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martedì 8 luglio 2014

"Siria: il grido dei cristiani" di Enzo Bianchi

Una donna siriana piange il marito e i figli


Siria: il grido dei cristiani
di Enzo Bianchi



“Ad Antiochia per la prima volta i discepoli furono chiamati cristiani”. Così gli Atti degli apostoli testimoniano che quell’allora fiorente porto della Siria – oggi solo un meta turistica minore tra le tante in Turchia – conobbe un’espansione del nascente cristianesimo tale da generare proprio lì il termine di definizione per i discepoli di Gesù di Nazaret, il Cristo. Ad Antiochia di Siria vi fu la prima “cattedra” episcopale di Pietro e per questo ancora oggi il vescovo con giurisdizione su Siria, Libano e “tutto l’oriente” porta il nome di “Patriarca di Antiochia”. Anzi, a seguito delle successive divisioni tra i cristiani, quel titolo è usato da ben sei patriarchi. Ma tutti loro, pur mantenendo il titolo, hanno spostato la propria sede a Damasco, dove ora risiedono con sempre maggior difficoltà.
E proprio in questi giorni in cui i cristiani e tutto il popolo siriano sono messi a dura prova dalla violenza che continua a colpirli senza che il resto del mondo si preoccupi di fermarla, il patriarca greco-ortodosso di Antiochia, Youanna X ha invitato gli altri 5 suoi omologhi per un incontro a Balamand in Libano per riflettere e pregare insieme, perché “nel tempo della prova i cristiani vivano l’unità”. E questo è davvero per loro un tempo di prova e di sofferenza: da aprile dello scorso anno non si hanno più notizie di due vescovi rapiti (uno è il fratello di sangue del patriarca Youanna), il prossimo 27 luglio sarà un anno anche dal rapimento di p. Paolo Dall’Oglio, non passa giorno che non giungano tragiche notizie sulla Siria e sui sempre più numerosi profughi provenienti da quelle terre.
L’attenzione internazionale diminuisce sempre più, come accade ogni volta che tacitamente si decide che una situazione geopolitica è troppo complicata per trovare una soluzione conveniente e gli interessi prevalenti dell’occidente si spostano su altri scenari. Le chiese invece non si dimenticano dei loro fedeli, né di quanti vivono giorno dopo giorno accanto a loro, indipendentemente dal credo religioso. Recentemente abbiamo visto papa Francesco e il patriarca ecumenico Bartholomeos prodigarsi non solo nell’intensificare i rapporti fraterni tra Roma e Costantinopoli, ma ancor più nel lavorare insieme perché la pace possa trovare vie impensate anche in situazioni impossibili come in Israele e Palestina: i tragici eventi di questa settimana sembrano relegare gli sforzi delle chiese nello spazio dell’utopia, eppure è proprio grazie a iniziative come quelle condotte dal papa e dai patriarchi se il seme della riconciliazione può avere possibilità di germogliare anche in terreni aridi e costantemente insanguinati. 
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Per questo l’appello che ora ci giunge dai patriarchi di Antiochia riuniti a Balamand con i loro fedeli ci riguarda da vicino: è una richiesta di aiuto per la sopravvivenza delle loro comunità, ma è anche un grido per la pace e la giustizia tra tutte le componenti dei popoli mediorientali, è una supplica rivolta non solo al Signore ma ai potenti della terra perché cessino violenze e spargimento di sangue, perché le loro regioni e il mondo intero ritrovino vie di convivenza capaci di rispettare la libertà e la dignità di ogni essere umano.
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Non solo il futuro ma il presente stesso ci sta chiedendo conto di cosa ne facciamo del grido dei sofferenti, dell’ascolto che prestiamo a quanti si fanno voce di chi è senza voce. Perché non vorremmo che presto ad Antiochia e dintorni non ci siano più discepoli con il nome di “cristiani”. Sarebbe una perdita immane per l’umanità intera.

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