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martedì 20 ottobre 2020

"NELLA PANDEMIA IL BENESSERE È COLLETTIVO, NON INDIVIDUALE" di Chiara Giaccardi e Mauro Magatti

"NELLA PANDEMIA 
IL BENESSERE È COLLETTIVO, 
NON INDIVIDUALE"
di Chiara Giaccardi e Mauro Magatti *


Avevamo tutti sperato, nel corso di quest’estate, che il virus sarebbe mutato fino a scomparire dall’orizzonte. È invece bastato il calo della temperatura per far schizzare il numero degli infetti ai livelli di marzo scorso, anche se la situazione oggi è diversa: la scienza ha cominciato a raccapezzarsi, i nostri sistemi sanitari sono più preparati, la popolazione più consapevole. Si sente spesso dire che le pandemie ci sono sempre state. E che anche questa passerà. Ma la differenza è che il coronavirus è la prima pandemia globale “in tempo reale”.
Invece che sventolare l’immagine mitica e negazionista della ripresa, perché non insistere su quello che dobbiamo cercare di fare in questi mesi “liminali” (cioè di passaggio)? Si deve riorganizzare la sanità. Il processo (forse) è appena cominciato. Lo smart working è partito, con un’accelerazione prima impensabile. Generali e stata la prima impresa ad annunciare che questo nuovo modello organizzativo sarà permanente e applicato a tutti i dipendenti. Ma quali saranno le implicazioni in termini contrattuali e di organizzazione della vita quotidiana nelle nostre abitazioni e nei nostri quartieri? Il passaggio va gestito, servono un pensiero e una visione integrata. Considerazioni analoghe per la scuola e l’università.

Anche una volta debellato eventualmente il Covid, saremo comunque esposti ad altri shock globali. Cosa può accadere alle nostre società se il sistema economico per un tempo indefinito non è più in grado di garantire quel benessere su cui si sono rette le democrazie avanzate? Le tensioni tra i gruppi che pagano più direttamente le conseguenze del blocco economico e quelli più protetti, o che addirittura stanno guadagnando dall’epidemia, sono già evidenti, e sono destinate a esplodere. Non è certo dalla somma di egoismi individuali che può scaturire il bene comune.

Il paradosso in cui ci troviamo é che l’emergenza imporrebbe un cambiamento di mindset, ma al tempo stesso rende più difficile muoversi in questa direzione.
Ad esempio: oggi prendere un mezzo pubblico e un rischio. E allora via con l’auto privata. Per uscirne, occorre il contributo di tutti. Bernard Stiegler ha insisto su questo già da diversi anni, parlando della necessità di passare da un’economia del consumo a un’economia della contribuzione; da un individualismo estrattivo a una collaborazione collettiva.
Né la concorrenza nella versione liberale né la protezione pubblica nella versione statalista possono bastare, se non sapremo riconoscere che, per guardare avanti, é necessario tornare a impegnarsi tutti nella produzione di valore. Finita la spinta che per tre decenni è venuta dalla globalizzazione e dalla finanziarizzazione, occorrono logiche innovative sia per la produzione che per la distribuzione della ricchezza.
Perché contribuire? Non si tratta di un atto volontaristico, ma di realismo. A cominciare dalla gestione del contagio, non c’è futuro senza il mattone che ognuno può portare alla costruzione comune.

Contributo a cosa? A un valore che non è solo economico, ma che è insieme anche sociale, culturale, educativo, etc. Noi veniamo da una stagione in cui la stessa misurazione del valore si concentrava esclusivamente sulla dimensione economica, spesso ridotta a finanza. Oggi non è più così.
Nell’economia della contribuzione possiamo aumentare – e non diminuire – la nostra felicità. Non si tratta di fare sacrifici, ma anzi di coltivare capacità e dimensioni esistenziali finora rimaste inespresse. Non si tratta solo di sopravvivere ma di vivere meglio. E così forse riusciremo a superare le passioni tristi che da tempo hanno invaso le nostre strade e nostri animi. Naturalmente a condizione di non dimenticare che ci sono interi gruppi sociali che sono solo interessati a salvaguardare il proprio livello di benessere. E che non vogliono nemmeno sentir parlare di
cambiamento.
Il punto è allora far capire che quest’operazione è possibile solo a condizione di cambiare l’idea stessa di benessere, che sarà sempre meno “individualistica” – qualcosa che riguarda il singolo lo – e sempre più sociale e collettiva. Non solo quantitativa ed espansiva, ma anche qualitativa e capace di senso. Non più esclusiva e difensiva, ma inclusiva e in grado di valorizzare le differenze a beneficio di tutti. Se come scriveva Kierkegaard la speranza è la `passione per il possibile’, è il momento di appassionarsi al mondo e accompagnare il cambiamento necessario.

(Fonte: pubblicato su  “Domani” -18 ottobre 2020)

* Chiara Giaccardi e Mauro Magatti insegnano sociologia all’Università Cattolica di Milano. 
Hanno appena pubblicato per il Mulino il saggio "Nella fine è l’inizio – In che mondo vivremo"