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mercoledì 27 marzo 2019

GIUSTIZIA E MISERICORDIA. DUE REALTÀ INSEPARABILI di VINCENZO PAGLIA

GIUSTIZIA E MISERICORDIA. 
DUE REALTÀ INSEPARABILI 
di VINCENZO PAGLIA








«Per fortuna, Dio è più misericordioso che giusto». Così mi disse il cardinale Pietro Parente, teologo della scuola romana del Novecento, sul letto di morte dopo avermi indicato i numerosi libri di teologia che aveva scritto. Con quell’affermazione voleva lasciarmi il testamento riassuntivo dell’intera sua produzione teologica. Non so se avesse in mente anche il passaggio della Lettera di Giacomo ove si afferma, appunto, che «la misericordia ha sempre la meglio nel giudizio» (2,13). Ma certo pensava anche alla nota beatitudine evangelica: «Beati i misericordiosi perché troveranno misericordia » (Matteo 5,7). Giustizia e misericordia (ma anche amore, compassione, bontà) sono due realtà inseparabili. Il loro rapporto è virtuoso e ineliminabile. Non vanno poste su piani separati, per cui la giustizia costituirebbe una prospettiva tutta umana del discorso antropologico, mentre l’amore andrebbe oltre, in quanto basato sulla gratuita benevolenza e sulla interiore affettività, che appaiono sublimi, ma anche facoltative, quindi non necessariamente richieste dal fatto di essere uomini. Concependo poi la giustizia come qualcosa di limitato alla norma coercitiva e funzionale della legge, si tende ad attribuirla normalmente all’Antico Testamento (At), che viene in questo superato dal Nuovo Testamento (Nt), a cui apparterrebbe invece, come caratteristica peculiare, la dimensione dell’amore. Fin dall’inizio l’amore implica una radicale esigenza di giustizia, che corrisponde al bene dell’altro e alla dignità della relazione. D’altro canto la giustizia raggiunge la sua pienezza solo là dove c’è benevolenza e comprensione del diritto della persona umana a essere sempre pensata con amore per la sua umanità condivisa e per la sua dignità personale.
Esiste una giustizia dei rapporti affettivi, che non si lascia misurare dagli adempimenti della norma legale, così come esiste un’affezione per la persona umana che non si muove pregiudizialmente in deroga ai vincoli morali del giusto. Un amore ingiusto e una giustizia anaffettiva sono ugualmente dannosi. E allora, rientrano in campo tutte le necessarie distinzioni fra il livello personale, legale, istituzionale, politico, sociale dell’amore e della giustizia. Il cristianesimo non per caso ha inteso l’amore di Dio come verità suprema della sua giustizia: e del giudizio nel quale l’uomo può essere giustificato, là dove egli accoglie la grazia di una giustizia di Dio e di un amore del prossimo che formano un unico principio. Sulla giustizia di questo amore saremo giudicati. E sull’amore di questa giustizia veniamo chiamati a investire la nostra fede.
Poiché ogni uomo è immagine visibile di Dio invisibile e fratello di Cristo, il cristiano trova in lui Dio stesso e quindi deve accogliere l’assoluta esigenza di giustizia e di amore che è propria di Dio. E in tal modo l’amore impedisce alla giustizia di divenire solo materiale e di funzionare in modo dispotico. Il supremo e universale comandamento dell’amore del prossimo la mette al riparo dalla sua riduzione alla conformità della norma legale, aprendola al giudizio concreto della qualità morale. La giustizia fornisce, dal canto proprio, all’amore un carattere realistico, evitando di ridurlo a un sentimento extramorale: l’amore del prossimo è un comandamento, appunto, che determina la qualità morale dell’ingiunzione e dell’obbedienza in cui siamo posti dal volerbene. L’appello alla giustizia non ci esonera dal voler bene, e quest’ultimo non ci esonera dalla giustizia.
Nella nostra sensibilità odierna, la pietà genera diffidenza in quanto designa un sentimento di secondo ordine rispetto all’amore stesso. Amare qualcuno per compassione è come non amarlo veramente: addirittura, può assumere i connotati del disprezzo, della commiserazione. D’altra parte,

se è normale associare compassione e carità cristiana non lo è affatto associare compassione e giustizia umana. Tutti siamo consapevoli dell’eventualità che la pratica della giustizia, separata da ogni tratto di umana sensibilità, possa assumere i tratti morali dell’ingiustizia vera e propria. È un’esperienza quotidiana. Eppure, continuiamo a praticare un linguaggio che rende impossibile sciogliere questa contraddizione, per assicurare un regime virtuoso e dignitoso alla correlazione della giustizia e della compassione. Nella cultura contemporanea il pericolo più temibile è proprio la diffusione politicamente corretta dell’indifferenza per la componente affettiva della giustizia sociale, che include la benevolenza, la compassione, la sensibilità per la giustizia umana anche là dove i limiti della giustizia legale non la impongono: e una superficiale cultura individualistica delle emozioni e degli affetti rende arbitraria e selettiva la commozione per l’umanità avvilita e ferita. Papa Francesco ha stigmatizzato questa «indifferenza legalizzata » come uno dei peccati più terribili di oggi. Essa corrode e insidia anche gli affetti più sacri e più cari che appartengono al patrimonio collettivo di una civiltà veramente umana. Ad esempio, è anche giusto affermare che «il lavoro è dignità, non carità», ossia che non si deve dare come benevola concessione ciò che corrisponde a un obbligo di giustizia. Ma questa affermazione deve essere compresa in modo che la sua forza non rimuova la persuasione che per rendere possibile quella dignità è necessario che si mettano in moto passioni politiche corrispondenti all’amore per quella giustizia: senza quella determinazione, che è una vera e propria forma di amore del prossimo, saremo sempre fermati da “ragionevoli richiami” alla mancanza di risorse economiche, alla con- giuntura politica difficile, che lasceranno quella dignità nella sua giustizia ideale e nella sua concreta impraticabilità.
Dobbiamo chiederci: come è accaduto che la virtù della misericordia (legata alla grandezza d’animo) sia diventata il sentimento di una compassione che produce avvilimento (e indica piccineria dell’animo), coinvolgendo in questo svilimento anche la carità cristiana? Un destino analogo ha colpito anche la parola “bontà”, oggi praticamente impronunciabile. Anzi il “sentirsi buoni viene condannato come un vizio. Fino allo scherno intollerabile nei confronti di volontari e volontarie ritenuti «irresponsabili» ed «esibizionisti» e che vanno in Africa per «farsi rapire», oppure alle accuse indiscriminate e pregiudiziali di traffici speculativi contro chi cerca di salvare vite in pericolo nel mare. E che dire dello scandalo “buonista” che sarebbe quello – senza fondamento reale – di pensare agli stranieri e di trascurare gli italiani? E si giunge persino a processare coloro che, proprio per uscire dalla deregulation e dal dilettantismo, aiutano i rifugiati con forme di integrazione civile condivise e funzionanti!
La politica umanistica non si fa semplicemente con l’estemporaneo sentimento della compassione umanitaria, certo. Però, nemmeno con la legge che decide deliberatamente di ignorarla e di sanzionarla: se non circola la sussidiarietà della compassione fra gli uomini – la misericordia, appunto – la società si sfalda, la giustizia si ritrae. E non ci sono regole che possano tenerle insieme. Già i nostri antichi avvertivano il pericolo con il noto adagio: summum ius, summa iniuria. Ci sono talora modalità di applicazione della legge che producono una profonda ingiustizia.
Aristotele caratterizza l’amicizia (il fatto e l’atto di “voler bene”) che costituisce la base e l’idealità del legame sociale (la philia, come forma relazionale idonea alla forma civile della polis), anzitutto come un gioire dell’essere dell’amico, rallegrarsi che egli sia, semplicemente. Nel contesto dell’etica civile, però, Aristotele non lega la compassione all’amicizia. La philia (vedi Etica a Eudemo) non è sentimento capace di rivolgersi a ogni individuo sofferente. Essere amico di molte persone è reso impossibile dallo stesso amore: non si può andare in soccorso di troppi. E poi, non c’è philia con “i barbari”. Insomma la compassione si esercita all’interno della cittadinanza.
Cicerone, da parte sua, si rende conto della forza della compassione che chiama col termine humanitas. È il cristianesimo che allarga la compassione in una prospettiva universale che si estende a tutti gli umani, proprio in quanto umani. Nessuno ne è escluso. In questa prospettiva umanistica, abitata dal fermento dello spirito cristiano, il problema della misericordia – come virtù personale che deve sostenere, e non contraddire, le ragioni della giustizia civile – viene a collocarsi all’interno della più generale dialettica fra amore di sé e amore dell’altro. E quindi anche del rapporto fra giustizia e carità. Mi piace citare un passaggio di Giacomo Leopardi dal Trattato delle

passioni: «Se tu vedi un fanciullo, una donna, un vecchio affaticarsi impotentemente per qualche operazione in cui la loro debolezza impedisca loro di riuscire, è impossibile che tu non ti muova a compassione, e non procuri, potendo, di aiutarli». Il più accanito oppositore della compassione come valore anche civile è Nietzsche. La vede come la massima mortificazione della tendenza naturale dello spirito umano all’esaltazione della vita e all’accrescimento della sua potenza: «Guardatevi dalla pietà: è proprio lei che finirà per addensare la tempesta sull’uomo!» (Così parlò Zarathustra, libro II). L’ammonimento di Nietzsche ha inaugurato una nuova fase di disprezzo della compassione come debolezza pericolosa per la società e forma di avvilimento per l’individuo. E Nietzsche ritorna in forze: «In sé, offendere, far violenza, sfruttare, annientare non può naturalmente essere nulla di ‘illegittimo’, in quanto la vita si adempie essenzialmente… offendendo, facendo violenza, sfruttando, annientando, e non può essere affatto pensata senza questo carattere » (F. Nietzsche, Genealogia della morale).
Di fronte a questa inclinazione nichilista che distrugge anche la giustizia, dobbiamo tornare alla misericordia per salvare ambedue. Sono di interesse alcune riflessioni di Pierangelo Sequeri in questa prospettiva. Egli mostra come nella misericordia che attinge alle radici bibliche della oikonomia divina vi sia contenuta una sapienza fine: quella che lega intimamente l’amore e la giustizia alla condizione fallibile e vulnerabile dell’uomo. La misericordia è certo istruita dalla condizione umana: ma la sua verità, immensa, vive nell’intimità misteriosa e segreta di Dio. Dio è più grande della legge, è più grande del nostro cuore. La misericordia attinge al mistero di Dio (il solo che possa dirsi «buono », Matteo 19,17) il punto di Archimede, che consente di portare l’amore e la giustizia alla verità della loro suprema conciliazione. Non perché siamo all’altezza della giustizia richiesta dall’amore, ma perché siamo amati da Dio «quando ancora eravamo suoi nemici, e peccatori», ci ricorda l’apostolo Paolo.
La misericordia implica la condivisione dell’umano comune e della sua vulnerabilità. Senza questa condivisione, la giustizia stessa si perverte. Ma senza ricerca della giustizia, ogni amore si svuota, miserabilmente. Il compimento della giustizia e dell’amore non è alla nostra portata, ma la circolazione della misericordia lo è. Essa deve incessantemente circolare, a dispetto di tutte le contraddizioni patite dalla giustizia e dall’amore nella storia
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Cantone e Paglia, un magistrato e un vescovo si confrontano sul tema della giustizia 
Raffaele Cantone e Vincenzo Paglia sono gli autori, in collaborazione con Emanuele Coen, del libro La coscienza e la legge edito da Laterza e in uscita oggi nelle librerie (pagine 184, euro 16,00). Qui sopra anticipiamo ampi stralci dell’epilogo firmato dall’arcivescovo Paglia sul tema "Giustizia e misericordia". Il libro affronta questioni di grande attualità come punizione e perdono, migranti ti e accoglienza, giustizia e mafie.

(Fonte: Avvenire - 21.03.2019)