"Dopo l’assassinio di Falcone, Borsellino poteva essere salvato”.
Intervista a Vincenzo Musacchio*
Il criminologo ricorda la figura di Paolo Borsellino nel trentennale della strage di via D’Amelio, dove persero la vita oltre al magistrato anche Agostino Catalano, Walter Eddie Cosina, Emanuela Loi, Claudio Traina e Vincenzo Li Muli
Pierluigi Mele
ansa - Paolo Borsellino
Professore, che cosa ricorda della strage di via D’Amelio?
Fiamme, fumo, macerie e il rumore continuo e assordante degli allarmi. Mi chiedevo come fosse possibile in una democrazia come la nostra che la mafia, dopo 57 giorni dall’uccisione di Giovanni Falcone, fosse riuscita a uccidere anche Paolo Borsellino. Io e mio padre ci guardammo in silenzio e lui a un certo punto mi disse: l’hanno ucciso loro! Loro chi? La sua risposta fu: chi comanda in Italia. Non mi disse mai cosa volesse significare quella frase. Solo molti anni dopo ne compresi il reale significato.
Quale era questo significato?
La svelò lo stesso Borsellino prima della sua morte. “Mi uccideranno, ma non sarà una vendetta della mafia, la mafia non si vendica. Forse saranno mafiosi quelli che materialmente mi uccideranno, ma quelli che avranno voluto la mia morte saranno altri”. Mi raccontò Antonino Caponnetto che Paolo Borsellino fosse particolarmente turbato e preoccupato per la sua famiglia e per gli uomini della sua scorta. Caponnetto mi ricordò più volte quando chiese agli organi competenti di bonificare i luoghi abitualmente frequentati da lui, in particolare la rimozione delle auto parcheggiate in via D’Amelio, sotto casa della madre, dove andava almeno una volta la settimana. Nessuno fece nulla. Questo ci conferma, colpe, omissioni, negligenze e complicità di pezzi deviati di Stato che hanno - con dolo o colpa grave - agevolato la mafia. Borsellino, se lo Stato si fosse impegnato con tutte le sue forze, poteva essere salvato.
Lei attribuisce per questa strage anche responsabilità di Stato?
Non solo per via D’Amelio ma anche per Capaci e per quella di via Pipitone dove fu ucciso Rocco Chinnici. Francamente il solo fatto che per accertare la verità su via D’Amelio siamo al Borsellino quater, indica un totale fallimento dello Stato e di gran parte delle sue articolazioni coinvolte nell’accertamento della verità. Borsellino e lo stesso Falcone sono stati mandati al macello perché isolati e abbandonati da tutti, in primis, da quello Stato che avrebbe dovuto proteggerli ad ogni costo.
Le sue parole sembrano quelle di Fiammetta Borsellino…
In questo specifico contesto, condivido le sue riflessioni, credo, tuttavia, di aver espresso, come sono sempre solito fare, il mio pensiero e mi fa piacere che sia vicino a quello della figlia di Paolo Borsellino. Parole che tuttavia cadono nel vuoto poiché la battaglia per la ricerca della verità non è ancora cominciata e credo sia disgraziatamente lontana dall’esser raggiunta.
Secondo lei perché si decise dopo Falcone di eliminare anche Borsellino?
La mia opinione che, ovviamente, resta tale è che entrambi stavano per scoprire verità sconvolgenti che andavano ben oltre la mafia. Pronto allora il colpevole dopo pochi mesi dall’attentato: Vincenzo Scarantino. Un analfabeta che sembra non sapesse leggere e che vivesse di furti d’auto. Da quel momento le indagini entrarono nel più grande depistaggio della storia giudiziaria italiana. Sedici anni, contrassegnati dalla complicità di molti, dall’incompetenza e dalla superficialità della macchina giudiziaria per ben nove gradi di giudizio e dall’incostanza di tanti giudici.
Ha un ricordo particolare di o con Paolo Borsellino?
Lo ascoltai a un convegno su “Mafia e politica”, ebbi la possibilità di poter fare una domanda. Gli domandai: “Dottor Borsellino lei teme per la sua vita?”. La sua risposta, seguita quasi da un ghigno, fu più o meno la seguente: “Si. Temo per la mia vita e soprattutto per quella delle persone che mi sono vicine, dai miei familiari agli uomini della mia scorta”. “So che la mafia vuole la mia morte come quella del mio fraterno amico Giovanni Falcone ma penso che se moriremo non sarà solo per volere della mafia ma per una serie di concause che vanno dal nostro isolamento fino alla complicità delle istituzioni colluse e corrotte”. Vi fu un lungo silenzio, la mia fu l’ultima domanda. Mi alzai e mi diressi verso di lui come tutti i presenti e gli strinsi la mano. Ricordo che la sua presa fu molto forte, lui mi sorrise come fece con tutti poi accese una nuova sigaretta e si diresse verso l'auto di Stato che lo stava aspettando. Mi rimase impresso che si fermò per stringere la mano a tutti, nessuno escluso. Notai anche che fumò durante tutto il convegno a volte accendendo la sigaretta nuova con quella appena finita. Fu una giornata memorabile che ancora oggi resta stampata nella mia mente e che mi guida e m’induce a riflettere ogni giorno soprattutto sugli attuali rapporti tra mafie e politica.
Lei ha conosciuto e frequentato Antonino Caponnetto, avete mai parlato di Borsellino?
Antonino Caponnetto mi parlava di una delle caratteristiche del suo essere: la bontà d'animo. Lui definiva il “suo” Paolo (Caponnetto considerava Falcone e Borsellino suoi figli) un puro d'animo, un uomo di ammirevole onestà e di grande integrità morale, una persona che viveva una vita semplice e trasparente e che si schierava subito a fianco di chi aveva subito un'ingiustizia. Rita Atria, testimone di giustizia, che tutti chiamavano la “picciridda” di Paolo Borsellino, prima di togliersi la vita ebbe a dire di lui: “Ora che è morto Borsellino, nessuno può capire che vuoto ha lasciato nella mia vita. Tutti hanno paura ma io l’unica cosa di cui ho paura è che lo Stato mafioso vincerà e quei poveri scemi che combattono contro i mulini a vento saranno uccisi. Prima di combattere la mafia devi farti un auto-esame di coscienza e poi, dopo aver sconfitto la mafia dentro di te, puoi combattere la mafia che c’è nel giro dei tuoi amici, la mafia siamo noi e il nostro modo sbagliato di comportarci. Borsellino, sei morto per ciò in cui credevi ma io senza di te sono morta”. Questo era il valore di Paolo Borsellino e con le parole di Rita mi piace ricordarlo ma, a trent’anni dal suo assassinio, pretenderei semplicemente un po' di giustizia e di verità sui veri mandanti di quella ignobile strage.
Parliamo dell’Agenda Rossa, secondo lei che cosa c’era li dentro e perché è diventata un simbolo delle verità occultate?
Guardi cosa c’era contenuto io ovviamente non posso saperlo, ma lo racconta più volte Fiammetta Borsellino. Sull'Agenda Rossa del padre erano annotate moltissime riflessioni e valutazioni sulle sue attività investigative. In una strage assurda come quella di via D’Amelio quei contenuti sarebbero stati a mio avviso tutti gli elementi utili per ricostruire i fatti. Sappiamo che era sicuramente nella borsa di Borsellino quando esce da casa il 19 luglio secondo le univoche testimonianze dei suoi familiari. Ho sempre pensato che in quell’agenda Borsellino avesse scritto nomi, cognomi e fatti che avevano portato all’uccisione di Giovanni Falcone. Questa naturalmente è solo una mia sensazione.
Pochi giorni fa il tribunale di Caltanissetta ha assolto uno dei tre imputati e ha dichiarato prescritte le accuse contestate agli altri due poliziotti accusati di avere depistato le indagini sulla strage di via D'Amelio costata la vita al giudice Paolo Borsellino e agli agenti della scorta, come commenta questo provvedimento?
D’impatto mi verrebbe da dire che abbiamo il reato ma non il colpevole. La sentenza non esclude tuttavia il depistaggio che c’è stato ed è evidente. È caduta la calunnia aggravata dall’avere favorito la mafia. Il venire meno dell’aggravante ha determinato la prescrizione del reato contestato. Come sempre dico in questi casi si dovranno leggere le motivazioni per comprendere quali siano i fatti che abbiano determinato nei giudici un simile provvedimento. Una cosa, tuttavia, va evidenziata. Lo Stato ancora una volta ha esercitato in ritardo la potestà punitiva, con l’aggravante di averlo fatto in un processo importante come questo. La nebbia sulla strage di via d’Amelio oggi diventa purtroppo ancora più fitta.
Lo Stato che cosa avrebbe dovuto o potuto fare per evitare questa strage?
C’è chi dice che lo Stato abbia fatto tutto il possibile per salvare Borsellino. Personalmente disprezzo questa tesi. M’illumina nella mia opinione proprio Paolo Borsellino, ammazzato perché era vicino a verità sconcertanti, quando dice che politica e mafia sono due poteri che vivono sul controllo dello stesso territorio: o si fanno la guerra o si mettono d’accordo. Ecco io credo che lo Stato avrebbe dovuto fare la guerra e invece sembrerebbe si sia messo d’accordo.
Falcone e Borsellino, due grandi amici, due grandi magistrati che si completavano. In che modo?
Falcone, a detta di molti suoi colleghi, era una persona spesso propensa a cambiamenti radicali e nuove soluzioni investigative, era in sostanza un innovatore. Borsellino era più tradizionalista ma efficace e incisivo come il suo collega. Insieme imbattibili per sconfiggere la mafia, quella terribile organizzazione simile a cancro capace di arrivare ovunque. Amici per la pelle, sempre. Questo ha fatto di loro un binomio indissolubile e probabilmente ha deciso anche la cattiva sorte di entrambi.
*Vincenzo Musacchio, criminologo forense, giurista e associato al Rutgers Institute on Anti-Corruption Studies (RIACS) di Newark (USA). Ricercatore dell’Alta Scuola di Studi Strategici sulla Criminalità Organizzata del Royal United Services Institute di Londra. Nella sua carriera è stato allievo di Giuliano Vassalli, amico e collaboratore di Antonino Caponnetto, magistrato italiano conosciuto per aver guidato il Pool antimafia con Falcone e Borsellino nella seconda metà degli anni ’80. È oggi uno dei più accreditati studiosi delle nuove mafie transnazionali, un autorevole studioso a livello internazionale di strategie di lotta al crimine organizzato. Autore di numerosi saggi e di una monografia pubblicata in cinquantaquattro Stati scritta con Franco Roberti dal titolo “La lotta alle nuove mafie combattuta a livello transnazionale”. È considerato il maggior esperto di mafia albanese e i suoi lavori di approfondimento in materia sono stati utilizzati anche da commissioni legislative a livello europeo.
(fonte: Rai News 16/07/2022)
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Borsellino: trent'anni dopo la strage ancora senza verità
Celebrati numerosi processi in cui sono stati condannati boss e falsi pentiti ma restano ignoti gli autori del depistaggio
Un momento della commemorazione per i 25 anni dalla strage di via d'Amelio. Immagine d'archivio
Trent'anni e un numero di processi di cui è difficile tenere il conto.
Borsellino 1, bis, ter, quater, un giudizio di revisione per rimediare a sette ergastoli inflitti ingiustamente, poi l'atto d'accusa contro quello che è stato definito "il depistaggio più grave della storia repubblicana" e infine il giudizio, ancora in corso in secondo grado, a carico dell'ultimo superlatitante di Cosa nostra: il boss Matteo Messina Denaro.
Senza contare gli appelli e le pronunce della Cassazione. Decine di sentenze che hanno chiarito certamente il ruolo della mafia nell'attentato al giudice Paolo Borsellino e agli agenti della scorta, ma che lasciano ancora senza risposta tanti interrogativi: dalle responsabilità esterne a Cosa nostra, alla sorte dell'agenda rossa, il diario sul quale il giudice scriveva i suoi segreti, sparita nel nulla, fino ai nomi degli autori del depistaggio delle indagini sull'eccidio.
Depistaggio che, dicono i giudici "ci fu", ma che è rimasto senza colpevoli dopo il verdetto giovedì scorso che ha dichiarato prescritte le accuse rivolte a due dei poliziotti, accusati di avere inquinato le indagini sulla strage, e assolto un terzo agente. Anni di giudizi senza una verità: un paradosso tutto italiano che, specie nei familiari delle vittime, suscita amarezza e delusione. Ma andiamo con ordine: il primo processo per la morte di Paolo Borsellino viene celebrato nel 1994. Alla sbarra, come esecutori materiali Vincenzo Scarantino, piccolo contrabbandiere della Guadagna che si era autoaccusato della strage, il boss Salvatore Profeta, Giuseppe Orofino, proprietario dell'officina in cui venne imbottita di tritolo la 126 usata come autobomba, e Pietro Scotto. In primo grado furono tutti condannati all'ergastolo mentre Scarantino, pentito e accusatore degli altri, a 18 anni. In appello l'ergastolo è stato confermato solo per Profeta, la condanna di Orofino è stata portata a 9 anni per favoreggiamento e Scotto è stato assolto. Confermati i 18 anni a Scarantino. Le condanne sono definitive.
Il processo bis, nel quale erano imputati gli uomini della Cupola e i capi mandamento di Cosa nostra, si è concluso il 18 marzo del 2004 con 13 ergastoli. Il carcere a vita è stato confermato per Totò Riina, Salvatore Biondino, Pietro Aglieri, Giuseppe Graviano, Carlo Greco, Gaetano Scotto, Francesco Tagliavia. Ergastolo anche per Cosimo Vernengo, Giuseppe La Mattina, Natale Gambino, Lorenzo Tinnirello, Giuseppe Urso e Gaetano Murana che in primo grado erano stati invece assolti. La sentenza è diventata definitiva, ma il pentimento del capomafia Gaspare Spatuzza, che ha denunciato il depistaggio delle prime indagini commesso alle false accuse di Scarantino, ha determinato la sospensione delle pene per Profeta, Scotto, Vernengo, Gambino, La Mattina, Urso e Murana, ingiustamente accusati. Le loro condanne sono state annullate al termine del giudizio di revisione celebrato a Catania.
Il processo Borsellino ter si è concluso, invece, nel 2006, dopo che la Cassazione aveva parzialmente annullato la sentenza del 2003 della Corte d'Assise d'appello di Caltanissetta trasferendo il fascicolo a Catania. Inflitte condanne a vita a Bernardo Provenzano, Pippo Calò, Michelangelo La Barbera, Raffaele e Domenico Ganci, Francesco e Giuseppe Madonia, Giuseppe e Salvatore Montalto, Filippo Graviano, Cristoforo Cannella, Salvatore Biondo il ''corto'' e Salvatore Biondo il ''lungo'', Giuseppe Farinella, Salvatore Buscemi, Benedetto ''Nitto'' Santapaola, Mariano Agate, Benedetto Spera. I due collaboratori di giustizia Antonino Giuffrè e Stefano Ganci sono stati condannati rispettivamente a 20 e 26 anni di reclusione.
Condannati anche tre pentiti: Salvatore Cancemi (18 anni e 10 mesi), Giovanni Brusca (13 anni e 10 mesi), Giovanbattista Ferrante (16 anni e 10 mesi). Il Borsellino quater, invece, è diventato definitivo nel 2021 e vedeva alla sbarra due capimafia Salvatore Madonia e Vittorio Tutino condannati all'ergastolo per strage e i tre falsi pentiti Calogero Pulci (che ha avuto dieci anni), Francesco Andriotta (9 anni e 6 mesi) e Vincenzo Scarantino, uscito di scena per la prescrizione delle accuse.
Erano tutti imputati di calunnia. Il processo sul depistaggio, che sarebbe stato ordito attraverso la costruzione a tavolino dei falsi pentiti come Scarantino, è fresco di sentenza: alla sbarra, sempre per calunnia, ma aggravata dall'aver favorito la mafia, sono finiti tre investigatori che facevano parte del pool che indagò sull'eccidio: Mario Bo, Fabrizio Mattei e Michele Ribaudo. Caduta l'aggravante si è prescritta la calunnia per i primi due, mentre Ribaudo è stato assolto.
(fonte: Ansa 18/07/2022)
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