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lunedì 23 maggio 2022

L’Arcivescovo di Palermo nel trentennale delle stragi di Capaci e via D’Amelio: “L’amore è più forte della morte”. - «La vita di Falcone e Borsellino è stata un “evangelo”, una bella notizia. Hanno combattuto il male».

Mons. Lorefice, Arcivescovo di Palermo,
nel trentennale delle stragi di Capaci e via D’Amelio
“L’amore è più forte della morte”.
«La vita di Falcone e Borsellino è stata un “evangelo”, 
una bella notizia. Hanno combattuto il male».

“La mentalità mafiosa è a tutti gli effetti un anti-Vangelo e teme il Vangelo. Parlando dei martiri della mafia, ho più volte ribadito l’esortazione a diventare loro “soci”, ovvero a credere con loro e come loro che l’amore è più forte della morte”

E oggi possiamo dire che il loro esempio, insieme a quello di padre Puglisi o del giudice Rosario Livatino, entrambi beati, ha contribuito a una necessaria “rivoluzione” di mentalità nell’isola

(photo di Tony Gentile)


TRENTENNALE DELLE STRAGI DI CAPACI E VIA D’AMELIO
L’amore è più forte della morte
Corrado Lorefice, Arcivescovo di Palermo

Se vogliamo cogliere il senso di una ricorrenza come il trentennale delle stragi di Capaci e Via D’Amelio senza cadere nella retorica, dobbiamo intendere la memoria di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino come una provocazione che riguarda ognuno di noi da vicino e ci chiama a coinvolgerci in un progetto di liberazione individuale e collettiva.

Parlando dei martiri della mafia, ho più volte ribadito l’esortazione a diventare loro “soci”, ovvero a credere con loro e come loro che l’amore è più forte della morte.

Di Falcone e Borsellino ricordiamo oggi la capacità di non tirarsi indietro di fronte alle avversità e alle avversioni, irreprensibili nel declinare semplicemente verbi costruttivi, intelligenti, audaci: le parole del bene che prevale. Ci hanno dimostrato che quando un uomo offre in dono la propria vita scrive – consapevole o no – il Vangelo della speranza. E che la mentalità mafiosa è a tutti gli effetti un anti-Vangelo e teme il Vangelo, come teme l’avanzare di un così nitido esempio di attaccamento alla legalità e di un sereno senso del compimento del proprio dovere: è per questo che la mafia li ha uccisi, credendo di riuscire ad eliminarli.

Ma uomini e donne come loro, come gli agenti delle loro scorte, come Francesca Morvillo, come tutte le vittime della tragica logica di una convivenza umana modellata dalle connivenze, dalla violenza e dalla prevaricazione che la nostra Palermo ha così dolorosamente conosciuto – come non citare anche oggi Don Pino Puglisi o il giudice Livatino -, sono riusciti a erodere la cultura e la prassi mafiosa incidendo nella formazione di una diversa consapevolezza del diritto. Queste donne e questi uomini rappresentano oggi una vera e propria comunità di testimoni capace di generare nuovi cittadini operosi e irreprensibili, di trasformarsi in seme di una nuova umanità.

Giovanni Falcone, Paolo Borsellino e tutti i martiri per la giustizia ci hanno insegnato a ripensare il nostro modo di vivere insieme. Scegliamo oggi più che mai di impegnarci a costruire una città sempre più conformata al rispetto degli altri e delle regole della convivenza sociale, una città della solidarietà e della pace, una città generativa e accogliente, pronta a proporre un futuro di vita e di speranza alle nuove generazioni.
(fonte: Chiesa di Palermo 21/05/2022)

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Intervista.
Lorefice: «Da Falcone un seme per la svolta anticlan»

L’arcivescovo di Palermo, Lorefice, cita anche Puglisi e Livatino. «Così la mafia odia la fede: si trincera dietro di essa per un’ennesima ostentazione di potere»

«La vita di Falcone e Borsellino è stata un “evangelo”, una bella notizia. Hanno combattuto il male». 
La religione e la criminalità organizzata? «Assolutamente incompatibili. 
È un dovere denunciare i servitori infedeli dello Stato»

Era un giovane prete di 29 anni, Corrado Lorefice, quando la sua Sicilia veniva sconvolta trent’anni fa dalle stragi di Capaci e di via d’Amelio. «Ancora avverto il senso di oppressione che in quel 1992 mi portavo addosso», dice oggi l’arcivescovo di Palermo. Perché, aggiunge, «sembravano i segni di uno strapotere che l’anno successivo avrebbe portato all’uccisione di padre Pino Puglisi. Del resto la mafia era e resta questo: una concentrazione carsica di potere che crea oppressione e attenta alla realizzazione della dignità della persona ma mina anche le fondamenta della “città degli uomini” che come intento ha la convivenza sociale, fino addirittura a desiderare la redenzione del malvagio».

Ha un tono pacato l’arcivescovo Lorefice quando parla degli attentati che scossero l’Italia. Come ogni anno il presule si appresta a commemorare la morte di Giovanni Falcone, della moglie e degli agenti della scorta. E fra qualche settimana ricorderà anche l’assassinio di Paolo Borsellino e dei suoi cinque “angeli custodi”. «La loro vita è stata un “evangelo”, ossia una bella notizia», afferma.

Una pausa. «Hanno lottato contro il male. E, come Cristo che salendo a Gerusalemme era consapevole di andare incontro alla morte, anche loro sapevano di rischiare la vita per la giustizia e il bene. Ma non hanno avuto ripensamenti. E oggi possiamo dire che il loro esempio, insieme a quello di padre Puglisi o del giudice Rosario Livatino, entrambi beati, ha contribuito a una necessaria “rivoluzione” di mentalità nell’isola: la nostra realtà conosce ancora il dramma della criminalità organizzata ma, grazie al cielo, la coscienza è cambiata».

E la “svolta” che da Capaci è cominciata scenderà sulla fronte dei battezzati, dei ragazzi della Cresima, dei futuri sacerdoti di tutta la Sicilia. Perché dall’oliveto del Giardino della memoria, sorto dove Falcone era stato ucciso, è arrivato l’olio per il Crisma che il Giovedì Santo è stato benedetto nelle diciotto diocesi della regione. «Un gesto bellissimo – sottolinea Lorefice – che impegna noi cristiani, a partire dal nome che portiamo, a immettere nella storia quelle energie di liberazione dall’oppressione che il Signore ci chiede».
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