Le parabole, se Gesù parla per immagini
di Ermes Ronchi e Marina Marcolini
La rivoluzione del cristianesimo passa anche per il linguaggio. Gesù apre sentieri anziché concludere discorsi; non fornisce soluzioni già pronte, ma direzioni di ricerca; coinvolge e mette in viaggio l’ascoltatore. Un ampio estratto dal primo capitolo del libro «Il Vangelo della terra» di padre Ermes Ronchi e Marina Marcolini.
Le parabole provengono dalla viva voce di Gesù. Ascoltarle è come ascoltare il mormorio della sorgente, il momento iniziale, fresco, sorgivo del Vangelo, perché uscite così dalla bocca di Gesù.
Le parabole rappresentano la punta più alta e geniale, la più rifinita del suo linguaggio, non l’eccezione. Per lui parlare in parabole era la norma: con molte parabole annunciava la Parola, senza parabole non parlava loro (Mc 4,33-34). Insegnava non per astrazioni o concetti, ma per immagini e racconti.
Le parole generatrici del suo messaggio (il regno di Dio, Dio come padre, abbà) non offrono concetti ma metafore, trasferimenti di significati dal visibile all’invisibile.
Perché Gesù ha scelto di farsi un narratore di parabole? Il linguaggio più adatto al sacro non è quello filosofico o teologico, ma quello poetico. Alla Bibbia se togli la poesia e la metafora, resta un mucchietto d’ossa. Togli alla Scrittura i Salmi, il Cantico, le profezie, il linguaggio mitico delle origini, e restano racconti di guerre, cronache di dinastie sanguinarie, elenchi di leggi, divieti e precetti. Che cosa è più efficace e coinvolgente, dire nel linguaggio filosofico: Dio è l’essere perfettissimo e onnipotente, oppure suggerire, poeticamente: Dio è un oceano di luce e di pace, un padre esperto in abbracci?
Il linguaggio parabolico, che comprende similitudini, metafore, immagini, allegorie, parabole, apre sentieri anziché concludere discorsi; non fornisce soluzioni già pronte, ma direzioni di ricerca; crea emozioni, coinvolge e mette in viaggio l’ascoltatore. Gesù vuole i suoi non ascoltatori passivi, ma pensatori e poeti della vita.
Ci aiuta a capirlo il salmo 19 che mette il suo canto in bocca a creature mute: i cieli narrano la gloria di Dio… l’opera delle tue mani annunzia il firmamento. Il giorno al giorno ne affida il racconto… e la notte alla notte. A questo poeta antico si ricollega il poeta Gesù. E dice: la terra narra la gloria di Dio, il seme narra la forza del regno.
Gesù prende storie di vita e ne fa storie di Dio.
Questa narrazione di giorno in giorno, di sole in sole, di stella in stella, di seme in seme, è la più democratica e la più laica, è stata consegnata a tutti, non ci sono eletti, gente preparata o meno, non ci sono gerarchie o chiese elette che interpretano la narrazione dei cieli. Il racconto della notte è per tutti, non per pochi privilegiati.
Gesù con suoi racconti alimenta in noi la facoltà dell’immaginazione. Ci chiama a lasciare spazio alla bellissima, generativa capacità di immaginare. Che non segue un programma prestabilito, ma apre una dinamica, una creatività, un vedere il mondo in altra luce. Parlare per immagini permette di dare densità alle parole, di concentrarne il senso. E spesso senza bisogno di spiegazioni. Se dico: sei un fiore, tu intuisci al volo e tutti mi possono capire, anche persone di culture diverse, basta che abbiano visto almeno una volta un fiore.
È importante riflettere sul linguaggio che usa Gesù. Perché il linguaggio libera o ingabbia. Include o esclude. E può diventare strumento di potere. Ci ricordiamo tutti quando don Abbondio, rappresentante dell’istituzione religiosa, vuole confondere Renzo e allora si mette a parlargli in latino. Ma Renzo gli risponde: «Si piglia gioco di me? Che vuole che io faccia del suo latinorum?». Don Abbondio ha scelto di parlare una lingua che non sta dalla parte dei poveri. E perciò ha tradito il Vangelo. La rivoluzione del cristianesimo passa anche per il linguaggio. Con la storia di Cristo ciò che è sublimemente tragico s’incarna in ciò che è straordinariamente umile, concreto, quotidiano. Nel Vangelo un falegname, dei pescatori, donne e uomini qualsiasi diventano i protagonisti della più sublime vicenda mai raccontata. E il linguaggio di Gesù è coerente con il suo messaggio: era un laico che usava parole laiche per comunicare un messaggio rivolto a tutti.
Gesù compone 37 parabole, raccontate nei Vangeli, con varianti minori, per 49 volte. Sono specifiche di Marco, Matteo e Luca, mentre sono assenti nel quarto Vangelo, quello di Giovanni, che tuttavia fa uso larghissimo di immagini: Gesù al pozzo di Sichem promette alla samaritana: ti darò una sorgente d’acqua viva, una frase con tre metafore innestate l’una nell’altra. Oppure: io sono il pane vivo disceso dal cielo. Quattro parole e quattro immagini. Gesù non scava pozzi, non dona fontane, non è certo acqua e farina, eppure così evoca, trasmette contenuti e capacità d’immaginare.
Parabole come domanda: la parabola non dice mai “è”, dice sempre “accade”; non offre un’equazione o una definizione statica, ma una dinamica e una storia. Non presenta una definizione del regno di Dio, ma dice: accade nel regno come accade con il lievito…
Per Gesù, Dio non è, Dio accade, si coinvolge; come nei verbi del Padre Nostro: venga, sia fatta, sia santificato, dona, perdona, libera. Entra nella storia e la fa fiorire.
Spesso la ragione vera della parabola è di misurarsi con una domanda che non si spegne, che rimane intatta: perché il regno non viene? Se Gesù è il Signore, perché continua a essere rifiutato e sembra sconfitto?
È la domanda posta da avversari e discepoli, dai cristiani della prima generazione e da noi. Siamo così rimandati alla croce e alla pasqua, lì possiamo comprendere che Gesù è la parabola che illumina tutte le parabole.
( fonte: “Avvenire” del 19 dicembre 2018)