Funivie, piante ed etica pubblica
di Andrea Grillo
I trasporti come metafore della cura di sé e della responsabilità verso gli altri
Alcuni mesi fa avevo presentato su questo blog un piccolo libro gustoso, di Giovanni Grandi, (Scusi per la pianta) che sviluppava “nove lezioni di etica pubblica” partendo da un “atto responsabile” con cui un ragazzo aveva lasciato un bigliettino accanto ad una pianta, che aveva rovinato con un colpo di pallone: si scusava e lasciava 5 euro di risarcimento. Fu un caso mediatico. E tanto più colpì perché metteva a nudo una fragilità di “etica pubblica” che oggi grida vendetta al cielo, con i ponti e le funivie che crollano. Vorrei riprendere il senso di quel testo di fronte agli eventi tragici di questi ultimi tempi.
Un mondo sempre più complicato chiede livelli sempre maggiori di responsabilità, di attenzione e di cautela. Lo chiede a tutti. In questo mondo le ferrovie, le autostrade, i vaporetti, gli autobus, le funivie sono “mezzi” – potremmo dire “media” – non semplicemente di movimento, ma di trasformazione e di simbolizzazione. In un famoso testo, un grande pensatore, M. De Certeau, diceva di essere stato per la prima volta ad Atene e di aver notato che i “mezzi di trasporto” si chiamavano “mataphorai”. I mezzi sono “metafore”, perché cambiano il modo di vedere le cose. Arrivare in una città come Genova in treno, in auto, in nave o in aereo offre della città una visione parziale o complessiva, dal basso o dall’alto, frontale o laterale.
Dietro ai mezzi di trasporto ci sono competenze, normative, rischi e cautele. Poiché gli uomini e le donne sono “metaforicamente abili”, imparano subito a stare al gioco dei mezzi che frequentano. E quando si abbassa lo stupore e si alza la abitudine, non solo si perde l’incanto, ma si innalzano i rischi. Così un ponte, che è sempre una sfida alla gravità, può crollare per la incuria di generazioni di addetti. Così un treno può trovarsi sullo stesso binario rispetto ad un altro che procede in senso inverso; così un autobus, la cui revisione è stata fatta “a distanza”, non può frenare quando arriva la discesa; così una funivia può viaggiare con le sicurezza disattivate e, nel momento del bisogno, può abbandonare persone inermi in balia della brusca riconduzione della tecnica al suo limite.
Poiché la assuefazione alla tecnica, che è la nostra elaborazione delle metafore, ci fa brutti scherzi, e può costarci la vita, allora dobbiamo elaborare strategie più complesse. Abbiamo il dovere di farlo.
Vorrei fare un piccolo esempio dei rischi con cui le novità si impongono e delle procedure necessarie per farvi fronte in modo adeguato. Ormai è facile che le nuove automobili abbiamo “sensori di parcheggio”. Se per qualche mese ti abitui a parcheggiare con i sensori, facilmente non parcheggi più con gli occhi, ma con le orecchie. E hai il grande vantaggio di essere aiutato, dai suoni, a calcolare quelle distanze, che gli occhi non riuscivano mai a cogliere. Ma questo aiuto, che è sicuramente prezioso, diventa un boomerang nel momento in cui tuo fratello ti chiede di parcheggiargli la macchina (senza sensori) e tu rischi di aspettare un suono per fermarti… e sbatti nell’albero o nella macchina che sta dietro. Perché la abitudine ad un “media avanzato” ci rende pericolosi con il media arretrato. Non siamo abbastanza elastici per adattarci prontamente alle condizioni diverse. Per farlo, abbiamo bisogno di “soglie critiche” e di “procedure complesse”.
Questo vale in privato. Sul piano pubblico e civile, le “norme di sicurezza” impongono “procedure vincolanti” che appaiono sempre come “esagerazioni”, in vacanza come sul lavoro. Ma la tutela – dell’utente del mezzo – dipende da procedure solo parzialmente controllabili e disponibili. Le procedure di controllo di una funivia, che prevedono diversi livelli di competenza, comportano evidentemente una cura scrupolosa. Una cabina sospesa a 50 metri sul fianco di una montagna implica naturalmente molteplici attenzioni. Ed è ovvio che solo la perfetta condizione dell’impianto può garantire un viaggio sicuro. Il fatto che entrambe le sicurezze, predisposte per scongiurare la perdita di controllo della cabina, possano essere state intenzionalmente disinserite, confidando che mai la fune trainante avrebbe potuto rompersi, è precisamente in aperta contraddizione col “sistema di sicurezza”. Che esiste precisamente per escludere il caso fortuito. Se anche si rompesse la fune, saremmo salvi! Possiamo osare risalire in pochi minuti con un “mezzo di trasporto” il dislivello di un kilometro solo se ci accolliamo la cura di ogni dettaglio. Il rischio maggiore, però, è che di fronte a questo episodio di gravissima imprudenza e irresponsabilità, possiamo chiedere semplicemente che “sia fatta giustizia”. Questo è certo necessario. Ma la vera necessità è comprendere come l’etica pubblica chieda che organi di controllo e procedure di sicurezza siano pubblicamente certificate e rese del tutto efficienti. Chiedono che non sia più possibile “disinserire il freno di emergenza” per potersi garantire qualche giornata in più di corse e di guadagni. Commisurare alle maggiori possibilità di movimento i maggiori requisiti di sicurezza è una grande sfida: perché proprio il movimento facile ci fa dimenticare le condizioni difficili che lo rendono possibile. Qui, davvero, il “senso dello Stato” – ossia un deciso incremento di “etica pubblica” – è l’unica salvezza. Nessun bricolage di buon senso può sostituirlo. Un ponte che crolla in Liguria, un autobus che precipita in Campania, una autostrada che si accascia in Sicilia o una funivia che cade in Piemonte sono una questione di etica pubblica che non riguarda solo alcuni singoli, ma una nazione intera, un intero sistema di compartecipazione alla responsabilità comune. Su questo piano abbiamo il “debito pubblico” forse più grave.
“Non volevamo uccidere nessuno”. Certo. Ma proprio per questo la cosa è ancora più grave. Un ponte può crollare perché lo si riempie di tritolo, per far morire tutti quelli che ci sono sopra. Qui è la volontà diretta a determinare la morte. Oppure un fulmine colpisce una cordata di scalatori. Qui è la “forza maggiore” ad essere alla radice della morte. Ma proprio quando hai il dovere di prenderti cura delle norme di sicurezza, e non lo fai, allora quelle morti, che tu non hai voluto direttamente, scaturiscono dalla tua omissione o dalla tua azione illecita. Ed è qui, tuttavia, che il “procedimento giudiziario” non basta. Applicare la sanzione è sacrosanto ma è sempre solo a posteriori. Una cultura della responsabilità pubblica e civile non si costruisce solo così, con la minaccia della sanzione. Piuttosto occorre una crescita comune di “etica pubblica”. Di chi non accetta di essere scavalcato e fa il suo dovere, crollasse il mondo. Di chi non si piega alle lusinghe della indifferenza e tiene conto che il suo “mestiere” è un “ministero”. Di chi non può tollerare in nessun modo che qualcuno telefoni ad un preside per far promuovere il proprio figlio e che il preside minacci i professori se non obbediscono al consiglio di promozione ed è disposto a denunciare il preside pur di non venir meno alla sua responsabilità di professore. Una etica pubblica della responsabilità è stata travolta dal crollo del ponte Morandi e dal precipitare della funivia di Stresa. La reazione giudiziaria, per quanto esemplare e veloce, non servirà a molto. Anche l’interesse comprensibile, ma anche morboso, per i dettagli giudiziari, può essere anche un diversivo. Prima di tutto è invece uno stile amministrativo, una abitudine alla procedura di controllo, una capacità di denuncia di ogni indifferenza e una incapacità di connivenza a dover essere profondamente recuperata. Quando crollano ponti o funivie, ci sono “catene di omertà” che hanno reso possibile l’evento tragico. Polarizzare sul “caso fortuito” o sull’”assassino disumano” non serve, se non come consolazione effimera. In gioco vi è, anzitutto, un modo di intendere l’etica pubblica. Queste tragedie sono l’esito di un modo di cavarsela di chi non fa il proprio dovere e gode della protezione di chi non ha il coraggio di opporsi. Bisogna dirlo apertamente: solo quando sei disposto a mettere a rischio la tua vita puoi davvero rispondere degli altri, fino a salvarli. La responsabilità non si lascia misurare in percentuale. La funivia non sarebbe crollata tragicamente solo se ognuno avesse fatto il 100% di ciò che era in suo potere, il superiore come l’inferiore, chi ha dato l’ordine e chi lo ha eseguito. Ognuno avrebbe pagato un prezzo per essere responsabile: a costo di perdere il posto, di perdere amici, di perdere considerazione, di perdere danaro, di perdere tempo. Anche solo un 1% di indifferenza alla vita altrui rende possibile il peggiore dei crolli, la peggiore delle tragedie. Il problema è proprio questo: non che qualcuno abbia voluto la morte di coloro che sono state le vittime, ma che qualcuno abbia ritenuto superflua la propria responsabilità e sia rimasto indifferente alle piccole violazioni che preparano i grandi lutti. Non di assassini, ma di funzionari indifferenti e interessati deve occuparsi una nuova stagione di etica pubblica per l’Italia. E non è detto che, in tutto questo, come appare dal limpido libro di Giovanni Grandi, non siano proprio i giovani a risultare maestri di responsabilità. Che l’età certo dovrà mettere alla prova, come accade sempre di nuovo, di generazione in generazione.
(Pubblicato il 30 maggio 2021 nel blog: Come se non)