Papa Francesco:
La vita richiede umiltà
Papa Francesco in Spera. L’autobiografia (Mondadori), racconta per la prima volta due episodi
tragici della sua adolescenza: il compagno di classe che assassinò un amico e poi si suicidò, e il
ragazzino che uccise la madre. E introduce il suo rapporto con Borges, le cui parole chiosano
meravigliosamente i drammi appena evocati.
Non si sarebbero diplomati tutti quanti insieme, alla fine dell’anno 1955, quei quattordici ragazzi
che nel marzo di sei anni prima misero piede per la prima volta alla Escuela Técnica Especializada
en Industrias Quimicas N° 12, pieni di speranze. Non tutti, purtroppo.
Qualcuno sarebbe tragicamente caduto lungo il cammino.
Era il figlio di un poliziotto. E probabilmente, per molti versi, il più intelligente e dotato di noi tutti,
appassionato e profondo conoscitore di musica classica e con una cultura letteraria pari alla sua
preparazione musicale… Era un genio quel ragazzone grande e grosso, il più corpulento fra noi. Un
genio.
Ma la mente dell’uomo a volte è un mistero insondabile. E un giorno che pareva tale quale agli altri
quel ragazzo ha preso la pistola del padre e ha ucciso un coetaneo, un suo amico del quartiere.
La notizia deflagrò come un colpo di pistola anche per noi, ci scioccò. Lo rinchiusero nella sezione
penale del manicomio, e andai a trovarlo. Fu la mia prima, concreta esperienza del carcere, due
volte prigione perché era anche serraglio per malati di mente. Potei salutare il mio amico solo da
una finestrina minuscola, un francobollo tagliato in quattro da una grata e incorniciato da una
pesante porta di ferro. E fu terribile, ne restai profondamente turbato. Ci tornai con alcuni
compagni, per fargli visita. Qualche giorno dopo, invece, sentii a scuola un inserviente e dei ragazzi
di un altro corso sparlarne in tono di scherno. Mi infuriai. Dissi loro di tutto, quindi mi precipitai dal
direttore per esprimere la mia riprovazione: per dire che cose simili non sarebbero dovute più
accadere, che era ancor più grave fosse coinvolto pure un inserviente, che quel ragazzo stava già
patendo abbastanza, tra manicomio e carcere. Quella sfuriata mi avrebbe conferito a scuola una
qualche fama di uomo retto, non so quanto meritata; accade così per la fama. Il mio amico poi fu
mandato in riformatorio e continuammo a scriverci, si salvò dall’ergastolo perché al tempo dei fatti
era ancora minorenne. Venne liberato alcuni anni dopo.
Dopo il diploma, quando già ero nel noviziato, un mio ex compagno mi telefonò: mi disse che era
riuscito a mettersi in contatto con la sorella di quel ragazzo, e che lei, afflitta, gli aveva riferito che,
poco dopo essere uscito dal riformatorio, si era suicidato. Avrà avuto ventiquattro anni.
A volte, come dice il salmo, il cuore dell’uomo è un abisso.
Fu un dolore, che ne riportò alla mente e al cuore un altro.
Facevo il quarto anno quando sull’autobus fui avvicinato da un ragazzino del primo. Mi pare mi
avesse domandato se potevo procurargli un qualche libro che gli serviva, io dissi di sì, che l’avevo a
casa e glielo avrei portato, e così iniziò il rapporto. Era figlio unico, e a scuola ben noto per i
problemi disciplinari che causava. Io avevo già sentito in me la chiamata, percepivo in modo
intenso la mia vocazione, che tuttavia non avevo espresso ad altri, vidi che quel ragazzino non
aveva fatto ancora la prima comunione e, insomma, cominciai ad accompagnarlo, a parlargli, a
prendermene cura come potevo. Andai anche a casa sua a conoscere i genitori, due brave persone, la
famiglia Heredia, ma… Ma alla fine, quando facevo il sesto, quel ragazzino uccise la mamma con
un coltello. Avrà avuto quindici anni, non di più.
Ricordo la veglia funebre in quella casa, il volto terreo del padre, il suo dolore doppio, senza pace.
Pareva la maschera di Giobbe: «Si offusca per il dolore il mio occhio e le mie membra non sono che
ombra» (Gb 17,7).
Anche quella notizia irruppe a scuola come un temporale, potrei forse dire che ci compenetrò alla
tragicità e alla complessità della vita. Ha scritto Jorge Luis Borges: «Ho tentato, non so con quale
fortuna, di comporre dei racconti lineari. Non oso affermare che siano semplici; non c’è sulla terra
una sola pagina, una sola parola che lo sia».
Serve umiltà per rappresentare l’esperienza complessa della vita.
Ho apprezzato e stimato molto Borges, mi colpivano la serietà e la dignità con le quali viveva la sua
esistenza. Era un uomo molto saggio e molto profondo. Quando, appena ventisettenne, divenni
insegnante di letteratura e psicologia nel Colegio de la Inmaculada Concepción di Santa Fe, tenni un
corso di scrittura creativa per gli studenti e pensai di mandargli, attraverso la sua segretaria, che era
stata mia insegnante di pianoforte, due racconti scritti dai ragazzi. Apparivo ancora più giovane di
quanto ero, tanto che gli studenti tra loro mi avevano soprannominato Carucha (faccia da bambino),
e Borges invece era già uno dei più celebrati autori del Novecento; eppure se li fece leggere – dal
momento che era ormai praticamente cieco – e per di più gli piacquero molto.
Lo invitai pure a tenere alcune lezioni sul tema dei gauchos in letteratura e lui accettò; poteva
parlare di qualsiasi cosa, senza mai darsi arie. A sessantasei anni, prese un pullman a Buenos Aires e
viaggiò per otto ore, di notte, per raggiungere Santa Fe. In una di quelle occasioni giungemmo in
ritardo perché, quando arrivai a prenderlo in albergo, mi chiese se potevo aiutarlo a farsi la barba.
Era un agnostico che ogni sera recitava il Padre nostro perché lo aveva promesso alla madre, e che
sarebbe morto con i conforti religiosi.
Non può che essere uomo di spiritualità colui che scrisse parole come queste: «Abele e Caino
s’incontrarono dopo la morte di Abele. Camminavano nel deserto e si riconobbero da lontano,
perché erano ambedue molto alti. I fratelli sedettero in terra, accesero un fuoco e mangiarono.
Tacevano, come fa la gente stanca quando declina il giorno. Nel cielo spuntava qualche stella, che
non aveva ancora ricevuto il suo nome. Alla luce delle fiamme, Caino notò sulla fronte di Abele il
segno della pietra e lasciando cadere il pane che stava per portare alla bocca chiese che gli fosse
perdonato il suo delitto. Abele rispose: “Tu mi hai ucciso, o io ho ucciso te? Non ricordo più; stiamo
qui insieme come prima”. “Ora so che mi hai perdonato davvero” disse Caino, “perché dimenticare
è perdonare. Anch’io cercherò di dimenticare…”».
(Fonte: "La Stampa" - 12 gennaio 2025)