Respingimenti migranti.
I patti con l’Italia
rafforzano la mafia libica
Don Mattia Ferrari
L’arresto di Almasri, avvenuto a Torino su mandato della Corte penale internazionale (CPI), getta l’ennesima ombra inquietante sulla mafia libica. Almasri è il capo della Polizia giudiziaria libica e il responsabile della prigione di Mitiga, che si trova vicino a Tripoli.
La società civile e le Nazioni Unite da anni spiegano come Mitiga sia in realtà un centro di detenzione arbitraria dove i migranti catturati in mare su mandato dell’Italia e dell’Unione Europea vengono sottoposti a orrori. Alcune vittime hanno trovato il coraggio di denunciare. Il giornalista Nello Scavo, tra i più noti avversari della mafia libica, nel libro “Le mani sulla Guardia Costiera” ha parlato di queste denunce e ha riportato che i migranti catturati in mare a Mitiga venivano «illegalmente detenuti in condizioni sanitarie deplorevoli, con le vittime ridotte in schiavitù e torturate, duramente picchiate giorno e notte, deliberatamente fatte morire di fame».
Grazie al lavoro della CPI si è arrivati alla cattura di Almasri con l’accusa di gravi violazioni dei diritti umani e crimini di guerra. Sorgono ora interrogativi inquietanti. Innanzitutto per il fatto che la cattura è avvenuta a Torino: cosa ci faceva Almasri in Italia? Inoltre, questo arresto è l’ennesima conferma di come la mafia sia infiltrata in ruoli apicali dentro gli apparati libici che gestiscono i respingimenti finanziati dai nostri Stati.
D’altronde persino il ministro dell’Interno libico, Emad Trabelsi, che è stato indicato più volte dalle autorità italiane come interlocutore nel contenimento dei migranti, è stato segnalato negli anni dalle Nazioni Unite, dal Dipartimento di Stato Usa e da Amnesty International come uno dei capi dei trafficanti. Il potere della mafia libica cresce proprio grazie ai respingimenti finanziati dall’Italia e dall’Unione Europea: sia perché molti boss della mafia libica hanno ruoli apicali in quel sistema, come era nel caso di Bija o come è nel caso di Al Khoja, sia perché i migranti riportati in Libia finiscono contestualmente nei centri di detenzione, gestiti proprio dai trafficanti.
Per sconfiggere la mafia bisogna dunque interrompere i respingimenti e partire da chi subisce questo sistema e lotta contro di esso: i migranti e la società civile libica. Da alcuni anni i migranti si sono organizzati nel movimento popolare Refugees in Libya e chiedono di essere assunti come interlocutori. Solo una cosa può sconfiggere le mafie: la fraternità. È una strada che richiede coraggio, perché è molto più facile continuare con l’idea che i respingimenti ci tutelino, mentre in realtà ci svuotano di umanità e accrescono il potere delle mafie. La fraternità richiede il coraggio di uscire da noi stessi e dagli schemi mentali che ci imprigionano, ma ci libera e ci realizza. Le autorità e la società ascoltino e tutti insieme, prendendoci per mano, potremo davvero scrivere pagine nuove, che ci ridiano la dignità di esseri umani, che non si compie se non nella fraternità.
(Fonte: “La Stampa” - 21 gennaio 2025)