrazione di forza, come forse se l’immaginava il presidente Putin, questa invasione ha offerto un’immagine desolante delle capacità strategiche e tattiche della famosa Armata Rossa e ne ha depotenziato drasticamente la consistenza. Ma la guerra è, per la Russia, anche e soprattutto un disastro economico.

Le sanzioni non le hanno impedito di continuarla, ma ciò non significa che non abbiano avuto effetto. Per quest’anno si stima una contrazione almeno tra il 10 e il 12,5% del PIL. Dall’inizio di gennaio il rublo è andato a picco, perdendo oltre la metà del suo valore sul dollaro. Per non parlare della fuga di molte grandi multinazionali e dell’esodo di professionisti russi qualificati.

Soprattutto, questo conflitto ha distrutto la fitta rete di ponti umani, politici, economici che, dopo la fine della “guerra fredda”, avevano sempre più strettamente collegato la Russia al mondo occidentale, rendendola una credibile partner a tutti questi livelli, e l’ha irrimediabilmente respinta verso l’Asia, dove Cina ed India sono rimaste le sue grandi interlocutrici e i suoi principali mercati. Un balzo indietro spaventoso, che capovolge un processo di progressiva europeizzazione cominciato nel XVIII secolo con Pietro il Grande.

Quali che siano gli eventuali guadagni territoriali nel Donbass, e ammesso pure che venga conquistata tutta l’Ucraina, il guadagno che Putin potrebbe avere da questa “vittoria di Pirro” sono immensamente inferiori a costi così alti.

I costi degli altri

Ma a pagare i disastri di questa guerra non sono solo i suoi diretti protagonisti. Anche i Paesi della Nato vi si sono trovati di fatto coinvolti . Gli Stati Uniti hanno risposto agli appelli di Zelensky con enormi investimenti – solo l’ultimo è stato di 33 miliardi di dollari! – , seguiti, sia pure con maggiore parsimonia, dagli altri Paesi aderenti.

Soprattutto, però è sempre più chiaro che le sanzioni hanno un effetto boomerang che colpisce anche chi le infligge. Ed era inevitabile, in un sistema economico globalizzato, dove tutti dipendevano da tutti e dove perciò rompere i rapporti con un Paese come la Russia non poteva non ritorcersi drammaticamente oltre che sul destinatario, anche sugli autori di questa rottura.

In primo piano sono i gravissimi danni che stanno subendo e subiranno sempre di più Paesi come la Germania e l’Italia, che dipendevano dalle importazioni di petrolio e di gas russi. Ma in tutta l’Europa è tutto un tessuto di relazioni commerciali, prima fiorenti, che è stato improvvisamente lacerato, senza più prospettive di recupero.

Perché non sarà facile ritornare alla felice situazione pre-bellica. Già per il semplice fatto che gli Stati europei stanno stringendo nuovi contratti, per gli anni venturi, con Paesi produttori di risorse energetiche, come del resto a sua volta sta facendo la Russia con quelli che sono interessati a importare il suo petrolio e il suo gas. Intanto, però, per tedeschi e italiani ci sarà almeno un periodo di vuoto, perché molte delle nuove forniture cominceranno solo fra un anno. E intanto?

Senza dire che alcuni dei nuovi partner commerciali non danno neanche loro un grande affidamento in termini di rispetto dei diritti umani… Basta pensare che uno di essi è quell’Egitto che da anni rifiuta di collaborare con l’Italia per chiarire le responsabilità dei suoi servizi segreti nell’atroce assassinio di Giulio Regeni. Anche aver dovuto sorvolare su questo è una sconfitta.

Ancora più drammatica si profila però la crisi umanitaria che investe tutto il mondo e che appare inevitabile, se il grano ucraino rimarrà bloccato dalla guerra, come sta accadendo. Ci sono 38 Paesi in crisi alimentare che dipendono in maniera totale dal grano russo o ucraino. Tra i più esposti, Yemen, Sudan, Nigeria e Etiopia. Decine di milioni di persone rischiano di morire di fame a causa di questa “guerra commerciale”. Col rischio che molte di loro cerchino la salvezza fuggendo dai loro Paesi per venire in Occidente, travolgendo i nostri già fragili equilibri.

La denuncia di papa Francesco

Gli unici ad aver vinto, in questa guerra, sono i produttori e i mercanti di armi. I fatti stanno confermando in pieno la riflessione fatta da papa Francesco fin dall’inizio del conflitto: «Io mi sono vergognato quando ho letto che un gruppo di Stati si sono compromessi a spendere il 2 per cento del PIL per l’acquisto di armi come risposta a questo che sta accadendo, pazzi!», aveva detto il pontefice.

«La vera risposta non sono altre armi, altre sanzioni, altre alleanze politico-militari, ma un’altra impostazione. Parlo di un modo diverso di governare il mondo, non facendo vedere i denti». Un modo, ha precisato, che non sia «il frutto della vecchia logica di potere che ancora domina la cosiddetta geopolitica» – che è il «potere economico-tecnocratico-militare» – , in base a cui «si continua a governare il mondo come uno “scacchiere”, dove i potenti studiano le mosse per estendere il predominio a danno degli altri».

Si farà strada questa logica, drasticamente alternativa, di fronte alla prova evidente che questo conflitto è un autolesionismo collettivo? Sarebbe bello poterlo sperare. Dobbiamo sperarlo. Se vogliamo evitare che questa guerra, già perduta da tutti, degeneri ulteriormente nel suicidio collettivo di una catastrofe nucleare.
(fonte: Tuttavia 24/06/2022)

lunedì 27 giugno 2022

#STOPTHEWARNOW Una nuova carovana di pace per l'Ucraina

 #STOPTHEWARNOW
Una nuova carovana di pace 
per l'Ucraina


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Carovana a Odessa: dal basso per sognare la pace

Una spiaggia minata ad Odessa (AFP or licensors)

Una nuova spinta dal basso verso le istituzioni e le potenze politiche per dire che la guerra è una sconfitta per tutti. Una nuova testimonianza con la presenza in terra ucraina, sfidando i rischi alti legati ai bombardamenti, una rinnovata volontà trasversale e condivisa dalla Chiesa, dai credenti e dai non credenti, da sindacati e da associazioni della società civile. Tutto questo mette in moto la "Carovana della pace" diretta a Odessa, in Ucraina, organizzata dalla rete della società civile “StoptheWarNow”, guidata dall'Associazione Papa Giovanni XXIII, che raccoglie oltre 175 sigle di associazioni cattoliche e laiche italiane.

A Odessa sono previsti diversi incontri con i rappresentanti delle istituzioni, con personalità religiose, con le associazioni e le famiglie di sfollati provenienti da Mykolaiv, da Kherson e da altre zone colpite dal conflitto. Il 29 giugno, inoltre, è in programma a Chisinau un incontro con monsignor Anton Coşa, arcivescovo cattolico della Moldavia, e con la Caritas locale. Ad accompagnare la carovana, monsignor Francesco Savino, vescovo di Cassano allo Jonio e vicepresidente della Conferenza Episcopale Italiana:


Che cosa vuole dire questa carovana? Quali sono i vostri obiettivi?

Mi piace dire che è l’ora della testimonianza, senza se e senza ma. Senza alcuna presunzione o strumentalizzazione. Vogliamo testimoniare che la guerra non è una soluzione, anzi è desolazione e distruzione e che la pace è possibile, anche quando c'è una testimonianza dal basso, quando cioè le associazioni, le diocesi, le chiese, il mondo organizzato in generale - quella che una volta si chiamava la società civile -, la Chiesa nelle sue articolazioni più belle si mettono insieme. Diciamo che la pace è possibile nella misura in cui anche noi costruiamo una pace dal basso. Noi vogliamo essere lì, essere una forza di interposizione non violenta, secondo la logica del discorso alla montagna “beati i costruttori di pace", e lì vogliamo dire che finché ci sarà la guerra, la corsa al riarmo, finché crederemo nella potenza delle armi e non nella potenza del dialogo, dell'incontro, della cultura, della convivialità delle differenze - come diceva il grande don Tonino Bello alla cui scuola mi sono formato - la pace sarà sempre negata e uccisa, e prevarrà soltanto il rumore della guerra. Siamo lì e vogliamo che il porto di Odessa sia sminato e che le navi ripartano con i cereali e con il grano. Vorrei ricordare a tutti che c'è un popolo di fratelli e sorelle africani - piccoli e anziani, uomini e donne - che sta morendo di fame. Si parla addirittura di 10-15 milioni di fratelli africani affamati. Ora, può essere il cibo anche uno strumento di guerra? Ormai stiamo riportando la lancetta della storia al periodo più buio del Novecento. E noi siamo lì a dire “mai più guerra”, “mai più le armi”. Vorrei rimettere al centro la grande questione della non-violenza, attiva e passiva, nel senso che la non violenza in tutte le sue forme deve essere il nostro codice spirituale e culturale, il nostro stile antropologico, di uomini e donne. Questa guerra sta dimostrando ancora di più quello che qualcuno ha chiamato il disastro antropologico del nostro tempo. Quando Papa Francesco parla di follia della guerra e di sacrilegio, ci invita anche a capire che c'è inconciliabilità tra fede, religione, Vangelo e violenza, odio e guerra. Le religioni, al di là di ogni appartenenza, devono testimoniare che sono incompatibili con la guerra e che il Dio in cui noi crediamo è un Dio della pace, della Shalom, della benedizione e non è il Dio dell'odio. Quando la religione si presta a essere strumento di odio e di violenza nega se stessa e diventa ateismo dentro l'esperienza religiosa.

Non è solo il cristiano e il credente che marcia con voi e vuole farsi sentire. Con voi ci sono le sigle più diverse in una unica voce che parte dal basso ma che non trova riscontro in chi sigla gli accordi o prende decisioni. Perché non si riesce a colmare questo gap?

Verissimo. Questa carovana, mi piace ricordarlo, è una carovana al plurale. Diverse associazioni, diverse appartenenze. Mi piace dire credenti e non credenti che “credono” in un’interposizione di pace. Che mettono i loro corpi a disposizione per dire a chi deve capire, Zelenksky, Putin, l'India, la Cina, la Nato, l'Europa, l'America, che tutti devono fare un passo indietro e far prevalere quello che mi piace chiamare “il pensiero convergente e simbolico della pace”. Lei giustamente dice che non veniamo ascoltati. Per questo dico “siamo lì a fare rumore”, come dice molto spesso Francesco. Noi al rumore delle armi e dei missili, proponiamo i rumori delle coscienze, i rumori di chi non ci sta e non si arrende a quella che Hannah Arendt ha chiamato “la banalità del male”. Ancora una volta, in questa guerra prevale la banalità del male. Ma immaginiamo che in un certo momento termini la guerra: dovremmo ripartire dalle macerie e sarà la nuova Galilea delle genti. Dobbiamo ripartire come credenti e non credenti per ricostruire una civiltà, nell'azione, al plurale, e una civiltà del convivere insieme. Perché la convivialità delle differenze, non può essere una forma bella di democrazia. Anche qui mi permetto di dire: “al bando ogni omologazione!” È bello essere al plurale, è bella la diversità quando non è un problema, ma una ricchezza e un’opportunità. Ecco, perché qui c'è tutta la grande lezione della santità di Charles De Foucauld e della venerabilità di don Tonino Bello. Quando De Foucauld diceva di voler essere il fratello universale. Oggi ancora una volta viene sconfitta la fraternità. Ecco l’intuizione profetica e mistica di Papa Francesco con la bellissima enciclica Fratelli tutti, in cui afferma ancora una volta, che la guerra dice che non siamo fratelli e sorelle. Noi dobbiamo attivare processi di fraternità inclusiva. Per questo Papa Francesco dice che la realtà è più dell'idea e il tempo è più dello spazio. La guerra occupa spazi, non attiva processi di cambiamento, ma anzi attiva processi di distruzione. Noi con la carovana della pace, al plurale, vogliamo testimoniare che dal basso, la convivialità, la comunione, l’armonia tra diversi, è già una realtà e vogliamo che al di là di ogni posizionamento di geopolitica deve sempre prevalere la pace. La logica del potere è una logica distruttiva. Sempre don Tonino Bello ci ha insegnato a rinunciare ai segni del potere e a recuperare il potere dei segni. Questa carovana che accompagnerò a nome della Cei significa che crediamo nel potere di un segno e mi auguro che questo segno, che esprime la logica del Vangelo e dei costruttori di pace, possa scalfire le coscienze di chi deve capire. In questo caso deve capire l'Europa, l’America, la Nato, deve capire tutto l’atlantismo. E tutto ciò che deve appartenere alla Cina, all’India, alla Russia. Tutti dobbiamo capire che stiamo andando verso un baratro, se non ci fermiamo dovremo fare i conti con la distruzione anche di noi stessi. Ecco allora il senso più bello. Io sono convinto che una delle grandi povertà del nostro tempo è la povertà di senso, di significato. La guerra sta generando sempre di più la mancanza di senso. Questa Carovana della Pace, questo nostro dire stop ad ogni forma di guerra, vuole dire il potere di un segno che per noi ha soltanto un nome: “la pace”. E non dimentichiamo che Gesù è risorto e si è sempre presentato da risorto, con il nome della pace, perché la pace dice Resurrezione. La guerra dice soltanto morte e distruzione. Mi piace, in questo contesto, fare memoria di questo grande vescovo, non capito, mistico e profetico. Helder Camara diceva che “il sogno di uno è un mero sogno, ma il sogno di tutti diventa realtà”. Ecco il mio grande appello: sogniamo insieme dal basso e dall'alto, in modo trasversale, oltre ogni appartenenza, sogniamo una pace insieme e il sogno della pace diventerà realtà.
(fonte: Vatican News, articolo di Gabriella Ceraso 26/06/2022)


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Quella Presenza che fa rumore


... Il viaggio che compirò non vuol avere la presunzione di una immediata pacificazione tra il popolo ucraino e quello russo, vuole essere quell’unico chicco di grano che nel fare l’amore con la terra, restituisce generosi frutti. Vuole essere un convoglio di carezze, come quelle carovane rumorose che al passaggio alzano sì polvere ma tracciano un sentiero, una strada, un viottolo di possibilità che questi tempi bui, con penosa violenza, stanno cercando di cancellare. Ad Odessa, insieme alla “carovana della pace”, andremo a fare rumore!

Andremo ad incontrare i volti, gli sguardi, i dolori, gli umori e le paure di uomini e donne con gli stessi volti, gli stessi sguardi e dolori e umori e paure nostre. Infine e sempre sostenuti dalla grazia di Dio, pregheremo per tutte quelle vite spezzate dall’ingiustizia e dall’insignificanza della guerra.

Il Vangelo mi ha insegnato, tra le altre cose, ad essere il fianco dei dimenticati, il compagno di ogni uomo e di ogni donna che, in Cristo, è l’espressione più sincera della fratellanza, “sulla lunga strada dell’oggi fino ai confini del tempo”, come avrebbe suggerito Don Tonino Bello.

All’assordante silenzio del mondo che, come una cupa coltre avvolge questa tristissima pagina di storia e molte altre, risponderemo con il rumore dei nostri cuori, del nostro impegno concreto e continuato, alzeremo la polvere dell’empatia, spezzeremo l’Eucarestia dell’amore in ogni luogo, affinché la potenza del corpo di Cristo reifichi la pace e diventi instancabile marcia di fraternità e sororità.

Mosso da questo sentire vi chiedo di stringervi a me, alla carovana della pace, alla rete #stopthewarnow e di stringerci al vostro cuore, con la forza della preghiera e la promessa vera della fede, perché nessun abbraccio potrà essere mai più dolce e consolante.


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La “diplomazia dei corpi”:
arriva a Odessa la carovana della pace


Arriva oggi in tarda mattinata a Odessa, la città portuale ucraina sul Mar Nero, la Carovana di pace e solidarietà partita sabato dalla città italiana di Gorizia dove, in rappresentanza della rete della società civile “StoptheWarNow”, si era data appuntamento per la partenza di un secondo convoglio di aiuti umanitari che raggiungono, per la seconda volta in tre mesi, le vittime del conflitto in Nord Europa. La carovana, sette veicoli con una quarantina di persone di diverse associazioni, cattoliche e non, è stata raggiunta a Galati (Romania) da mons. Francesco Savino, vicepresidente della Conferenza Episcopale Italiana (Cei) che, nei giorni scorsi, ha ufficializzato l’appoggio della Cei alla seconda iniziativa della rete “StoptheWarNow”. Nell’aprile scorso la coalizione aveva portato a Leopoli, nel Nord dell’Ucraina, oltre sessanta mezzi carichi di cibo e medicine per poi tornare in Italia con anziani, disabili e sfollati in fuga dalla guerra.
Questa volta la missione è ben più impegnativa proprio per la situazione sul terreno ma anche per questo è più significativa, come spiega all’Agenzia Fides Gianpiero Cofano, presidente dell’Associazione Giovanni XXIII, uno dei responsabili più attivi nell’organizzazione dei convogli: “C’è sempre più bisogno di pace – dice Cofano – e questo convoglio, con circa 40 tonnellate di aiuti umanitari, intende raggiungere Odessa e Mykolaiv. Perché quei due luoghi? Perché sono i punti nevralgici nei quali si decideranno in parte le sorti di questo conflitto, mentre una timida diplomazia si rivolge a Kiev, purtroppo soltanto a Kiev. Noi crediamo in una ‘diplomazia dal basso’  che è anche fatta di presenza fisica, di corpi, di persone appunto. Per noi l’incontro più importante sarà proprio quello con le vittime della guerra, per condividere con loro il dolore e fargli sentire quanto siamo loro vicini. Il fatto importante è che sono loro stessi ad averci invitato. Noi che pensiamo di essere la parte che accoglie, saremo invece accolti da loro, nelle loro case: sarà il nostro modo per dire che l’Europa non è sorda e cieca e che la nostra diplomazia dal basso – conclude Cofano - sa parlare di pace. E’ presente come segno di pace e sa ascoltare”.
Il mondo cattolico è presente a Odessa con diverse associazioni (Comunità Papa Giovanni XXIII, Nuovi Orizzonti, Mov. Focolari, Caritas Nazionale, Sulle orme ed molti altri) mentre anche alte associazioni e movimenti cattolici stanno manifestando l’intenzione di aderire alla coalizione “StoptheWarNow”, che raccoglie già oltre 175 sigle dell’associazionismo italiano cattolico e laico. Una nuova Carovana della pace sarà organizzata a luglio (14-18 luglio) per proseguire il percorso iniziato in aprile con il primo viaggio a Leopoli e che da oggi fa tappa a Odessa.
(fonte: Agenzia Fides 27/6/2022)

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Guarda il video con il messaggio di Tonio Dell'Olio, mentre con la Carovana della Pace #StoptheWarNow sta viaggiando verso Odessa (Ucraina) in solidarietà e sostegno umano al popolo ucraino che soffre il dolore e l'orrore della guerra.

GUARDA IL VIDEO

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Alle 13 ora italiana a Odessa si è tenuta una conferenza stampa, coordinata da Tonio Dell'Olio, presidente della Pro Civitate Christiana di Assisi e presieduta da Mons. Savino, vicepresidente della Conferenza Episcopale Italiana, con i rappresentanti della società civile (Caritas-Spes) e delle istituzioni religiose ucraine (Mons. Stanislav Šyrokoradjuk, Mons. Mychajlo Bubnij, Mons. Afanasiy).

Guarda il video

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«Dobbiamo essere discepoli di Gesù sul serio, con vera decisione, non “cristiani all’acqua di rose”.» Papa Francesco Angelus 26/06/2022 (testo e video)

ANGELUS

Piazza San Pietro
Domenica, 26 giugno 2022




Cari fratelli e sorelle, buongiorno!

Il Vangelo della Liturgia di questa Domenica ci parla di una svolta. Dice così: «Mentre stavano compiendosi i giorni in cui sarebbe stato elevato in alto, Gesù prese la ferma decisione di mettersi in cammino verso Gerusalemme» (Lc 9,51). Così inizia il “grande viaggio” verso la città santa, che richiede una speciale decisione perché è l’ultimo. I discepoli, pieni di entusiasmo ancora troppo mondano, sognano che il Maestro vada incontro al trionfo; Gesù invece sa che a Gerusalemme lo attendono il rifiuto e la morte (cfr Lc 9,22.43b-45); sa che dovrà soffrire molto; e ciò esige una ferma decisione. Così Gesù va con passo deciso verso Gerusalemme. È la stessa decisione che noi dobbiamo prendere, se vogliamo essere discepoli di Gesù. In che cosa consiste questa decisione? Perché noi dobbiamo essere discepoli di Gesù sul serio, con vera decisione, non – come diceva una vecchietta che ho conosciuto – “cristiani all’acqua di rose”. No! Cristiani decisi. E ci aiuta a capirlo l’episodio che l’Evangelista Luca racconta subito dopo.

Mentre erano in cammino, un villaggio di Samaritani, avendo saputo che Gesù era diretto a Gerusalemme – che era la città avversaria –, non lo accoglie. Gli apostoli Giacomo e Giovanni, sdegnati, suggeriscono a Gesù di punire quella gente facendo scendere un fuoco dal cielo. Gesù non soltanto non accetta la proposta, ma rimprovera i due fratelli. Essi vogliono coinvolgerlo nel loro desiderio di vendetta e Lui non ci sta (cfr vv. 52-55). Il “fuoco” che Lui è venuto a portare sulla terra è un altro, (cfr Lc 12,49) è l’Amore misericordioso del Padre. E per far crescere questo fuoco ci vuole pazienza, ci vuole costanza, ci vuole spirito penitenziale.

Giacomo e Giovanni invece si lasciano prendere dall’ira. E questo capita anche a noi, quando, pur facendo del bene, magari con sacrificio, anziché accoglienza troviamo una porta chiusa. Viene allora la rabbia: tentiamo perfino di coinvolgere Dio stesso, minacciando castighi celesti. Gesù invece percorre un’altra via, non la via della rabbia, ma quella della ferma decisione di andare avanti, che, lungi dal tradursi in durezza, implica calma, pazienza, longanimità, senza tuttavia minimamente allentare l’impegno nel fare il bene. Questo modo di essere non denota debolezza ma, al contrario, una grande forza interiore. Lasciarsi prendere dalla rabbia nelle contrarietà è facile, è istintivo. Ciò che è difficile invece è dominarsi, facendo come Gesù che – dice il Vangelo – si mise «in cammino verso un altro villaggio» (v. 56). Questo vuol dire che, quando troviamo delle chiusure, dobbiamo volgerci a fare il bene altrove, senza recriminazioni. Così Gesù ci aiuta a essere persone serene, contente del bene compiuto e che non cercano le approvazioni umane.

Adesso domandiamoci: noi a che punto siamo? A che punto siamo noi? Davanti alle contrarietà, alle incomprensioni, ci rivolgiamo al Signore, gli chiediamo la sua fermezza nel fare il bene? Oppure cerchiamo conferme negli applausi, finendo per essere aspri e rancorosi quando non li sentiamo? Quante volte, più o meno consapevolmente, cerchiamo gli applausi, l’approvazione altrui? Facciamo quella cosa per gli applausi? No, non va. Dobbiamo fare il bene per il servizio e non cercare gli applausi. A volte pensiamo che il nostro fervore sia dovuto al senso di giustizia per una buona causa, ma in realtà il più delle volte non è altro che orgoglio, unito a debolezza, suscettibilità e impazienza. Chiediamo allora a Gesù la forza di essere come Lui, di seguirlo con ferma decisione in questa strada di servizio. Di non essere vendicativi, di non essere intolleranti quando si presentano difficoltà, quando ci spendiamo per il bene e gli altri non lo capiscono, anzi, quando ci squalificano. No, silenzio e avanti.

La Vergine Maria ci aiuti a fare nostra la ferma decisione di Gesù di rimanere nell’amore fino in fondo.

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Dopo l'Angelus

Cari fratelli e sorelle!

Seguo con preoccupazione quanto sta accadendo in Ecuador. Sono vicino a quel popolo e incoraggio tutte le parti ad abbandonare la violenza e le posizioni estreme. Impariamo: solo con il dialogo si potrà trovare, spero presto, la pace sociale, con particolare attenzione alle popolazioni emarginate e ai più poveri, ma sempre rispettando i diritti di tutti e le istituzioni del Paese.

Desidero esprimere la mia vicinanza ai familiari e alle consorelle di Suor Luisa Dell’Orto, Piccola sorella del Vangelo di Charles de Foucauld, uccisa ieri a Port-au-Prince, capitale di Haiti. Da vent’anni suor Luisa viveva là, dedita soprattutto al servizio dei bambini di strada. Affido a Dio la sua anima e prego per il popolo haitiano, specialmente per i piccoli, perché possano avere un futuro più sereno, senza miseria e senza violenza. Suor Luisa ha fatto della sua vita un dono per gli altri fino al martirio.

Saluto tutti voi, romani e pellegrini dell’Italia e di tanti Paesi. Vedo bandiera argentina, miei connazionali, vi saluto tanto! In particolare, saluto i fedeli provenienti da Lisbona, gli studenti dell’Istituto Notre-Dame de Sainte-Croix di Neuilly, in Francia, e quelli di Telfs, in Austria. Saluto la Corale polifonica di Riesi, il gruppo di genitori di Rovigo e la comunità pastorale Beato Serafino Morazzone di Maggianico. Vedo che ci sono bandiere dell’Ucraina. Lì, in Ucraina, continuano i bombardamenti, che causano morti, distruzione e sofferenze per la popolazione. Per favore, non dimentichiamo questo popolo afflitto dalla guerra. Non dimentichiamolo nel cuore e con le nostre preghiere.

Vi auguro una buona domenica. E, per favore, non dimenticatevi di pregare per me. Buon pranzo e arrivederci.

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