Discorrere di morte non è mai stato un compito facile, in particolare con i bambini, ma nemmeno tra adulti, e neanche con se stessi. Soprattutto oggi che, sull’onda lunga avviatasi con la seconda metà del Novecento, il rapporto tra la società e la morte è mutato, e la comunicazione sul morire è diventata ancora più difficile, sempre più limitata alla cerchia ristretta del morente e delle persone che gli stanno accanto, sempre più lontana dalla quotidianità della vita, sempre meno percepita dal contesto comunitario. Con l’abbattimento, in Occidente, della mortalità infantile e l’allungamento della vita oltre i settant’anni, la morte è stata allontanata in un futuro lontano, è stata espulsa, se non occasionalmente, dai fatti di famiglia, ed è stata accantonata dalla realtà della vita. Questo significa che la morte non fa più parte della vita: non la condiziona, non la limita, non infierisce. I meccanismi di difesa psicologici, individuali e collettivi, appoggiandosi su una constatazione di realtà (il fatto che la scienza e la medicina oggi consentano, nel Nord del mondo, di morire di meno e di vivere molto più a lungo), hanno consentito di dimenticare la morte, di esorcizzarla, di tenerla lontana dalle nostre paure e dalle nostre ansie. Alcuni studiosi hanno osservato come agli inizi del secolo scorso il tabù fosse la sessualità, mentre la morte era parte integrante della vita: quando moriva il nonno si era insieme, nella stessa casa e i riti di congedo (veglia, ritrovo della famiglia, funerale) permettevano a tutti – anche ai bambini – di essere presenti, di partecipare al lutto e di elaborarlo. Oggi siamo in presenza dell’esatto contrario: molta più confidenza con i temi della sessualità, ma silenzio totale per quanto riguarda la morte...
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