Intervista del Santo Padre Francesco al mensile “Scarp de' tenis”
Un numero “storico” per Scarp de’ tenis. Il mensile della strada, progetto editoriale e sociale sostenuto da Caritas Ambrosiana e Caritas Italiana, nel numero di marzo contiene l’intervista esclusiva a papa Francesco raccolta dal direttore Stefano Lampertico, che lo ha incontrato insieme con Antonio Mininni, prima venditore e poi storico responsabile della redazione di strada, in rappresentanza di tutti i venditori del giornale di strada.
Nella lunga intervista il Papa ha risposto, con lo stile ricco di aneddoti che gli appartiene, alle domande di Scarp, partendo, ovviamente, dalla fatica che oggi si fa a «mettersi nelle scarpe degli altri»
Riportiamo di seguito il testo integrale dell’intervista realizzata in preparazione della visita del Papa nella diocesi di Milano, in programma il 25 marzo 2017.
Intervista del Santo Padre
Santo Padre, parliamo del popolo degli invisibili, delle persone senza dimora. Poche settimane fa, all’inizio dell’inverno e con l’arrivo del grande freddo, ha dato ordine di accoglierli in Vaticano, di aprire le porte delle chiese. Come è stato accolto il suo appello?
L’appello del Papa è stato ascoltato da molte persone e da molte parrocchie. In tanti l’hanno ascoltato. In Vaticano ci sono due parrocchie e ognuna di loro ha ospitato una famiglia siriana. Molte parrocchie di Roma hanno aperto le porte all’accoglienza, e so che altre, non avendo posto nelle canoniche, hanno raccolto il denaro per pagare l’affitto a persone e famiglie bisognose per un anno intero. L’obiettivo da raggiungere deve essere quello dell’integrazione, per questo è importante accompagnarli per un periodo iniziale. In tante parti d’Italia è stato fatto molto. Le porte sono state aperte in molte scuole cattoliche, nei conventi, in tante altre strutture. Per questo dico che l’appello è stato ascoltato. So anche di molte persone che fanno offerte in denaro affinché si possa pagare l’affitto per le persone senza dimora.
In passato tutto il mondo ha scritto delle scarpe del Papa, scarpe da lavoratore e camminatore e recentemente i media sono rimasti sorpresi, e hanno raccontato, del Papa che è andato in un negozio per comprarne un paio nuove. Perché tanta attenzione? Forse perché oggi si fatica a mettersi – come Scarp de’ tenis invita a fare - nelle scarpe degli altri?
È molto faticoso mettersi nelle scarpe degli altri, perché spesso siamo schiavi del nostro egoismo. A un primo livello possiamo dire che la gente preferisce pensare ai propri problemi senza voler vedere la sofferenza o le difficoltà dell’altro. C’è un altro livello però. Mettersi nelle scarpe degli altri significa avere grande capacità di comprensione, di capire il momento e le situazioni difficili. Faccio un esempio: nel momento del lutto si porgono le condoglianze, si partecipa alla veglia funebre o alla messa, ma sono davvero pochi coloro che si mettono nelle scarpe di quel vedovo o di quella vedova o di quell’orfano. Certo non è facile. Si prova dolore, ma poi tutto finisce lì. Se pensiamo poi alle esistenze che spesso sono fatte di solitudine, allora mettersi nelle scarpe degli altri significa servizio, umiltà, magnanimità, che è anche l’espressione di un bisogno. Io ho bisogno che qualcuno si metta nelle mie scarpe. Perché tutti noi abbiamo bisogno di comprensione, di compagnia e di qualche consiglio. Quante volte ho incontrato persone che, dopo aver cercato conforto in un cristiano, sia esso un laico, un prete, una suora, un vescovo, mi dice: «Sì, mi ha ascoltato, ma non mi ha capito». Capire significa mettersi le scarpe degli altri. E non è facile. Spesso per supplire a questa mancanza di grandezza, di ricchezza e di umanità ci si perde nelle parole. Si parla. Si parla. Si consiglia. Ma quando ci sono solo le parole o troppe parole non c’è questa “grandezza” di mettersi nelle scarpe degli altri.
Santità, quando incontra un senza tetto qual è la prima cosa che gli dice?
«Buongiorno». «Come stai?». Alcune volte si scambiano poche parole, altre volte invece si entra in relazione e si ascoltano storie interessanti: «Ho studiato in un collegio, c’era un bravo prete…». Qualcuno potrebbe dire, ma cosa mi interessa? Le persone che vivono sulla strada capiscono subito quando c’è il vero interesse da parte dell’altra persona o quando c’è, non voglio dire quel sentimento di compassione, ma certamente di pena. Si può vedere un senza tetto e guardarlo come una persona, oppure come fosse un cane. E loro di questo differente modo di guardare se ne accorgono. In Vaticano è famosa la storia di una persona senza dimora, di origine polacca, che generalmente sostava in piazza Risorgimento a Roma, non parlava con nessuno, neppure con i volontari della Caritas che la sera gli portavano un pasto caldo. Solo dopo lungo tempo sono riusciti a farsi raccontare la sua storia: «Sono un prete, conosco bene il vostro Papa, abbiamo studiato insieme in seminario». La voce è arrivata a San Giovanni Paolo II che sentito il nome, ha confermato di essere stato con lui in seminario e ha voluto incontrarlo. Si sono abbracciati dopo quarant’anni, e alla fine di un’udienza il Papa ha chiesto di essere confessato dal sacerdote che era stato suo compagno. «Ora però tocca a te», gli disse il Papa. E il compagno di seminario fu confessato dal Papa. Grazie al gesto di un volontario, di un pasto caldo, a qualche parola di conforto, a uno sguardo di bontà questa persona ha potuto risollevarsi e intraprendere una vita normale che lo ha portato a diventare cappellano di un ospedale. Il Papa l’aveva aiutato, certo questo è un miracolo ma è anche un esempio per dire che le persone senza dimora hanno una grande dignità. Nell’arcivescovado a Buenos Aires sotto a un androne fra le grate e il marciapiede abitavano una famiglia e una coppia. Li incontravo tutte le mattine quando uscivo. Li salutavo e scambiavo sempre due parole con loro. Non ho mai pensato di cacciarli via. Qualcuno mi diceva: «Sporcano la Curia», ma la sporcizia è dentro. Penso che bisogna parlare alle persone con grande umanità, non come se dovessero ripagarci di un debito e non trattarli come fossero poveri cani.
Molti si domandano se è giusto fare l’elemosina alle persone che chiedono aiuto per strada; lei cosa risponde?
Ci sono tanti argomenti per giustificare se stessi quando non si fa l’elemosina. «Ma come, io dono dei soldi e poi lui li spende per bere un bicchiere di vino?». Un bicchiere di vino è l’unica felicità che ha nella vita, va bene così. Domandati piuttosto che cosa fai tu di nascosto? Tu quale “felicità” cerchi di nascosto?
O, al contrario di lui, sei più fortunato, con una casa, una moglie, dei figli, cosa ti fa dire «Occupatevi voi di lui».
Un aiuto è sempre giusto. Certo non è una buona cosa lanciare al povero solo degli spiccioli. È importante il gesto, aiutare chi chiede guardandolo negli occhi e toccando le mani. Buttare i soldi e non guardare negli occhi, non è un gesto da cristiano. Come si può educare all’elemosina? Racconto un aneddoto di una signora che ho conosciuto a Buenos Aires. Mamma di cinque figli (a quel tempo ne aveva tre). Il papà era al lavoro e stavano pranzando, sentono bussare alla porta, il più grande va ad aprire: «Mamma c’è un uomo che chiede da mangiare. Cosa facciamo?». Tutti e tre, la più piccola aveva quattro anni, stavano mangiando una bistecca alla milanese, la mamma dice loro: «Bene, tagliamo a metà la nostra bistecca». «Ma no mamma, ce n’è un’altra» dice la bambina. «È per papà, per questa sera. Se dobbiamo donare, dobbiamo dare la nostra». Con poche semplici parole hanno imparato che si deve dare del proprio, quello di cui non vorresti mai separarti. Due settimane dopo, la stessa signora andò in città per sbrigare alcune commissioni e fu costretta a lasciare i bambini a casa, avevano i compiti da fare e lasciò loro la merenda già pronta. Quando tornò, trovò i tre figli in compagnia di un senzatetto a tavola che stavano mangiando la merenda. Avevano imparato troppo bene e troppo in fretta, di certo era un po’ mancata loro la prudenza. Insegnare alla carità non è scaricare colpe proprie, ma è un toccare, è un guardare a una miseria che io ho dentro e che il Signore comprende e salva. Perché tutti noi abbiamo miserie “dentro”.
A più riprese il Papa si è schierato in difesa dei migranti invitando all'accoglienza e alla carità. Milano in questo senso è una capitale dell’accoglienza. Sono però in molti a chiedersi se davvero bisogna accogliere tutti indistintamente oppure se non sia necessario porre dei limiti.
Quelli che arrivano in Europa scappano dalla guerra o dalla fame. E noi siamo in qualche modo colpevoli perché sfruttiamo le loro terre ma non facciamo alcun tipo di investimento affinché loro possano trarre beneficio. Hanno il diritto di emigrare e hanno diritto ad essere accolti e aiutati. Questo però si deve fare con quella virtù cristiana che è la virtù che dovrebbe essere propria dei governanti, ovvero la prudenza. Cosa significa? Significa accogliere tutti coloro che si “possono” accogliere. E questo per quanto riguarda i numeri. Ma è altrettanto importante una riflessione su “come” accogliere. Perché accogliere significa integrare. Questa è la cosa più difficile perché se i migranti non si integrano, vengono ghettizzati. Mi torna sempre in mente l’episodio di Zaventem (l’attentato all’aeroporto di Bruxelles del 22 marzo 2016, ndr); questi ragazzi erano belgi, figli di migranti ma abitavano in un quartiere che era un ghetto. E cosa significa integrare? Anche in questo caso faccio un esempio: da Lesbo sono venuti con me in Italia tredici persone. Al secondo giorno di permanenza, grazie alla comunità di Sant’Egidio, i bambini già frequentavano le scuole. Poi in poco tempo hanno trovato dove alloggiare, gli adulti si sono dati da fare per frequentare corsi per imparare la lingua italiana e per cercare un qualche lavoro. Certo, per i bambini è più facile: vanno a scuola e in pochi mesi sanno parlare l’italiano meglio di me. Gli uomini hanno cercato un lavoro e l’hanno trovato. Integrare allora vuol dire entrare nella vita del Paese, rispettare la legge del Paese, rispettare la cultura del Paese ma anche far rispettare la propria cultura e le proprie ricchezze culturali. L’integrazione è un lavoro molto difficile. Ai tempi delle dittature militari a Buenos Aires guardavamo alla Svezia come a un esempio positivo. Gli svedesi oggi sono 9 milioni, ma di questi, 890 mila sono nuovi svedesi, cioè migranti o figli di migranti integrati. Il Ministro della cultura Alice Bah Kuhnke è figlia di una donna svedese e di un uomo proveniente dal Gambia. Questo è un bell’esempio di integrazione. Certo ora anche in Svezia si trovano in difficoltà: hanno molte richieste e stanno cercando di capire cosa fare perché non c’è posto per tutti. Ricevere, accogliere, consolare e subito integrare. Quello che manca è proprio l’integrazione. Ogni Paese allora deve vedere quale numero è capace di accogliere. Non si può accogliere se non c’è possibilità di integrazione.
Nella storia della sua famiglia, c’è la traversata dell’oceano da parte di suo nonno e sua nonna, con suo padre. Come si cresce da figlio di emigranti? Le è mai capitato di sentirsi un po’ sradicato?
Non mi sono mai sentito sradicato. In Argentina siamo tutti migranti. Per questo laggiù il dialogo interreligioso è la norma. A scuola c’erano ebrei che arrivavano in maggior parte dalla Russia e musulmani siriani e libanesi, o turchi con il passaporto dell’Impero ottomano. C’era molta fratellanza. Nel Paese c’è un numero limitato di indigeni, la maggior parte della popolazione è di origine italiana, spagnola, polacca, mediorientale, russa, tedesca, croata, slovena. Negli anni a cavallo dei due secoli precedenti il fenomeno migratorio è stato di enorme portata. Mio papà era ventenne quando è arrivato in Argentina e lavorava alla Banca d’Italia, si è sposato là.
Cosa le manca di più di Buenos Aires? Gli amici, le visite alle villa miseria, il calcio?
C’è soltanto una cosa che mi manca tanto: la possibilità di uscire e andare per strada. Mi piace andare in visita alle parrocchie e incontrare la gente. Non ho particolare nostalgia. Vi racconto invece un altro aneddoto: i miei nonni e mio papà avrebbero dovuto partire alla fine del 1928, avevano il biglietto per la nave “Principessa Mafalda”, nave che affondò al largo delle coste del Brasile. Ma non riuscirono a vendere in tempo quello che possedevano e così cambiarono il biglietto e si imbarcarono sulla “Giulio Cesare” il 1 febbraio del 1929. Per questo sono qui.
Milano è pronta ad accoglierla alla fine del mese di marzo. Partiamo dalle organizzazioni caritative, dalle associazioni di volontariato, da chi si preoccupa di dare ai senza tetto un posto dove passare la notte, del cibo, assistenza sanitaria, occasioni di riscatto. A Milano ci vantiamo di riuscire a farlo anche piuttosto bene. E sufficiente? Quali sono i bisogni di coloro che sono finiti sulla strada?
Come per i migranti molto semplicemente queste persone hanno bisogno della stessa cosa: ovvero, integrazione. Certo non è semplice integrare una persona senza dimora, perché ognuno di loro ha una storia particolare. Per questo bisogna avvicinarsi a ciascuno di loro, trovare il modo per aiutarli e dare loro una mano.
Lei ripete spesso che i poveri possono cambiare il mondo. Però è difficile che esista solidarietà dove esiste povertà e miseria, come nelle periferie delle città. Cosa ne pensa?
Anche qui riporto la mia esperienza di Buenos Aires. Nelle baraccopoli c’è più solidarietà che non nei quartieri del centro. Nelle villa miseria ci sono molti problemi, ma spesso i poveri sono più solidali tra loro, perché sentono che hanno bisogno l’uno dell’altro. Ho trovato più egoismo in altri quartieri, non voglio dire benestanti perché sarebbe qualificare squalificando, ma la solidarietà che si vede nei quartieri poveri e nelle baraccopoli non si vede da altre parti, anche se lì la vita è più complicata e difficile. Nelle baraccopoli, per esempio, la droga si vede di più, ma solo perché negli altri quartieri è più “coperta” e si usa con i guanti bianchi.
Di recente abbiamo cercato di leggere la città di Milano in maniera diversa, partendo dagli ultimi e dalla strada, e con gli occhi delle persone senza dimora che frequentano un centro diurno della Caritas Ambrosiana. Con loro abbiamo pubblicato una guida della città vista dalla strada, dal punto di vista di chi la vive ogni giorno. Santo Padre cosa conosce della città e cosa si aspetta dalla sua imminente visita?
Milano non la conosco. Ci sono stato una volta soltanto, per poche ore, nei lontani anni Settanta. Avevo qualche ora libera prima di prendere un treno per Torino e ne ho approfittato per una breve visita al Duomo. In un’altra occasione, con la mia famiglia, sono stato una domenica a pranzo da una cugina che abitava a Cassina de’ Pecchi. Milano non la conosco, ma ho un grande desiderio, mi aspetto di incontrare tanta gente. Questa è la mia più grande aspettativa: sì, mi aspetto di trovare tanta gente.