Tornare a vivere dopo 7 anni di coma.
Il coraggio non è solo l’eutanasia
La storia di Giulia e della mamma Maura
Non ci sono solo i casi Englaro, o Welby, o Dj Fabo. Ci sono anche, per esempio, Giulia e sua mamma Maura. Che hanno fatto la scelta opposta. O per meglio dire l’ha fatta Maura, perché sentiva che in qualche modo, dall’abisso in cui era precipitata, glielo chiedeva sua figlia. È la storia raccontata su questo giornale, lo scorso autunno, da Pierangelo Sapegno, che ora ha curato un libro, firmato in prima persona dalla protagonista, Maura Lombardi, con un titolo programmatico: L’amore non toglie la vita. Una storia esemplare - ma non isolata, anche se, com’è noto, fa più rumore un albero che cade di molti alberi che crescono - sulla quale giova riflettere, nel momento in cui si parla con troppa leggerezza di eutanasia e «suicidio assistito», e la scelta di «andare in Svizzera» (nell’eventualità di…) risuona come un refrain alla moda, circonfuso di un alone di eroica nobiltà.
La battaglia
C’è uno strano equivoco che avvolge il dibattito in materia, un’inversione cognitiva che porta a scambiare per coraggio la disperazione. Il coraggio è la virtù di chi è pronto ad affrontare anche rischi estremi, per il proprio o per l’altrui vantaggio, ma con la speranza di uscire indenne, onde poterne godere i frutti. Si distingue tanto dall’abnegazione, che è la disposizione di chi sacrifica la propria vita per salvare quelle altrui, quanto dalla disperazione, che è lo stato di chi sa - o pensa - di non avere possibilità alcuna di salvezza. Situazione che può indurre a scelte estreme, soprattutto se vi si aggiungono sofferenze umanamente insopportabili. Ma chi è disperato non è da esaltare: è da compatire. E non sempre le situazioni disperate sono davvero tali.
Anche Giulia non aveva speranze. O meglio una l’aveva, quel giorno maledetto in cui un aneurisma era esploso nel suo cervelletto. Era il 24 marzo 2004 e lei aveva 15 anni. «Proviamo a operarla», aveva detto il neurochirurgo, «a 15 anni si deve dare una chance». Solo che l’intervento, durato 12 ore, l’aveva tenuta in vita, ma nelle condizioni di un vegetale. Trasformata anche nell’aspetto: non più magrolina, non più lunghi capelli rossi, un corpo gonfio e livido, irriconoscibile. Una tracheotomia e una Peg per farle arrivare il cibo direttamente nello stomaco, bypassando la bocca, una macchina per la respirazione artificiale, tubi e cannule dappertutto. Quella condizione che potrebbe indurre a invocare una «fine dignitosa».
Ma la mamma di Giulia no. Per quanto dignitosa, la fine è una sconfitta, non è una vittoria. E lei non vuole perdere. Insieme col marito, che abbandona il lavoro per stare vicino alla figlia, le tenta tutte: neurologia, riflessologia, logopedia, massaggi shiatsu, pratiche mediche e paramediche. Per pagare le cure vendono il grande cascinale che avevano ristrutturato nella collina torinese, e per le inevitabili tensioni che intervengono in situazioni così drammatiche, anche quando si è uniti nella comune battaglia, dopo un po’ finisce che si separano. Maura segue un corso di buddismo, in cerca di quella pace interiore indispensabile per poter stare meglio assieme a Giulia. Le parla in continuazione, le racconta quello che succede, le legge Harry Potter, continuando dal punto in cui la figlia aveva lasciato il segnalibro.
La porta si riapre
Dopo un anno di ospedale, il San Giovanni Bosco di Torino, il trasferimento in una clinica specializzata a Volpiano. Maura ridipinge le pareti, porta un videoregistratore, decine di cd, fa vedere a Giulia i film, ascoltare la sua musica preferita, quando compie 18 anni le organizza una grande festa con 300 palloncini colorati e tutti gli amici e tanti regali. E la ragazza sempre inerte nel letto, gli occhi spalancati a fissare il soffitto. Le mettono in mano una pallina di gomma, perché la stringa, e lei non muove un dito. Però quando la terapista la tocca e le parla, i suoi muscoli si rilassano, lo sguardo si addolcisce: «a riprova che le persone che definiamo in stato vegetativo hanno un grande potere di ascolto». È come se Giulia se ne stesse dietro una porta chiusa, e bisognasse convincerla ad aprila.
Ma la situazione non cambia. Tra impercettibili miglioramenti e repentine ricadute, nuove emorragie, crisi epilettiche, ripetuti ricoveri, infezioni batteriche, speranze e disillusioni, trascorrono i mesi e gli anni, e ben undici operazioni. Maura non si aspetta un miracolo, non è sorretta dalla fede: semplicemente fa quel che deve, che sente di dover fare, perché quando non si spera in un aldilà si è (si dovrebbe essere) tanto più attaccati a questo (unico e irripetibile) al di qua.
E però i miracoli, o chiamateli come volete, a volte avvengono. È un piovoso venerdì di febbraio del 2011, Maura seduta è accanto al letto della figlia, le tiene la mano. E quella mano a un certo momento si muove, sale per accarezzare la sua. Le chiede di ripetere il gesto, e Giulia lo ripete. Sette anni dopo, ha riaperto la porta. Di lì comincia la strada del recupero. Ancora un’operazione, per eliminare l’ennesimo batterio, poi un anno e mezzo in un centro di riabilitazione a Fontanellato, nel Parmense, e adesso Giulia è tornata a parlare, è tornata a casa, viaggia con la mamma (a Barcellona, a New York), compone versi che spera siano presi in considerazione da qualche rapper.
(Quasi) un lieto fine
Non è del tutto un lieto fine, perché sta su una carrozzella e probabilmente non tornerà mai più quella di prima. Ma comunque non è una fine. Per qualcuno potrà forse essere anche peggio, però l’esperienza di chi ci è passato, e si è risvegliato, insegna che pure in quelle condizioni, nella gran parte dei casi, è il desiderio di vivere a risorgere più forte. Anche se resta l’interrogativo, per Giulia e per tutti quelli nelle sue condizioni, di cosa ne sarà quando non ci saranno più i genitori ad accudirli. Maura pensa a un progetto di mini comunità alloggio collegate a un centro comune di assistenza, per contenere i costi dividendo le spese. Perché poi il problema sono sempre i soldi: come quando, dopo il primo anno al San Giovanni Bosco, sua figlia era in predicato di essere trasferita al Mauriziano, ospedale torinese all’avanguardia nel trattamento delle persone in coma, ma non poté essere accolta perché c’era un solo posto disponibile e venne riservato a un paziente con più possibilità di guarire. Logico, ma terribile.
Eppure i costi che si dovrebbero sostenere per i circa tremila casi italiani di stato vegetativo non sono proibitivi. Dieci-dodicimila euro al mese. Che moltiplicati per 3000 vuol dire da 360 a 432 milioni. Sembrano tanti, ma sono una goccia nel mare della sanità pubblica (114,7 miliardi previsti nel Def per il 2017). Anche da queste cose si giudica il grado di umanità di una società civile. E sì, è vero, sui tremila magari soltanto pochi ne verranno fuori, come Giulia. E allora? Dice il Talmud che chi salva una vita salva il mondo intero: 432 milioni vi sembrano troppi per salvare il mondo?
(fonte: La Stampa)
Vedi anche:
- Dopo 7 anni una carezza: “Così mia figlia Giulia si è svegliata dal coma”
- La scheda del libro L’amore non toglie la vita