TUTTI UGUALI NELLA CHIESA?
Giorgio Campanini
Sociologo e storico; esperto di pastorale familiare.
Membro del Gruppo “Il Vaticano II davanti a noi” (Parma)
Era inevitabile che anche le comunità cristiane dovessero misurarsi con il problema dell’uguaglianza, in una società che, assai prima che il termine apparisse sulle bandiere della rivoluzione americana e di quella inglese, aveva proclamato, e in non piccola misura applicato, questo principio, a partire da una serie di noti passi evangelici e dalla lapidaria affermazione della Lettera ai Calati (3, 19) “Non c’è giudeo né greco, non c’è schiavo né libero, non c’è maschio e femmina, perché tutti voi siete uno in Cristo Gesù”: passo nel quale vengono emblematicamente indicate, e superate, le tre grandi “disugualianze” di allora, e purtroppo sotto molti aspetti ancora di oggi, quelle legate all’appartenenza etnica, al ruolo sociale, alla differenza sessuale.
La dialettica uguaglianza-disuguaglianza
A partire da questa affermazione, e nel corso della sua lunga storia, la Chiesa ha gradatamente approfondito – pur non senza interruzioni di percorso e contraddizioni interne – la categoria di uguaglianza, sino a pervenire, con il Concilio Vaticano II, alla limpida affermazione, in una serie di suoi documenti, di questo principio.
Come sempre nella storia avviene, ed è avvenuto, non sempre, e soprattutto non subito, i principii entrano a vele spiegate nella prassi: così la storia del Cristianesimo è caratterizzata da ricorrenti aspirazioni all’uguaglianza e da altrettanto persistenti tentativi di ritorno alla disuguaglianza (in verità mai teoricamente affermata, ma di fatto sostenuta e per certi aspetti anche legittimata).
Molte delle “eresie”, che in tutte le epoche hanno attraversato la vita della Chiesa, hanno fatto riferimento all’uguaglianza, ora per ampliare la sfera della sua attuazione, ora per restringerla, attraverso quella costante dialettica fra autorità e libertà che caratterizza, da sempre, la storia degli esseri umani.
Il problema si ripropone – e con particolare acutezza dopo la Riforma – anche nelle comunità di cristiani che si sono succedute in questi 500 anni. A lungo è apparso che fossero fra loro incompatibili la scelta ora dell’autorità ora della suprema “libertà del Cristiano” tanto cara a Lutero (ma anche a Tommaso Moro e ad Erasmo da Rotterdam).
Guardiamo a tre questioni pratiche
Non stupisce, dunque, che questo tema sia rientrato prepotentemente all’ordine del giorno in occasione della riflessione collettiva in atto, in tutte le Chiese, in relazione al ricordo dei Cinquecento anni della riforma protestante. È del resto questo uno dei più accidentati terreni di scontro dei secoli passati e, in parte, anche di oggi.
Riflettere sullo “stato della questione” nei rispettivi campi del Protestantesimo nelle sue varie forme e del Cattolicesimo (esso pure articolato e pluralista assai più di quanto potrebbe apparire ad un osservatore superficiale) è in questa sede impossibile. Ci si soffermerà pertanto su questioni relativamente di non altissimo profilo ma che sul piano pratico hanno una non piccola rilevanza.
Prescindendo dalla complessa, e qui non affrontabile, questione dei Ministeri ordinati, e incentrando l’attenzione soprattutto sulle problematiche della laicità, si vorrebbero svolgere qui alcune essenziali riflessioni su tre specifici temi che possono essere letti anche come “esemplari” in ordine alla dialettica uguaglianza-differenza, e cioè – con specifico riferimento alle problematiche del laicato – la questione dei ministeri laicali, quella della predicazione dei laici quella della teologia dei laici: ambiti, tutti, nei quali la dialettica eguaglianza-differenza appare di tutta evidenza, con indirette ripercussioni anche sul piano del dialogo ecumenico.
Laici che evangelizzano
Restando ben fermo che tutti i battezzati sono chiamati alla propria santificazione e all’annuncio del Regno di Dio, nella Chiesa cattolica di ieri e sostanzialmente ancora di oggi l’annuncio del Vangelo è stato di fatto affidato soprattutto a figure “specializzate” Non si è mai negata la radicale uguaglianza fra tutti i battezzati – fortemente sottolineata, come ben noto, dal Vaticano II – ma di fatto si sono distinti i cristiani “docenti” e i cristiani “discenti”.
Questa separatezza è stata in gran parte superata nei documenti conciliari, ma non ancora nella prassi: di fatto le responsabilità relative all’annunzio della Parola e, in generale, all’evangelizzazione sono nella Chiesa cattolica affidate in modo determinante ai ministri ordinati (Vescovi, presbiteri e, in assai minore misura, diaconi).
Resta, fortunatamente, una diffusa presenza e una vivace testimonianza dei cristiani (dei semplici “battezzati”), che consente il permanere nella storia della Chiesa; ma è una presenza che troppo spesso appare collaterale e silenziosa. Il principio della radicale eguaglianza dei fedeli attende di essere attuato e sperimentato nell’ambito della evangelizzazione.
Laici che predicano
Il Concilio Vaticano II ha inteso “ridare la parola” ai laici, ma questa parola – che può e deve circolare liberamente nel mondo – ha un’eco del tutto secondaria nella predicazione, a partire da quella norma del vigente Codice di diritto canonico che riserva ai presbiteri e ai diaconi (nonché, ovviamente, ai vescovi) (can. 764) e consente ai laici – con una norma quasi mai realmente applicata- soltanto di predicare in una chiesa o in un oratorio “se in determinate circostanze lo richieda la necessità o in casi particolari l’utilità lo consigli” (can. 766).
Anche quando il celebrante sia di fatto impedito di parlare o il presbitero sia uno straniero non nel pieno possesso della lingua, o l’anziano presbitero non sia più in grado di predicare (eventi, questi, oggi tutt’altro che rari, data la forte elevazione dell’età media dei presbiteri e il “silenzio” di fatto imposto ai diaconi), anche in questo caso i laici – qui senza differenze fra uomini e donne – devono tacere.
Laici che fanno teologia
Il Concilio Vaticano II ha rivolto un forte appello ai laici perché entrino a vele spiegate negli studi teologici (cf. Gaudium et Spes, n. 62) ma ancora rari sono in Italia, anche se in promettente sviluppo, i laici teologi (donne e uomini), ma la presenza dei laici in questi ambiti – di per sé non preclusi ai comuni cristiani, come l’esperienza di altri Paesi attesta – è ancora in Italia marginale, pur se appaiono interessanti segnali di ritorno ad una prassi, quella della Chiesa antica, che non conosceva le attuali barriere.
Non vi sono dubbi, d’altra parte, sul fatto che una teologia arricchita, al maschile e al femminile, di giovani e fresche presenze laicali risulterebbe più vicina alle esigenze ed alle attese del popolo di Dio, evitando quell’eccesso di specializzazione che ha talvolta ridotto la teologia a orto chiuso di pochi iniziati.
Una Chiesa tutta ministeriale
Quelli dianzi indicati sono soltanto tre ambiti (importanti ma indubbiamente limitati) nei quali si potrebbe sperimentare il superamento di antiche separatezze – e, di fatto, di antiche disugualianze – fra laici ordinati e laici non ordinati. È ben vero che l’orizzonte all’interno del quale declinare, anche nella Chiesa, il principio di eguaglianza è assai più vasto.
Qui non si intendeva di certo esaurire un tema così, ampio e complesso ma soltanto offrire alcuni esempi di strade da percorrere in vista della realizzazione dell’ideale conciliare di una Chiesa di battezzati tutta ministeriale tutta posta al servizio dell’evangelizzazione: ciascuno con i suoi doni e i suoi peculiari carismi.
Il superamento delle diseguaglianze all’interno della Chiesa è stato, a partire dalle fondamentali pagine di Lumen gentium, uno dei principali intenti del Concilio; né si può negare che nei cinquant’anni che ci separano dal Vaticano II importanti e significativi passi siano stati percorsi. Altri potranno essere compiuti, augurabilmente, in un prossimo futuro, senza indulgere alla tentazione – cui in passato non pochi riformatori hanno ceduto – di una “Chiesa egualitaria” disegnata a partire da grezzi e disinformati “ritorni alle origini”.
La Chiesa, da sempre, è luogo di esercizio, nello stesso tempo, di autorità e di libertà: né l’una potrà mai essere sacrificata sull’altare dell’altra.
(fonte: Viandanti)