Quella domanda che è la morte
Una riflessione su eternità e limite
di Bruno Forte
Presso la Facoltà di Giurisprudenza dell’università La Sapienza di Roma, per iniziativa della Fondazione Istituto Irti per gli Studi Giuridici, il 23 maggio scorso l’arcivescovo di Chieti-Vasto Bruno Forte ha tenuto una lectio magistralis sul tema «Quella domanda che è la morte», di cui "L'Osservatore Romano" ha riportato un ampio stralcio.
Basta uno sguardo all’esistenza umana per constatare quanto la vita sia segnata dalla domanda che è la morte. Diversi per nascita, possibilità ed esperienze, gli abitatori del tempo sono solidali nell’essere tutti “gettati” verso la morte: «La morte — scrive Martin Heidegger in Essere e tempo — sovrasta l’Esserci. La morte non è affatto un mancare ultimo... ma è, prima di tutto, un’imminenza che sovrasta». È davanti a questa vertigine, però, che l’essere umano si fa inquieto riguardo al suo destino e si pone domande.
Lo fanno intuire questi intensi versi di Eugenio Montale:
«Noi non sappiamo quale sortiremo / domani, oscuro o lieto; / forse il nostro cammino / a non tócche radure ci addurrà / dove mormori eterna l’acqua di giovinezza; / o sarà forse un discendere / fino al vallo estremo, / nel buio, perso il ricordo del mattino. / Ancora terre straniere / forse ci accoglieranno: smarriremo / la memoria del sole, dalla mente / ci cadrà il tintinnare delle rime. / Oh la favola onde s’esprime / la nostra vita, repente / si cangerà nella cupa storia che non si racconta!» (Ossi di seppia). Il pensiero nasce, dunque, dalla morte: «Dalla morte, dal timore della morte — scrive Franz Rosenzweig — prende inizio e si eleva ogni conoscenza circa il Tutto. Rigettare la paura che attanaglia ciò che è terrestre, strappare alla morte il suo aculeo velenoso, togliere all’Ade il suo miasma pestilente, di questo si pretende capace la filosofia (...) Essa strappa oltre la fossa che si spalanca ad ogni passo. Permette che il corpo sia consegnato all’abisso, ma l’anima, libera, lo sfugge librandosi in volo» (La stella della redenzione).
Lo fanno intuire questi intensi versi di Eugenio Montale:
«Noi non sappiamo quale sortiremo / domani, oscuro o lieto; / forse il nostro cammino / a non tócche radure ci addurrà / dove mormori eterna l’acqua di giovinezza; / o sarà forse un discendere / fino al vallo estremo, / nel buio, perso il ricordo del mattino. / Ancora terre straniere / forse ci accoglieranno: smarriremo / la memoria del sole, dalla mente / ci cadrà il tintinnare delle rime. / Oh la favola onde s’esprime / la nostra vita, repente / si cangerà nella cupa storia che non si racconta!» (Ossi di seppia). Il pensiero nasce, dunque, dalla morte: «Dalla morte, dal timore della morte — scrive Franz Rosenzweig — prende inizio e si eleva ogni conoscenza circa il Tutto. Rigettare la paura che attanaglia ciò che è terrestre, strappare alla morte il suo aculeo velenoso, togliere all’Ade il suo miasma pestilente, di questo si pretende capace la filosofia (...) Essa strappa oltre la fossa che si spalanca ad ogni passo. Permette che il corpo sia consegnato all’abisso, ma l’anima, libera, lo sfugge librandosi in volo» (La stella della redenzione).
Eppure, nell’epoca moderna si è profilata una vera e propria eclissi della morte. L’ottimismo della ragione adulta dall’Illuminismo in poi aveva esorcizzato la morte, relegandola alla condizione di puro passaggio nel processo totale dello Spirito, culminante nel suo indubitabile trionfo. Il mito moderno del progresso, caro alle grandi narrazioni ideologiche, tendeva a banalizzare la morte, facendone una tappa marginale della storia dell’individuo, totalmente assimilato alla causa, sacrificato al trionfo dell’idea: la morte andava ignorata, evasa, nascosta. A sua volta, il pensiero debole del post-moderno evade la morte non meno che il pensiero forte delle ideologie: per entrambi la domanda della morte è disagio e fastidio, perfino quando l’ultima sponda fosse invocata o cercata come illusoria consolazione rispetto al vuoto di senso. Dietro l’evasione permanente della domanda, che è la morte, si nasconde in realtà l’assenza di passione per la verità: attraverso l’eclissi della morte si tende a portare gli uomini a non pensare più, a fuggire la fatica e la passione del vero, per abbandonarsi all’immediatamente fruibile, calcolabile col solo interesse della consumazione immediata.
È il trionfo della maschera a scapito della verità: è il nichilismo della rinuncia ad amare! Scompaiono i segni del lutto: la finzione rassicurante della propaganda vuole averla vinta sulla serietà tragica dell’interrogazione radicale. È col tramonto dei grandi racconti ideologici che si riaffacciano segnali di attesa. Sembra esserci una “nostalgia del Totalmente Altro” (Max Horkheimer), che si lascia riconoscere nelle inquietudini della crisi presente come una sorta di ricerca del senso perduto. Si profila una ripresa della questione del senso al di là delle varie forme di pensiero che evadono la morte, e con essa emerge l’urgenza di ritornare alla domanda, che è la morte: restituer la mort (Ghislain Lafont) è il compito che ci aspetta. Per la fede cristiana questo ritorno alla domanda che è la morte è sfida a tornare a quella morte, dove si è consumata la morte della morte: la morte del Figlio di Dio nella tenebra del Venerdì Santo e il Suo risorgere alla vita. Nell’evento infinitamente doloroso della morte in Dio avvenuta sulla Croce è rivelato e promesso il senso del vivere e del morire umano.
A quell’evento si volge lo sguardo della fede alla ricerca di un significato, che faccia non solo della vita il cammino responsabile dell’imparare a morire, ma anche della morte il dies natalis, l’evento misterioso del nascere oltre la morte.
Solo nella morte e resurrezione del Verbo incarnato si offrono le “trasgressioni” di Dio, che aiutano noi, abitatori del tempo, a “trasgredire” la morte: l’uscita di Dio da sé, l’exitus a Deo del Figlio venuto nella carne, attraverso il grande viaggio verso Gerusalemme, culmina nell’evento della Sua morte, inseparabile dalla totalità della sua esistenza e dal suo rapporto col Mistero assoluto. Illuminata com’è da ciò che la precede, la morte della Croce è rivelata nella sua profondità abissale dall’altra “trasgressione” divina, la resurrezione, che è il reditus ad Deum del Figlio fatto carne.
Nel Suo abbandono il Figlio non esita a rinviare al volto paterno e amoroso della nascosta Origine: «Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito» (Luca 23,46). La sua angoscia rivela la sua solidarietà con la condizione umana, nella quale fino in fondo è entrato. All’abbandono si unisce però nella vicenda del Figlio dell’uomo la comunione con Colui che l’abbandona: l’Abbandonato accetta in obbedienza d’amore la volontà del Padre: «Padre mio, se questo calice non può passare da me senza che io lo beva, sia fatta la tua volontà» (Matteo 26,42). La Croce rivela così la possibilità di vivere la separazione più alta come profondissima vicinanza: morire come Gesù e con Lui è abbandonarsi a Dio, lasciando che tutto si schiuda a un’altra luce, in Colui che ci accoglie.
Lo esprime con rara efficacia uno scrittore del nostro tempo, Renzo Barsacchi, testimone solitario e mistico, che prega così nei versi delle sue Notti di Nicodemo:
«Portami via per mano ad occhi chiusi / senza un addio che mi trattenga ancora / tra quanti amai, tra le piccole cose / che mi fecero vivo. / Non credevo, Signore, tanto profondo fosse / questo sfiorarsi d’ombre, questo lieve / alitarsi la vita nello specchio / fragile di uno sguardo, / né pensavo che il mondo / divenisse, abbuiando, così acceso / di impensate bellezze».
«Portami via per mano ad occhi chiusi / senza un addio che mi trattenga ancora / tra quanti amai, tra le piccole cose / che mi fecero vivo. / Non credevo, Signore, tanto profondo fosse / questo sfiorarsi d’ombre, questo lieve / alitarsi la vita nello specchio / fragile di uno sguardo, / né pensavo che il mondo / divenisse, abbuiando, così acceso / di impensate bellezze».
Ma chi potrà vivere come il Figlio dell’uomo l’unità di lacerazione e di abbandono nell’ora della morte? chi potrà come Lui trasgredire la soglia? Secondo la fede cristiana la forza, che sola rende possibile l’apparentemente impossibile unità di comunione e di abbandono nell’ora della morte, è lo Spirito Santo: è Lui che unisce e separa al tempo stesso l’Abbandonante e l’Abbandonato del Venerdì Santo, è Lui che ripresenta in chi muore abbandonato a Dio il mistero dell’abbandono vittorioso della Croce. «Cristo con uno Spirito eterno offrì se stesso senza macchia a Dio» (Ebrei 9,14). «Gesù disse: “Tutto è compiuto”. E, chinato il capo, consegnò lo Spirito» (Giovanni 19,30). Come nel seno delle relazioni trinitarie lo Spirito è l’unità e la pace dell’Amante e dell’Amato e al tempo stesso è l’estasi divina, che consente ad essi di uscire da sé nel dono dell’amore, così nell’evento della morte di Croce è Lui il vincolo della consegna amorosa del Padre e dell’obbedienza filiale del Crocifisso, è Lui il fuoco del sacrificio (vedi Ebrei 9,14), in cui essi consumano la loro lacerazione dolorosa per amore del mondo. Lontananza e prossimità coincidono grazie alla potenza del Consolatore della morte di Cristo e d’ogni morte umana: mentre sorregge l’abbandonato nel suo destino mortale, lo Spirito lo tiene unito a Dio, rendendolo capace dell’offerta suprema.
È quanto esprime l’iconografia della Trinitas in Cruce, dove l’evento della morte del Crocefisso è colto come rivelazione della Trinità: il Padre regge fra le Sue braccia il legno della Croce, da cui pende il Figlio, mentre la colomba dello Spirito separa e unisce l’Abbandonato e Colui che lo abbandona (si pensi alla Trinità di Masaccio in Santa Maria Novella a Firenze).
Mentre illumina dal di dentro la morte, il divino Consolatore agisce in essa, aiutando chi muore a vivere il suo ultimo esodo: nell’atto dello spirare, Egli non si sostituisce al morente, ma lo unisce a Cristo e lo rende così capace dell’ultimo dono, spirando in lui la carità, che sgorga dal cuore del Padre. Mistero di abbandono e di comunione, la morte è dunque agli occhi della fede un evento pasquale, illuminato dalla Croce del Risorto: raggiunta dalla signoria di Cristo, la morte passa nel suo contrario, la vita: «La morte è stata ingoiata per la vittoria. Dov’è, o morte, la tua vittoria? Dov’è, o morte, il tuo pungiglione?... Siano rese grazie a Dio che ci dà vittoria per mezzo del Signore nostro Gesù Cristo» (1 Corinzi 15,54s 57). L’atto del morire, alla luce di Pasqua, introduce oltre il limite della morte stessa: come il Cristo è passato dalla morte alla vita, così la morte, che egli ha fatto Sua, viene rivelata come passaggio ad una nuova condizione di esistenza, cammino pasquale verso il futuro aperto dal Risorto. Le “trasgressioni” di Dio rendono possibile la suprema trasgressione dell’uomo: la vittoria, appunto, sulla morte.