«Questi ultimi hanno
lavorato una sola ora,
eppure li hai trattati
come noi, che abbiamo
sopportato il peso della
giornata e il caldo!».
(Matteo 20,12)
La parabola evoca, come accade spesso alla predicazione di Gesù, la concretezza di una situazione sociale amaramente costante nella storia dell’umanità. La parola di Cristo non è né eterea né aerea, bensì è piantata saldamente nel terreno delle vicende umane. Di scena è ora la disoccupazione e il precariato. Come è noto, nella piazza del mercato, quella principale della città, stazionavano i braccianti, in attesa che un proprietario terriero o un mediatore (l’infame prassi del “caporalato” dei nostri tempi ne è la continuazione) li prendesse a giornata.
Sappiamo lo sviluppo della parabola, narrata dal solo Matteo (20,1-16) e scandita sulla suddivisione della giornata secondo l’“orologio” di allora. Si parte con l’alba che è l’ultima parte della notte e la prima del giorno, si procede con la “terza ora”, cioè le nove, si passa alla “sesta” (mezzogiorno) e alla “nona” (le tre pomeridiane) e si giunge all’“undicesima ora”, in pratica le cinque del pomeriggio, alle soglie della sera e della notte. Il compenso pattuito è di un denaro d’argento, l’unità monetaria romana che rappresentava il salario giornaliero di un operaio e la spesa media di una giornata, come si dice nella parabola del buon Samaritano (Luca 10,35). Il denarius recava l’effigie dell’imperatore: si spiega così la scena del tributo a Cesare narrata nei Vangeli (Matteo22,19).
Strettamente parlando, quel padrone che pattuisce con tutti un denaro di paga, riservandolo anche a chi ha lavorato una sola ora pomeridiana, agisce, da un lato, correttamente sulla base del contratto “separato” stipulato con ciascuno, ma d’altro lato non è certo un modello di giustizia nelle relazioni industriali. Qual è, allora, il senso della parabola, fermo restando che il suo messaggio non può essere orientato all’ingiustizia sociale?
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