Vinicio Albanesi
Sinodo: Instrumentum laboris?
Sarà stato indubbiamente faticoso riassumere i punti nodali dei documenti giunti alla Segreteria generale del Sinodo per elaborare la traccia che serva a discutere gli argomenti proposti (Chiesa sinodale, comunione, partecipazione, missione) nella prima seduta generale del Sinodo del 2023.
Una sfida enorme, se non altro, per i passaggi che i contributi hanno attraversato e come sono stati sintetizzati: Chiesa locale, Chiesa nazionale, Chiesa continentale, per poi giungere alle sedute finali.
Dalla lettura dell’Instrumentum laboris emergono alcune caratteristiche.
Uno Spirito “tappabuchi”?
Prima di tutto il linguaggio. Risulta un linguaggio accademico: di manuale teologico sugli argomenti trattati. Forse per completezza, forse per i contributi giunti, è un linguaggio rivolto a un mondo raffinato di fedeli. Non ha nessuna impostazione speciale: teologica, morale, biblica, liturgica, giuridica, pastorale. Forse è giusto così: la preoccupazione è di sottolineare la teologia della Chiesa, con il risultato che la discussione sarà “apicale”, anche se lo scopo indicato è di «aprire la Chiesa tutta all’accoglienza della voce dello Spirito» (n. 16) quasi ad invocare una nuova “Pentecoste”.
Il testo, lungo e prolisso – più dei vangeli di Marco e Giovanni messi insieme – quando non ha nulla da proporre, invoca lo “Spirito”, citato 92 volte. In contemporanea, si ricorre ai termini sociologici, la cui spia è la parola “processi”: un termine usato per le gestioni gruppali (associazioni, gruppi, aziende). Tra “conversione” e “processi” (citato 42 volte), si può leggere quanto la Lumen gentium del concilio Vaticano II riferisce al n. 8 «… la Chiesa terrestre e la Chiesa arricchita di beni celesti non si devono considerare come due cose diverse; esse formano piuttosto una sola complessa realtà risultante di un duplice elemento, umano e divino»: il problema è in quali relazioni si pongono le dimensioni umana e quelle di ispirazione divina.
Il sospetto è che, di fronte alle scelte necessarie, si eviti il problema, prodotto da paura o ignoranza. Un problema vero, soprattutto se si osserva il mondo intero. Un conto è una Chiesa nascente e, magari perseguitata, come si riscontra in alcuni paesi di missione e, un altro conto, sono le Chiese cristiane da secoli, in fase di decadimento.
Sono superflue le parole scritte: «Una volta superata l’ansia del limite, l’inevitabile incompiutezza di una Chiesa sinodale e la disponibilità dei suoi membri ad accogliere le proprie vulnerabilità diventano lo spazio per l’azione dello Spirito, che ci invita a riconoscere i segni della sua presenza» (n. 31).
Il rischio di tale impostazione è che si attribuisca allo Spirito la strada da percorrere, quasi che, se non si attivano risposte, la responsabilità sia la sua.
Presenze e omissioni
Una novità è la parte affidata alla «conversazione nello Spirito»: undici numeri (nn. 32-42) del documento per una strada, almeno per me, sconosciuta. Una prassi seguita, come sembra, dai gesuiti, che sottolinea la formazione di gruppi stabili che debbono scegliere il futuro.
Esistono altre strade, impervie e difficili: la povertà, la solitudine, il dolore, l’insignificanza. Viottoli che spingono a lodare Dio per quanto si è ricevuto, per attivarsi ad offrire guarigione.
L’impressione che si riceve dal documento è di un’assemblea stabile, sicura, in cammino, ma senza grandi problemi da risolvere. Gli inviti ad “uscire”, a gestire “gli scarti”, a occuparsi del popolo sembra lontana. È stata tenuta fuori dalla riflessione la cosiddetta “zona grigia” della cristianità: quella popolazione – la stragrande maggioranza in Occidente – che ha conservato residui di religiosità, espressi a intermittenza.
Nessun riferimento al cambiamento globale, alla cultura moderna e post-moderna, alla mercificazione delle relazioni, all’individualismo che opprime l’umanità. Come ciascun cristiano vivesse due vite: una civile, l’altra religiosa, dimenticando che la vita è unica, immersa in contesti economici, politici, sociali, religiosi.
Se le tre parole-chiave del Sinodo volevano esprimere la complessità dell’azione della Chiesa – comunione, missine e partecipazione – sono state coniugate con un’impostazione che oscilla tra l’invocazione a Dio e problemi (e problemucci) molto umani, che andrebbero risolti (nn. 46-60).
Più significative le schede di lavoro. I riferimenti sono pertinenti: unità del genere umano; i poveri, la casa, il pianeta, le migrazioni, il bene comune, la politica.
Amore e verità: divorziati e risposati, discriminazione razziale, disabili, vittime. Il termine scelto è quello della “profezia”. Termine abusato, già utilizzato per esaminare la condizione della Chiesa argentina nel periodo della dittatura (24 marzo 1976 – 10 dicembre 1983), dichiarandola “non profetica”.
Più esplicita la Nota congiunta sulla “Dottrina della scoperta” pubblicata congiuntamente dal Dicastero per la cultura e l’educazione e dal Dicastero per il servizio dello sviluppo umano integrale. A proposito della scoperta delle terre nei secoli XV e XVI, tale dottrina concedeva il diritto «di estinguere, mediante acquisto e conquista, il titolo o il possesso di quelle terre da parte delle popolazioni indigene». La Nota dichiara che tale dottrina non fa parte dell’insegnamento della Chiesa cattolica, nonostante i richiami a bolle papali del 1452, 1455, 1493. Un linguaggio chiaro e definitorio, per riconoscere errori.
Temi interni alla Chiesa
Si affrontano temi tutti interni al mondo ecclesiale (rapporti con le Chiese orientali ed ecumenismo): un cammino lento, problematico che, al di là delle verità cristiane, nasconde storie umane di autonomia e di potere. Non farne cenno è una scorrettezza, incomprensibile alla cultura moderna e alla pietà popolare.
A proposito delle donne c’è tutto un panegirico (B 2.2) su di loro che «celebrano la fede, evangelizzatrici e spesso formatrici della fede».
È vero che, nella storia della Chiesa, sono emerse nei secoli figure di donne “sante e beate”, ricordate da Benedetto XVI in alcuni mercoledì (1 settembre 2010 – 26 gennaio 2011), come è universale la devozione alla Madonna.
Solo recentemente (gennaio 2021) possono accedere ai ministeri dell’accolitato e del lettorato, dopo secoli di esclusione di presenza sull’altare. Dovremmo chiedere perdono per come sono state giudicate e trattate; che alcune esse oggi ricoprano funzioni apicali nella Santa Sede e siano presenti al Sinodo è di buon auspicio. Non sappiamo nulla della Commissione teologica sul diaconato delle donne, chiusa una prima volta e ricomposta.
Simili appelli alla responsabilità riguardano i laici (B.2.4), chiamati a partecipare più attivamente alla vita della Chiesa.
Riflessione delicata sull’autorità vescovile: si invoca trasparenza e responsabilità; la struttura ministeriale della Chiesa è rigidamente gerarchica a tutti i livelli, parrocchiale, diocesana, nazionale e universale.
La teologia non transige sulla gerarchia, perché le funzioni dei chierici sono legate al sacramento dell’ordine: la discussione andrebbe approfondita per distinguere le funzioni sacrali, da quelle giuridiche. In altre parole, ciò che è legge divina e quanto è legge ecclesiastica.
Infine, si affronta il tema (B.3.2) delle comunità religiose, maschili e femminili. Se il messaggio cristiano non fa differenza di condizioni, la tensione tra il carisma di ordini e congregazioni e l’annuncio territoriale pone problemi.
Non rimanere nel vago
I temi del Sinodo sono ampi e autentici. L’Instrumentum laboris, nonostante le dichiarazioni, sembra molto preoccupato dal non deragliare dalla “dottrina” cattolica. Non sappiamo come si svolgerà il dibattito. Ci saranno sicuramente tensioni: ben vengano. L’appello è che non si ricorra al detto-non detto. Possa arrivare a conclusioni che incidono, anche giuridicamente, sulla vita della Chiesa.
Poco utile sarebbe se terminasse nel vago, non definendo criteri e risposte: conversione, processi, discernimento (ripetuto 94 volte) non possono esimere dal cammino sincero e fedele della missione cristiana.
(fonte: Settimana News 12 luglio 2023)