di Giulio Albanese
Non dimenticherò mai una distinta signora, ingioiellata di tutto punto che si compiaceva per il cospicuo aiuto che, sotto forma di borse di studio, elargiva mensilmente, come dama di San Vincenzo, ad una benemerita congregazione missionaria in Africa. Al contempo, però, la signora dal piglio grintoso e un po’ grottesco, mentre parlava, vomitò un’interminabile sequela d’invettive e accidenti sui migranti, «tutti terroristi» al servizio del jihadismo più sfrenato. Secondo lei, «questi profughi che vengono da noi sui barconi» farebbero parte di una «cospirazione contro la civilissima Europa» e dunque «vanno decisamente respinti e possibilmente affogati».
Tentai d’invitarla a riflettere – ahimè invano – su quanto pesa nel nostro chiacchiericcio, spesso a vanvera, la miseria di quei popoli del Sud del mondo, quasi mai mediatizzati, ai quali abbiamo imposto oneri a non finire affinché l’azione predatoria nei confronti delle loro risorse passasse indisturbata. Poco importa che l’oggetto del contenzioso in Africa siano minerali pregiati o fonti energetiche, la verità scomoda, che alcuni vorrebbero rimanesse nel cassetto, è che il nostro mondo civilizzato ha ricevuto dalle periferie del villaggio globale, molto più di quanto non abbia restituito.
Tornando, a quell’anima bella della signora in questione – praticante e orante, così zelante da aver visitato in pellegrinaggio un numero indicibile di santuari – mi sorge spontanea una domanda: ma che razza di formazione cristiana abbiamo impartito nelle nostre parrocchie?Ma com’è possibile che vi sia una così diffusa ed endemica crassa ignorantia da parte di molti fedeli rispetto a quelli che sono i dettami del Vangelo e in particolare della dottrina sociale della Chiesa? Sono vuoti da riempire invocando il dono della conversione. Vittorio Bachelet, vittima delle spietate Brigate Rosse, diceva: «Non si vince l’egoismo mostruoso che stronca la vita se non con un supplemento di amore». Non resta, allora, che fare silenzio, riflettendo sul mistero del dolore e soprattutto sulle responsabilità umane (di noi tutti) di fronte a quei corpi cui è stato negato il diritto di “fuggire” e dunque di “esistere”.
Una cosa è certa: non chiediamoci dov’è Dio, ma dov’è l’uomo «creato a sua immagine e somiglianza». La risposta, a pensarci bene, è una sola: l’abbiamo lasciato annegare nel mare dello squallore, dell’indifferenza e dell’egoismo più becero e arrogante. Anche noi cristiani, che, solitamente, assolviamo noi stessi con la pretesa d’essere credenti, dovremmo avere il coraggio di confessare la nostra palese omertà. Quella di non dare voce ai senza voce, a coloro che vivono nei bassifondi della Storia e sono martiri dell’egoismo. Purtroppo, spesso, duole doverlo scrivere, è la demagogia a prendere il sopravvento, manipolando le coscienze, col risultato che, come il sacerdote e il levita della parabola del buon samaritano, passiamo oltre. Anche quelli, a pensarci bene, avevano motivi “da credente” (non ci si poteva avvicinare al tempio se si era contaminati dal sangue altrui).
Ma la domanda di Gesù non lascia scappatoie. Il Signore, nel Vangelo, non ci chiede chi è il nostro prossimo (con buona pace di chi dice prima i miei e poi gli altri se posso, prima gli italiani e poi gli stranieri, ecc.). Il Signore ci chiede chi è stato il prossimo di quell’uomo abbandonato moribondo ai margini di una strada in Palestina, o su una costa mediterranea, o a calcificarsi nel deserto sahariano.
Lo chiede sempre. Lo chiede ora. Forse è davvero il caso di scriverlo a caratteri cubitali all’ingresso delle nostre chiese: «Cercasi buoni samaritani»
(Fonte: Città Nuova - 4 luglio 2018)
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