Concedi al tuo servo un cuore docile, perché sappia rendere giustizia al tuo popolo e sappia distinguere il bene dal male" (1Re 3,9)
Con questa parabola, propria del Vangelo di Matteo, si conclude il "Discorso Ecclesiale". Essa è una parenesi sulla necessità del perdono all'interno della comunità, di come il rapporto con i fratelli debba essere il riflesso del rapporto che il Signore ha con ciascuno di noi. Si tratta di mettere in pratica la giustizia, una giustizia più grande della nostra, una giustizia propria di coloro che amano così come da Dio sono amati. "E' la disparità della giustizia di Dio, che è viscere di misericordia (splanchistheìs), dono e perdono infiniti. Alla giustizia della Legge, che uccide, succede quella dello Spirito di Dio che è misericordia e dà vita". Il perdono è il cuore della vita della Chiesa, perdono che fa di noi dei figli amati perché perdoniamo e amiamo i fratelli. Infatti un amore che non perdona, non è amore. Il peccato più grave che abbiamo non è il debito contratto nei confronti del Padre (diecimila talenti, una cifra spropositata impossibile da restituire, pari a 60 milioni di giornate di lavoro), ma il credito nei confronti del fratello che osiamo fare valere (una cifra irrisoria, pari a cento giornate lavorative). Come Chiesa siamo esortati a sempre perdonare così come veniamo perdonati, ad avere misericordia dei nostri fratelli perché il Signore ha sempre misericordia di noi. Il perdono è il cuore della Legge di Dio, il segno dell'appartenenza alla sua famiglia, e - parafrasando il Santo curato d'Ars - possiamo affermare che "perdonare è un miracolo più grande che risuscitare un morto".