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mercoledì 8 maggio 2019

BIBBIA APERTA - Ospitalità di Maurizio Teani

BIBBIA APERTA 
Ospitalità
di Maurizio Teani SJ

Preside della Pontificia Facoltà
Teologica della Sardegna, Cagliari e
professore ordinario 
di Teologia Morale.


«Tutte le culture attestano, in un modo o nell’altro, il rispetto e l’accoglienza dello straniero. Più di cinquant’anni fa un grande teologo francese, il padre Daniélou, diceva che il passaggio dal mondo animale al mondo umano è avvenuto quando si è avuta la percezione che il diverso da me, chi è fuori, extra me e il mio spazio vitale, da nemico, hostis, è divenuto hospes, due termini che secondo i filologi rimandano alla stessa radice» (Di Sante C., «Lo straniero ospitato e lo straniero ospitante», in Ronchi E. [ed.], Lo straniero: nemico, ospite, profeta?, Paoline, Milano 2006, 59-60). L’arduo passaggio dal considerare lo straniero come potenziale nemico al riconoscerlo simile a sé aprendosi all’accoglienza è una conquista mai definitiva. Il sociologo statunitense Richard Sennett rileva che l’odierno fenomeno della globalizzazione si accompagna paradossalmente all’emergere di comportamenti tipici del mondo tribale: «il tribalismo abbina la solidarietà per l’altro simile a me con l’aggressività contro il diverso da me» (Insieme, Feltrinelli, Milano 2012, 14).

La questione dell’ospitalità, accordata o negata, trova ampio spazio nella Bibbia. Particolarmente istruttivo è il testo di Genesi 18-19. In esso sono presentati, uno di seguito all’altro, due episodi contrapposti: da una parte l’accoglienza che Abramo riserva a tre viandanti stranieri (Genesi 18,1-16); dall’altra la violenza nei confronti dello straniero ordita dagli abitanti di Sodoma, la città inospitale per eccellenza (Genesi 18,17-19,29). I luoghi dove si svolgono i due episodi – il primo alle Querce di Mamre (30 km circa a sud-est di Gerusalemme), il secondo alla porta della città di Sodoma (localizzata nei pressi del Mar Morto) – conferiscono alla narrazione una coloritura di tipo giudiziario. Infatti, per i nomadi, l’amministrazione della giustizia avveniva sotto una pianta, dato che essa, oltre a fornire riparo dal sole, era un punto di riferimento ben visibile in ambiente desertico. Per i sedentari, invece, l’amministrazione della giustizia si svolgeva nello spazio antistante la porta della città, il luogo pubblico (una sorta di piazza) in cui avvenivano anche le transazioni economiche. 
Il testo biblico invita così a riconoscere come Dio sia all’opera per instaurare un giudizio che getti luce sulla portata e le conseguenze di quanto accade nella storia. Ora, tale giudizio verte sulla qualità della relazione con lo “straniero”, simbolo dell’alterità in generale, la quale, al di là della figura concreta che assume, sempre domanda riconoscimento e accoglienza. 

Abramo e Lot: due sguardi diversi

Gli episodi narrati in Genesi 18-19 presuppongono le vicende riportate al capitolo 13, in cui si parla della separazione tra Abramo e Lot, il figlio del fratello morto. Al momento di lasciare la sua terra, Abramo lo aveva preso con sé, essendo divenuto suo tutore (Genesi 12,4). La decisione di separare le loro strade è legata alla disputa scoppiata tra i rispettivi pastori per lo sfruttamento dei pascoli (Genesi 13,7). Abramo, avvertendo come contraria alla fraternità la situazione di conflitto creatasi (v. 13,8: Non vi sia discordia […] perché noi siamo fratelli), decide di non avvalersi del diritto di scegliere per primo il territorio in cui fermarsi. Lot, allora, si volge verso oriente, ferma lo sguardo sulla parte fertile della regione e sceglie la valle del Giordano, descritta come una terra paradisiaca. 
I tre verbi che si susseguono nei vv. 10-11 (alzò gli occhi, vide, scelse per sé) lasciano indovinare lo spirito di possessività che lo ha guidato. Ma la sua scelta, a prima vista vantaggiosa, si rivela assai poco avveduta, perché lo porta ad abitare vicino a Sodoma, presso uomini malvagi e peccatori (vv. 12-13). Le conseguenze non tarderanno a manifestarsi, come documenterà il capitolo 19.

Abramo, a cui rimane la parte occidentale semi-desertica, pone le tende alle Querce di Mamre, che sono a Ebron(Genesi 13,18). In tale situazione di svantaggio, a cui è andato liberamente incontro, sarà raggiunto dalla benedizione divina. Si notino i verbi introdotti nei vv. 14-15: Alza gli occhi, vedi, darò a te. I primi due sono gli stessi incontrati al v. 10, ma con una differenza rilevante. Là avevano per soggetto Lot che, di sua iniziativa, aveva messo gli occhi sulla parte migliore del territorio. Ora sono all’imperativo: in essi risuona il comando che Dio rivolge ad Abramo di spingere lo sguardo in tutte le direzioni. L’iniziativa è di Dio, che fa seguire al comando una parola di promessa: Tutta la terra che tu vedi io la darò a te. Lot, spinto dalla brama di possesso, “prende” per sé, ma finirà per dover lasciare tutto. Abramo, che ha rinunciato a impossessarsi della terra migliore, la “riceverà” in dono da Dio in maniera sovrabbondante. In queste situazioni differenti, frutto di due atteggiamenti interiori distinti, Abramo e Lot si ritrovano a vivere l’ospitalità dello straniero che sopraggiunge. 

Alle Querce di Mamre
La tradizione ebraica ha visto in Abramo la figura paradigmatica della «vocazione all’ospitalità» propria di ogni essere umano (De Benedetti P., Ciò che tarda avverrà, Edizioni Qiqajon, Magnago [Vc] 1992, 39). Il racconto di Genesi 18,1-16, ambientato alle Querce di Mamre, alle porte del deserto del Negheb, si apre ritraendo Abramo seduto alla soglia della tenda nell’ora più calda del giorno (v. 1). Commenta Luigi Di Pinto: «L’uomo non nasce ospitale né lo diventa d’incanto. Per essere pronto ha bisogno di una pedagogia della soglia». Essa comporta, in primo luogo, l’entrare in sintonia con i ritmi della natura, accettando, di fronte alla canicola, di sospendere la propria attività, trovando così «la propria verità nella verità delle cose». È la via che permette di «riconciliarsi con la propria identità. Educarsi ad accogliere l’ospite presuppone il ritrovamento di questa familiarità con sé». Si deve essere in pace con se stessi per praticare l’ospitalità. La pedagogia della soglia domanda, in secondo luogo, di rimanere «sul limitare dello spazio dotato di una dimensione protettiva e di una dimensione comunicativa». La soglia segna una linea di demarcazione tra spazio intimo e spazio pubblico. Rimanere in essa significa, al contempo, attenzione a proteggere il proprio mondo “familiare” e capacità di apertura e di comunicazione con l’esterno (Di Pinto L., «Abramo e lo straniero», in Rassegna di Teologia, 38 [1997] 597-620, qui 611-612).

Abramo, forte della pacificazione interiore raggiunta, capace di pari cura per l’ambito intimo e per quello pubblico, sta sulla soglia nell’ora più calda del giorno, quando meno probabile è il passaggio di viandanti. Il patriarca appare pronto ad accogliere in ogni momento qualunque straniero si trovi a passare di là, come accade con i tre estranei presentatisi nel momento meno opportuno. La sua accoglienza è pronta, generosa e gratuita: coinvolge tutta la sua casa, imbandisce una ricca tavola per gli ospiti e li serve, senza prendere cibo per sé, cioè senza approfittare della situazione. Così facendo, egli riceve l’Altro, come lascia intendere l’annotazione iniziale del racconto, in cui i tre sconosciuti visitatori sono qualificati come il Signore (Genesi 18,1). All’accoglienza di Abramo segue la parola di benedizione, pronunciata da chi è stato accolto (18,10). In essa risuona la voce stessa di Dio, che ribadisce ad Abramo la promessa della nascita di un figlio. Il luogo dove si vive l’accoglienza diventa quello dove è promessa la fecondità. Si tratta di una fecondità e di un futuro che sembrerebbero impossibili. Ma non per Dio (cfr Genesi 18,14 e Isaia 51,1-2)! È la stessa “logica” già incontrata in Genesi 13,14-15: la rinuncia di Abramo a prendere per sé diventa il luogo in cui è ricolmato di un sorprendente dono dall’alto.

La seconda parte del capitolo 18 si sofferma ancora su Abramo, presentato ora come il confidente di Dio. Messo a conoscenza dal Signore della minaccia che incombe su Sodoma a causa del male che vi si compie, egli reagisce in modo sorprendente: intercede per i peccatori della città, che sono incapaci di vivere l’ospitalità.

Come accogliere nell’iniqua Sodoma?
All’accoglienza dello straniero celebrata in Genesi 18,1-16, si contrappone la vicenda narrata in Genesi 19. Il capitolo si apre con la menzione di Lot seduto alla porta di Sodoma (v. 1). Soffermiamoci su questa ambientazione iniziale. Sappiamo che il nipote di Abramo si era stabilito nella città cananea, convinto di fare una scelta vantaggiosa, garanzia di un futuro prospero. Dobbiamo supporre che si sia dovuto ben presto ricredere, rendendosi conto di quale violenza si nutrisse tanto seducente benessere. Egli stesso deve aver percepito il grido che saliva da Sodoma verso Dio (Genesi18,20), un appello incessante al Giudice di tutta la terra a intervenire per porre fine all’iniquità perpetrata nella città. Un comportamento iniquo che, come evidenzia il profeta Ezechiele (16,49-50), è consistito nel rifiuto di tendere la mano al bisognoso, a fronte di una vita trascorsa nella ricchezza spensierata e nell’ottusa spavalderia.

Stando fermo alla porta, là dove avveniva – come già ricordato – l’amministrazione della giustizia, Lot mostra di ricercare e attendere un giudizio che smascheri e condanni la logica perversa imperante tra gli abitanti di Sodoma. Nello stesso tempo, egli appare vigile, pronto ad accogliere in casa sua lo straniero di passaggio, offrendogli un riparo contro la volontà di cattura di quei cittadini corrotti. Accade così che l’ospitalità, già offerta da Abramo ai tre uomini, sia ora praticata da Lot nei confronti di quegli stessi viandanti, qui presentati come due angeli (19,1-3; nel seguito del racconto sono detti di nuovo uomini: 19,5.8.10.12.16). Il nipote di Abramo apre una breccia all’accoglienza dello straniero, contrastando la bramosia divorante di coloro che giungeranno ad assediare la sua stessa casa (19,4-9).

Avendo fatto spazio all’altro, Lot (e la sua famiglia con lui) beneficia di una presenza capace di sottrarre dalla presa mortale delle forze del male (19,10-11). Una liberazione che non avviene d’incanto. È necessario che Lot e i suoi obbediscano al comando di uscire dalla città violenta (19,12.14), prendendo consapevolmente le distanze dallo stile di vita dei suoi abitanti. Il testo registra la titubanza di Lot che, nonostante il cambiamento avvenuto in lui, fatica a mettere in atto tale decisione. La situazione è sbloccata dall’intervento provvidenziale di quegli uomini che aveva ospitato in casa sua. Proprio loro lo aiutano a fare il passo decisivo richiesto: per un grande atto di misericordia del Signore […] lo fecero uscire e lo condussero fuori dalla città (v. 16). Un passo da compiere senza voltarsi indietro, senza cedere a nostalgie regressive (v. 26). 

Il frutto dell’ospitalità
Come in un dittico evocativo, i capitoli 18 e 19 della Genesi ci presentano le due figure di Abramo e di Lot e il loro modo di rispondere alla richiesta di ospitalità dello straniero, che bussa alla loro porta, presentandosi nei luoghi in cui si amministra la giustizia. Pur trovandosi in situazioni molto diverse – conseguenza dei criteri opposti che hanno guidato le loro scelte quando si è trattato di separarsi – sia Abramo sia Lot non restano sordi all’appello degli ospiti ed entrambi sperimentano che la loro risposta apre la strada a un bene che sembra impossibile.

L’ospitalità di Abramo nasce da una conoscenza di sé profonda e riconciliata e avviene all’interno dei ritmi della natura, nel rispetto di chi ospita e di chi è ospitato. Apparentemente sembra “facile”, poco esigente e impegnativa; ma perché sia possibile il cuore di Abramo non deve essere “occupato” dall’attesa del figlio promesso che ancora non c’è, concentrato in modo esclusivo sulle proprie necessità, bensì aperto all’altro, che con la sua visita si fa portavoce di un appello di novità e crea lo spazio per ricevere il dono della discendenza promessa. Diversa è l’ospitalità di Lot perché diverso è il contesto in cui avviene. In una città rapace e iniqua, ostile agli stranieri, Lot pian piano scopre che il benessere frutto della rapina e della violenza non porta a nulla. La presenza dei due visitatori gli fa prendere coscienza di quanto accade intorno a lui e gli offre la possibilità di opporsi alla logica predatoria e mortifera della grande città compiendo un atto concreto di umanità e di resistenza in mezzo a una realtà corrotta, pronta ad aggredirlo. I visitatori, inoltre, aiutano Lot, e con lui anche la sua famiglia, a lasciarsi davvero alle spalle questo apparente e seducente bene di Sodoma, per riconoscere ciò che costituisce davvero il bene da custodire. Anche nel caso di Lot vi è in fondo una nuova nascita, il dischiudersi di una fecondità in precedenza soffocata.

Il racconto della Genesi non è certo isolato nella Bibbia. In modo sorprendente, in Deuteronomio 10,12-22, il comando rivolto dal Signore agli israeliti di circoncidere il cuore (v. 16) è posto in parallelo con quello di amare lo straniero (v. 19). La motivazione addotta è duplice: perché Dio ama lo straniero (v. 18) e perché anche voi foste stranieri nella terra d’Egitto (v. 19b). In fondo, «I figli di Abramo saranno figli dell’alleanza con JHWH nella misura in cui apriranno il loro cuore all’accoglienza amorosa dello straniero. Ricevendo il forestiero nelle sue “porte”, Israele imita Abramo, ma imita soprattutto il suo Signore e Dio, diventando come lui misericordioso e compassionevole. E come la tenda di Abramo, a motivo dell’accoglienza del viandante, divenne il luogo della promessa di vita (Genesi 18,10), così la città dei figli di Abramo sarà benedetta laddove il povero emigrato troverà pane e alloggio» (Bovati P., Il libro del Deuteronomio [1-11], Città Nuova, Roma 1994, 161-162).

(Fonte: Aggiornamenti Sociali - Novembre 2018)