«Trovo che amara più della morte è la donna: essa è tutta lacci, una rete il suo cuore, catene le sue braccia. Chi è gradito a Dio la sfugge, ma chi fallisce ne resta catturato». L'acida misoginia del Qohelet-Ecclesiaste (7,26) non è che la spia accesa e rovente di un contesto socio-culturale patriarcale e maschilista che assedia le Scritture sacre ebraiche e che conferma quanto la parola divina sia "incarnata" ed esiga, perciò, una sana ermeneutica per evitare di precipitare nella soffocante palude del fondamentalismo. Queste coordinate così rigide sono state spezzate dall'irruzione del cristianesimo? Le Scritture sacre greche cristiane segnano al riguardo una svolta radicale? A rispondere al quesito si sono dedicati vari esegeti e teologi, soprattutto quando le discipline sacre – per secoli appannaggio del ceto maschile – hanno registrato la cospicua presenza di donne, a tal punto da dare origine a una teologia femminista militante, pronta a ritrascrivere la his-story sacra in una her-story della salvezza. Agli interrogativi sopra evocati risponde anche un apprezzato teologo domenicano, docente nella canadese Carleton University di Ottawa, Michel Gourgues. Il titolo rimanda a un lapidario asserto paolino: «Non c'è più giudeo né greco, non c'è più schiavo né libero, non c'è più né maschio né femmina perché voi tutti siete uno solo in Cristo» (Galati 3,28).Studiato anche nel suo contesto letterario, l'assioma rivela la sua qualità di memoria della primigenia tradizione gesuanica su questo tema. Il Gesù storico, infatti, è indubbiamente in distonia con l'eredità giudaica e Gourgues si premura di allestire nel primo capitolo del suo saggio il dossier di un tale atteggiamento inedito «in opere e in parole», rubricandolo sotto l'appello che Gesù rivolge a due donne: «Coraggio, figlia mia!» (Marco 5,34.41). Anche il Jesus remembered, ossia il Cristo descritto dagli evangelisti (per usare una locuzione dell'esegeta americano James D. G. Dunn), manifesta questa apertura, sia pure con qualche ombra, come quando il più "femminista" degli evangelisti, Luca, ricorda che Gesù era accompagnato da varie donne – tra le quali anche un'aristocratica come Giovanna moglie di Cuza sovrintendente alle finanze del re Erode Antipa – e che esse «servivano coi loro beni» sia lui sia gli apostoli (Luca 8,1-3). In realtà, questo verbo del servizio, che è ripreso anche nel caso della suocera di Pietro (Marco 1,37) e in quello di Marta, la sorella di Lazzaro e Maria, amici di Gesù (Luca 10,40), riflette una prassi normale nell'orizzonte storico di allora (e non solo…), ma è pure applicato ai maschi discepoli ai quali si ricorda che, per essere primi nel regno di Dio, bisogna "servire" come ha fatto lo stesso Cristo (Marco 9,35; 10,42-45). Il verbo, in greco, è diakonéo e avrà nel linguaggio neotestamentario una connotazione spirituale ulteriore (donde il nostro "diacono")...
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