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martedì 19 marzo 2019

«Chi è don Peppe Diana?» A 25 anni del suo assassinio proviamo a rispondere...


Ucciso 25 anni fa. 
«Chi è don Peppe Diana?»
chiese il killer. 
Ecco la risposta


Il sacerdote venne assassinato dalla camorra perché pretendeva di servire la Verità e di non lasciare i giovani in mano alla criminalità

Don Peppe Diana

Sono le 7,25 del 19 marzo 1994. "Chi è don Peppe?". "Sono io". Cinque colpi di pistola. Risuonano nella sacrestia della chiesa di San Nicola a Casal di Principe.

Così muore don Peppe Diana. Appena 36 anni. Parroco, capo scout Agesci, impegnatissimo coi giovani, vicino concretamente alle persone più fragili, ai disabili, agli immigrati. Sacerdote fin nel più profondo, parlava chiaro, diretto. Non aveva paura di esporsi e di pronunciare il nome “camorra” e di accusare.

E i killer della camorra lo uccisero il giorno del suo onomastico, mentre coi paramenti sacri stava uscendo dalla sacrestia per celebrare la messa. Gli amici lo aspettavano per festeggiarlo, ma non li raggiunse mai.

Don Peppe Diana: su Tv2000 il docufilm sul sacerdote ucciso dalla camorra

Don Giuseppe Diana, per tutti Peppe o Peppino, era nato a Casal di Principe il 4 luglio 1958, da mamma Jolanda e papà Gennaro, entrambi coltivatori diretti. Famiglia semplice e dignitosa. Nel 1968 entra in seminario ad Aversa. Successivamente continua gli studi teologici nel seminario di Posillipo, sede della Pontificia facoltà teologica dell'Italia Meridionale. Qui si laurea in teologia biblica e poi si laurea in Filosofia presso l'Università Federico II di Napoli. Nel 1978 entra nell'Associazione Guide e Scouts Cattolici Italiani (AGESCI) dove fa il caporeparto.

Nel marzo 1982 è ordinato sacerdote. Diventa assistente ecclesiastico del Gruppo Scout di Aversa e successivamente anche assistente del settore Foulards Bianchi. Dal 19 settembre 1989 è parroco della parrocchia di San Nicola di Bari in Casal di Principe, suo paese nativo, per diventare poi anche segretario del vescovo della diocesi di Aversa, monsignor Giovanni Gazza. Nel 1983, dopo un gravissimo omicidio di camorra con tre ragazzi uccisi e poi bruciati, è tra gli organizzatori di una manifestazione a Casal di Principe nella quale viene distribuito un volantino dal titolo “Basta con la paura”.

Nel 1988, all’indomani dell’assalto alla caserma dei carabinieri a San Cipriano d’Aversa, partecipa alla costituzione di un coordinamento anticamorra dell’agro aversano che produce un documento dal titolo "Liberiamo il futuro", sottoscritto da parroci, partiti politici e associazioni. Dopo la morte dell’ennesimo innocente, un giovane testimone di Geova ucciso per sbaglio, don Peppe fa della lotta alla camorra un impegno costante e continuo. 

Va per scuole e associazioni a Caserta e a Napoli e nel 1991 elabora con gli altri parroci della Forania di Casal di Principe il documento "Per amore del mio popolo", ispirato a quello dei Vescovi campani del 1982, che viene distribuito nella notte di Natale. Solo quattro pagine, un "avviso sacro", ma denso e forte. "La camorra, oggi, è una forma di terrorismo che incute paura, impone le sue leggi e tenta di diventare componente endemica nella nostra società campana". Per questo, aggiunge don Peppe con gli altri parroci, "contro questo tentativo, noi, Pastori delle Chiese della Campania, unitamente alle nostre Comunità cristiane, dobbiamo levare alta la voce della denuncia, e riproporre con forza e con nuove iniziative pastorali il progetto dell'uomo nuovo, creato secondo Dio nella giustizia e nella verità".

In primo luogo, afferma il documento, "vogliamo sottolineare la contrapposizione stridente che esiste tra i falsi messaggi della camorra e il messaggio di Gesù Cristo". Parole che anticipano le chiare parole di Giovanni Paolo II e Papa Francesco. Come quando affermano che "questa sacrilega deformazione culturale e sacramentale, Il fenomeno della camorra ci interroga in maniera perentoria sul nostro modo di essere Chiesa; oggi, in Campania, ci sfida ad essere una vera contrapposizione, una autentica proposta di civiltà, ad essere non solo credenti, ma credibili". Una frase che ricorda l'analoga riflessione del giudice Livatino, ucciso dalla mafia siciliana.

Un documento che si scontra col potere camorrista. Ma non è l'unica causa della reazione violenta del clan. Don Peppe ha ben chiaro, non a caso come aveva capito don Pino Puglisi, vittima di "cosa nostra", che il fronte più importante da presidiare è quello dei giovani, per allontanarli dalle illusioni criminali. E così fece in parrocchia e con gli scout. Come fu tra i primi a capire le problematiche dell'immigrazione, aprendo la parrocchia agli sfruttati e alle vittime della prostituzione. 

Don Peppe Diana, al centro, con l'amico Augusto De Meo

Un impegno bloccato dal piombo camorrista. Tutto accadde nel silenzio. Non stette in silenzio Augusto Di Meo amico di don Peppe. Era andato in parrocchia per fargli gli auguri per l'onomastico e dargli l’appuntamento per offrirgli la colazione. Mentre usciva vide bene il killer Giuseppe Quadrano e non ebbe alcuna esitazione. Andò dai carabinieri raccontò tutto, contribuendo in maniera determinante all'individuazione e alla condanna di mandanti e esecutori.
(fonte: Avvenire, articolo di Antonio Maria Mira 15/03/2019)

Siamo Noi - 15 marzo 2019 - L'eredità di Don Peppe Diana
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DON PEPPE DIANA, MARTIRE PER AMORE DEL SUO POPOLO

Chi era il sacerdote ammazzato dalla Camorra a Casal di Principe il 19 marzo 1994 mentre si apprestava a celebrare Messa? La parola a chi l'ha conosciuto da vicino


«Ero andato in chiesa per augurargli buon onomastico. Commentammo l’ultimo omicidio della camorra e gli chiesi: “Peppe, che cosa possiamo fare?”. Mi rispose: “Dobbiamo pregare”». Di lì a poco, racconta Augusto Di Meo, testimone oculare dell’omicidio, i cinque colpi di pistola: don Giuseppe Diana, il parroco campano ucciso dalla camorra il 19 marzo 1994, fu assassinato alle 7.20 del mattino nella sacrestia della sua chiesa di San Nicola di Bari a Casal di Principe. Aveva 36 anni e si stava apprestando a celebrare la Messa. Il giorno dopo Giovanni Paolo II ricordò nell’Angelus il «generoso sacerdote, impegnato nel servizio pastorale alla sua gente»: «Sento il bisogno di esprimere il vivo dolore in me suscitato dalla notizia. Voglia il Signore far sì che il sacrificio di questo suo ministro, evangelico chicco di grano caduto nella terra, produca frutti di piena conversione, di operosa concordia, di solidarietà e di pace».
A 25 anni dall’omicidio anche monsignor Angelo Spinillo, vescovo di Aversa, diocesi a cui apparteneva don Diana, riconosce in lui «una ricchezza che non va dimenticata»: «Ci lascia l’importanza del non nascondersi. Entrando in sacrestia il killer vide due uomini, don Diana e Augusto Di Meo, e chiese “Chi è don Diana?”. A una domanda del genere spesso usiamo rispondere “Perché, che vo’?”. Lui invece annuì: “Sono io”. Don Diana insegna a non nascondersi, nemmeno dinnanzi alle difficoltà».

E di “difficoltà” non ne mancavano negli anni Ottanta e Novanta del secolo scorso, quando nell’Agro Aversano, provincia di Caserta, la camorra la faceva da padrona. Un morto ogni due giorni e l’uccisione del giovane Angelo Riccardo, freddato per errore mentre rientrava da un incontro con i Testimoni di Geova, spinsero don Diana ad alzare la voce. Riprendendo il documento della Conferenza episcopale campana del 1982, scrisse Per amore del mio popolo, un’intensa denuncia contro la camorra, «forma di terrorismo che incute paura, impone le sue leggi e tenta di diventare componente endemica nella società campana». Il testo fu sottoscritto dai parroci della forania di Casal di Principe: «Il nostro impegno profetico di denuncia non deve e non può venire meno», affermarono i sacerdoti. «Con il documento Per amore del mio popolo la denuncia cominciò a essere più radicale e capillare», ricorda Renato Natale, attuale sindaco di Casal di Principe, alla guida della cittadina anche ai tempi dell’omicidio.

In quegli anni don Diana cercava di coinvolgere i giovani in una vita sana, lontana dal malaffare. Capo scout Agesci dal 1978 – e assistente spirituale degli scout Foulards blanc – introdusse in parrocchia i primi Campi scuola: qualche giorno fuori casa, maschi e femmine insieme, per crescere come cristiani e cittadini. Attento ai segnali del territorio, capì che i primissimi immigrati in arrivo dall’Africa potevano facilmente diventare mano d’opera a basso costo per gli interessi della criminalità organizzata: andò a cercarli e con loro costruì una rete umana e sociale. «Era solare, esuberante, un prete felice di annunciare il Vangelo», ricordano i fratelli Marisa ed Emilio. «Capace di stare accanto ai ragazzi e dare loro fiducia», aggiunge Valerio Taglione, scout con don Diana e oggi presidente del Comitato a lui intitolato. Il suo operato e le omelie in cui descriveva senza paura i danni della camorra diventarono sempre più “scomode”. A far traboccare il vaso fu il rifiuto di celebrare in chiesa i funerali di un malavitoso: un “affronto”, che ne decretò definitivamente la morte. Per il suo omicidio sono stati condannati il boss Nunzio De Falco come mandante, Giuseppe Quadrano autore materiale, Mario Santoro e Francesco Piacentini coautori.

Il 21 marzo, primo giorno di primavera, al suo funerale parteciparono in più di 20 mila. Il corteo fu aperto dagli scout, i giovani dell’Azione cattolica e i suoi studenti (insegnava al liceo del seminario e all’istituto tecnico di Aversa), mentre alle finestre vennero appese lenzuola bianche. Di lì a breve inizieranno però le diffamazioni. Don Diana aveva relazioni con le donne, era pedofilo, nascondeva le armi dei clan: le voci che giravano a Casal di Principe, 20 mila abitanti e un contesto di provincia, con il solo scopo di infangarne la memoria e depistare le indagini. Voci puntualmente smentite dagli inquirenti: in secondo grado e poi in Cassazione i giudici esclusero i moventi passionali e confemarono quelli camorristici. Ma le prime insinuazioni lasciarono un lungo strascico di ombre e incomprensioni, e ancora si discute se il parroco di Casal di Principe sia stato un martire, un prete anticamorra, o altro. Don Diana è una figura scomoda, proprio come la voce dei profeti, e la beatificazione oggi non è in vista. 
«L’ho proclamato in tutti i modi e prima di morire ci tengo ad affermare ancora, in nome di Dio e della mia coscienza: don Diana è un martire della fede», afferma accorato monsignor Raffaele Nogaro, 86 anni, vescovo emerito di Caserta e padre spirituale del sacerdote campano. Domenica 17 marzo 6 mila scout dell’Agesci sfileranno per le vie di Casal di Principe. Il 19 marzo poi, la manifestazione con le scuole e le autorità, preceduta dalla presentazione del francobollo celebrativo e dalla funzione religiosa: alle 7.30 nella chiesa di San Nicola di Bari il vescovo monsignor Spinillo celebrerà la Messa che don Diana non fece in tempo a officiare.
(fonte: Famiglia Cristiana, articolo di Laura Bellomi 15/03/2019)


Il vescovo di Aversa.
«In ascolto del popolo, la lezione di don Peppe»

Il 19 marzo 1994 veniva ucciso il sacerdote simbolo della lotta alla camorra. Il vescovo di Aversa, Spinillo: un martire, che non ha taciuto contro la violenza delle mafie

il vescovo di Aversa, Angelo Spinillo

«Don Peppe Diana era un sacerdote di questa terra, che coltivava una speranza, il sogno che non si taccia e che invece si possa parlare, che si sia capaci di esprimere un desiderio di bene e di diventarne protagonisti. È stato un martire, che è chi non si nasconde ma vuole vivere dialogando anche con l’assassino». Così il vescovo di Aversa, monsignor Angelo Spinillo, ricorda il parroco di Casal di Principe, ucciso 25 anni fa, il 19 marzo 1994.

Monsignor Spinillo, lei in una recente Lettera pastorale ha definito don Diana "sentinella e profeta". Perché?

È il messaggio che ci viene da tutto il suo cammino sacerdotale, fino alla morte. In primo luogo essere sentinelle che non tacciono. Ma non solo nel senso della denuncia. La sentinella deve individuare il male fin dal suo sorgere ed evidenziarne i pericoli, ma deve poi coniugarsi con la profezia che è l’annuncio della meta verso cui andare, annuncio di speranza.

E questo era don Peppe?

Era un attento osservatore dei segni dei tempi attraverso i quali il Signore ci parla. Perché uno non taccia e possa parlare, deve saper prima ascoltare e don Peppe ha saputo ascoltare le fatiche e le difficoltà di un popolo vessato da forme gravi di sopraffazione ma soprattutto ha saputo ascoltare la voce di Dio che lo chiamava ad essere sacerdote nella realtà di questo popolo fino all’offerta di sè per la vita del suo popolo.

Perché un sacerdote arriva al punto di essere "scomodo" per la camorra e deve morire?

Viveva in un territorio del quale ha respirato le situazioni di difficoltà, del quale ha imparato a riconoscere la sofferenza ma anche la rassegnazione a dinamiche di prepotenza, di violenza mafiosa quasi subite come qualcosa di ineluttabile, nella logica del prevalere del più forte sul più debole. Però poi da questo ambiente nel quale è cresciuto, don Peppe si distacca e annuncia qualcosa di nuovo, una visione della vita diversa. Scomodo anche nell’annunciare un tipo di religiosità diversa da quella a cui si era abituati. Nella camorra si vive una forma di religiosità in cui c’è la stessa logica di sopraffazione, in cui il più forte è colui che può elargire favori o dare condanne. Essere religiosi come sottomessi a una potenza più che partecipi di una vocazione a condividere la grazia e la carità. Quindi chi annuncia una religiosità che invita a essere fermento e partecipazione di vita, diventa uno fuori dal coro, scomodo.

Lei nel 2011, il giorno prima dell’ingresso come vescovo ad Aversa, è andato sulla tomba di don Peppe. Come mai?

Quel gesto voleva dire che in don Peppe vedevo tutti i sacerdoti ma anche tutti i fedeli che in questo territorio vivono con impegno la lotta alla camorra e a tutto ciò che è prepotenza, egoismo, male. Volevo dire a tutti quelli che sentono di poter essere nella Chiesa coloro che amano il Vangelo e lo vogliono vivere, che io ero con loro.

Poi più volte è tornato sulla figura di don Peppe con la ripubblicazione del documento del Natale 1991, una sua rielaborazione e recentemente una Lettera pastorale proprio su di lui.

Come tutte le figure che sono in qualche modo fuori dal coro e cercano di richiamare tutti ad un’attenzione a cose a cui forse si è guardato poco, rischia poi di essere interpretato in modi diversi. C’è chi lo interpreta solo nella forma della lotta alla camorra o solo come una voce scomoda per la Chiesa stessa. Invece dobbiamo cercare di rileggerlo insieme, conciliando tutte queste diverse letture, per rendere giustizia a don Peppe, al messaggio che ci dona e farlo fruttare, e poi perché abbiamo bisogno davvero di essere uniti in tutto questo. Se siamo uniti in questa dimensione che don Peppe ci rilancia, saremo compatti nel poter annunciare nella nostra società un modo nuovo, diverso di vivere. Se, come può essere qualche volta accaduto, ci perdiamo in una serie di distinguo che ci isolano l’uno dall’altro, pur in fondo rifacendoci alla stessa esperienza di don Peppe, rischiamo di vanificarne il messaggio.

Questi 25 anni sono stati sicuramente di cambiamento, però lei più volte ha lanciato l’allarme su un’illegalità diffusa, sottovalutata.

È la cultura dell’illecito che dobbiamo sconfiggere. Ognuno cerca di risolvere i suoi problemi non con azioni esplicitamente illegali, ma che continuano a creare rapporti di sottomissione. È la logica del favore, l’abitudine rassegnata al lavoro nero, o a quello per il quale dobbiamo sempre dire grazie a chi ce l’ha offerto. O ancora il pochissimo rispetto per l’ambiente.

Don Peppe era particolarmente impegnato coi giovani. Un tema attualissimo.

La società ha bisogno di riprendere il desiderio di dialogare coi giovani che purtroppo negli ultimi anni si è affievolito. La testimonianza di don Peppe è proprio quella di mettersi in dialogo, di passare del tempo, da un campo scuola all’attività parrocchiale, o anche solo sostando in piazza. Momenti nei quali il dialogo diventa più vero.

Don Peppe aveva capito prima di altri il problema dell’immigrazione, aprendo la parrocchia alle persone sfruttate.

L’immigrazione cominciava ad essere un fatto presente nella nostra realtà e si registravano le prime forme di sfruttamento. La Chiesa tutta si è subito dimostrata attenta. C’era una ricchezza di pensiero che denotava una sensibilità nella quale don Peppe certamente era protagonista. Di questa forma di accoglienza è stato sicuramente un antesignano.

Don Peppe invitava a risalire sui tetti per annunciare parole di vita. Anche oggi?

È attualissima. Ce l’ha detta Gesù, quando diceva che bisogna gridare dai tetti. Don Peppe riprende questa espressione del Vangelo per fare però questo annuncio di vita che è tanto necessario in un tempo in cui papa Francesco ci invita a non coltivare l’idea che tutto poi possa diventare uno scarto.

In tanti chiedono la beatificazione di don Peppe. Il vescovo come risponde?

Se un eventuale riconoscimento di questo tipo ci potrà essere, lo si coglierà dai frutti. Penso che prima di preoccuparci di arrivare a una forma pubblica di canonizzazione sia più giusto vivere intensamente quanto ci è stato trasmesso, così che possa da questo vedersi un frutto ricco e abbondante, e di unità di tutti coloro che sentono di volersi ispirare al suo insegnamento. Sarà poi il tempo a dirlo, non pretendiamo di avere fretta, perché la fretta non ci aiuta.
(fonte: Avvenire, articolo di Antonio Maria Mira 17/03/2019)

Vedi anche alcuni dei post precedenti (all'interno altri link):