Quegli occhi che raccontano l'orrore
di Marco Belpoliti
Se gli occhi sono lo specchio dell'anima, come hanno scritto i filosofi antichi, cosa c'è nell'anima di questa donna? Molto più che paura o sconcerto. C'è l'orrore, quello di chi è stato lasciato in balia delle acque su un gommone a malapena galleggiante, e ha visto morire la propria amica e il figlio su quella zattera sconquassata dai marosi.
Quegli occhi esterrefatti, increduli, occhi che dicono tutta la tragedia e insieme la negano: "Non è possibile! Ditemi che non è possibile!"
Occhi imploranti, come abbiamo imparato purtroppo a conoscere da quando la fotografia documenta le guerre e i massacri: il terrore indicibile dei sopravvissuti. E ancora più indietro nei secoli, da quando la grande pittura racconta il dolore dei dolenti, del Cristo in croce e delle donne all'intorno.
Sono gli occhi di Maria presso il corpo del Figlio. La mano che accarezza e insieme sostiene quel viso rende manifesta una pietà che altri non sembrano provare. La pupilla scura e il bianco attorno, la bocca appena aperta, il biancore accennato dei denti tra le labbra socchiuse: non possono lasciare che interdetti.
Com'è possibile che non si soccorra in mare queste donne, che non le si porti in salvo sulla terra ferma? Ogni volta che sento il ministro dell'Interno usare l'espressione "come padre", mi domando dove stia la paternità di cui parla, e non posso fare a meno di pensare che sia solo un modo di dire, che Matteo Salvini non sappia davvero cos'è la paternità, se non come un fatto meramente biologico, non certo come stato d'animo, come pathos o pietà, quella che si prova dinanzi a ogni forma di vita.
Questi occhi gridano tutto il dolore del mondo, quello cui non sappiamo rispondere se non la durezza del cuore e con la crudeltà delle leggi. Non ci sono altre leggi per gli esseri umani che quelle dell'anima, leggi che suggeriscono la misericordia e la compassione per l'altrui miseria. Nell'etica cristiana, quella che ci hanno insegnato i Padri della Chiesa, la misericordia non è solo un sentimento, ma una virtù spirituale, una delle fondamentali virtù della nostra civiltà. "Beati i misericordiosi perché avranno misericordia", così parla Gesù alle folle convenute ad ascoltarlo.
Questi occhi dovrebbero togliere il sonno a chiunque abbia emanato l'ordine d'abbandono delle due donne e del bambino, a chi non ha avuto pietà per tre giovani vite umane in balia delle onde. Non dovrebbe più aver pace per il seguito dei suoi giorni.
Il cuore non conosce altra legge che la compassione. Il cuore non conosce altro ordinamento giuridico, o trattato internazionale, se non quello che nasce e vive nel cuore di chi ha un'anima. Ma c'è chi quest'anima l'ha persa, non l'ha più, e grida ai quattro venti: Io tengo duro. Duro cosa? Il cuore o la cervice? Entrambi viene fatto di dire. A un certo punto del suo romanzo dei deboli e dei poveri Manzoni fa dire a un suo personaggio: "Dio perdona tante cose per un'opera di misericordia!". Non sono un credente, ma guardando questa immagine della donna salvata dalle acque prego che, se c'è un Dio, apra il cuore di uomini che non sembrano più averlo. Apra il cuore a coloro che parlano il linguaggio dell'insensatezza, che non è neppure un linguaggio della politica ma della propaganda, il linguaggio della menzogna e dell'inganno. Mi rifiuto di credere che la pietà sia morta su quel fuscello di gomma sgonfia alla deriva nel Mediterraneo per quarantotto ore. Chi l'ha tratta in salvo, gli uomini e le donne dell'Ong, ha seguito un imperativo morale che non può più essere obliato, per cui non esiste tribunale umano che lo possa giudicare o legge che lo possa respingere. L'imperativo morale è ciò che ci rende umani, oggi come ieri.
(fonte: Repubblica 18/07/2018)
Gli occhi di Josephine: un tatuaggio dell’animo
di Cristiana Dobner
Estate, tempo di vacanza, di relax, di centri benessere…di giusto e meritato riposo per chi lavora e ha bisogno di uno stacco per ritemprare le forze e ritrovare se stesso.
Come ritrovare se stesso quando il se stesso è stato deturpato? Smarrito, si spera e non perduto.
Si chiami egoità, ipseità, la realtà tangibile rimane la stessa e identica: preme soltanto il proprio io e tutto vi deve essere centrato, convogliato per essere incorporato, fagocitando tutto quanto si trova sul proprio cammino.
Gli occhi sbarrati, immersi nel terrore dell’impotenza e dell’abbandono di Josephine dovrebbero rimanere in noi tanto da essere un tatuaggio dell’animo. Indelebile, impossibile da cancellarsi anche con il laser più potente ed affidabile.
Passiamo in rassegna il nostro dire: dalla filosofia ai social, passando, purtroppo anche per la teologia, per la ricerca di Dio o di un dio, cioè per la risposta al nostro vivere e al nostro dirci persone umane.
Regge ancora la costruzione pseudo intellettuale o addirittura spirituale?
Troppo facile è accusare la politica. Politica di chi, di quale Stato?
L’accusa è sterile e diventa solo polemica.
L’interrogativo deve dimostrarsi tagliente, saper penetrare nel grasso che offusca la nostra mente e la nostra psiche. Non intendo limitarmi alla concezione cristiana che accoglie il Misericordioso che si rivela e offre il suo amore, apro a chiunque guardando dentro di sé scopra una Presenza.
Se mi ritengo persona umana dinanzi allo sguardo di Josephine, posso ancora dormire nel mio letto, sfamarmi, godermi relazioni di amicizia e pensare alle vacanze?
Non scardina ogni carapace di autodifesa? Non mette a nudo chi siamo?
Persone che persone osano dirsi tali? Ancora osiamo?
Dovremmo lasciarci invadere da quanto rimuoviamo: la vergogna che vorrebbe emergere, se solo glielo consentissimo.
Mi pare di ritrovare in me il nazista che, belva, operava nel campo di concentramento e alla sera suonava Bach, giocava con i propri figli al margine della recinzione e si dilettava a cena con amici scelti. Servito a tavola dai deportati.
Una schizofrenia pericolosa che avvelena l’esistenza e che, per essere risanata, deve venire allo scoperto.
Io, proprio io, dove mi trovavo quando Josephine restava in balia del mare per quarant’otto ore? Come ho potuto lasciarla affidata ad un pezzo di legno? Dove si trova la mia mano?
Lo sconcerto è doloroso e lo voglio evitare.
La mia responsabilità, quella affidata a ciascuno di noi, umani, perché tali possiamo dirci, non si è sgretolata? Non deve essere ricostruita?
Non nella protesta che indice marce che poi si concludono con vane parole e distruzioni di quanto la circondano.
Ben altrove.
Nel mutamento dello sguardo.
Potrebbe innestarsi solo se ci lasciamo penetrare da quegli occhi e rimaniamo senza parole. Allora la Parola in noi potrebbe agire, ci ritroveremmo.
Il grande dolore, la grande perdita – Josephine potrà ancora credere in noi? – potranno diventare balsamo che cura.
Tatuaggio indelebile, che vivente diventa forza per agire, per cambiare, per ricostruire quanto perduto e che potrebbe diventare ancora un anello di autentica umanità da consegnare ai nostri figli, ai nostri giovani, non in termini di carriera, di denaro, ma di uno sguardo che sa affrontare l’abbandono che straripa e lo accoglie facendolo proprio.
Lasciar cadere nell’oblio, nella consuetudine della nostra società dell’immagine che passa e poi lascia il posto ad un’altra immagine, possibilmente più accattivante e tranquillizzante, è una tentazione sempre presente.
La psicologia insegna che il rimosso, in altra veste, ricompare e diventa ben difficile da individuare nella sua causa.
Accettiamo la sconfitta per la nostra umanità, lasciamoci giocare non dall’emotività ma dalla forza che ci insegna a vivere.
Il tatuaggio di quello sguardo attiri su di noi lo sguardo del Creatore e muti, in profondità, il nostro essere.
(fonte: Sir 18/07/2018)