Grazie padre Paolo
Intercedere, ovvero «mettersi in mezzo», è ciò che padre Paolo Dall’Oglio ha fatto nella sua vita. A lui va il nostro grazie, anche per la fedeltà con cui ha accompagnato il cammino di Popoli, che ora volge al termine.
«Caro signor Femminis, sono molto emozionato all’idea d’avere una rubrica. Infatti ero molto geloso di chi ha un sacco di tribune per prendersela con l’Islam». «Caro Stefano, qui sono ormai le quattro del mattino e la giornata di digiuno è iniziata. Ecco il pezzo: sono più di 3mila battute, dove tagliamo?».
Sono stralci della prima e dell’ultima mail che chi scrive ha ricevuto da padre Paolo Dall’Oglio, rispettivamente nel giugno 2006 e l’11 luglio 2013, un paio di settimane prima del suo rapimento in Siria. Piccoli indizi di una confidenza che nel tempo si è fatta amicizia e di una fedeltà all’impegno della rubrica che, dal gennaio 2007, il gesuita fondatore della comunità monastica di Mar Musa ha firmato tutti i mesi su Popoli.
Non si sa più nulla di padre Paolo. In questi mesi, mentre rispettavamo il silenzio stampa consigliato da autorità e parenti, in redazione ci siamo chiesti come regolarci su Popoli quando la consegna del silenzio sarebbe venuta meno, a seguito di svolte positive o, al contrario, di tragiche evoluzioni. Ora che, come è stato annunciato nel numero di ottobre, si avvicina la fine della pubblicazione della rivista, ci sembra doveroso dedicare almeno questa pagina a padre Paolo. Per dirgli, dovunque si trovi, il nostro semplice grazie.
Grazie, caro Paolo, perché molte cose che dicevi e scrivevi le abbiamo capite meglio in questi mesi, con la radicalizzazione del conflitto in Siria, la sua estensione in Iraq e la comparsa sulla scena geopolitica e mediatica dei terroristi dell’Isis. La scelta dell’Occidente di abbandonare al proprio destino la parte sana dell’opposizione siriana ad Assad ha fatto trionfare i suoi nemici più violenti, finendo con il favorire lo stesso dittatore, sempre più pedina insostituibile per gli equilibri mediorientali. Tutto nel nome di una islamofobia che mette sullo stesso piano i tagliagole di al-Baghdadi e gli oppositori non violenti che marciscono nelle prigioni di Assad. Del resto, come ripetevi sempre, se ci si fa guidare dai propri fantasmi, quei fantasmi poi si materializzano. Perché la paura è la madre di tutti i fondamentalisti, in un «circolo ermeneutico infernale», così lo chiamavi, in cui «le paure legittimano la repressione, che crea l’estremismo, che giustifica le paure».
Grazie, padre Paolo, anche e soprattutto per la tua fede totale nel dialogo. Un dialogo incarnato, concreto, lontano dalla versione caricaturale facilmente criticata dai teorici dello scontro di civiltà. In una splendida omelia del 1991, il cardinale Carlo Maria Martini così spiegava: «Intercedere non vuol dire semplicemente “pregare per qualcuno”. Etimologicamente significa “fare un passo in mezzo”, fare un passo in modo da mettersi nel mezzo di una situazione. Intercessione vuol dire allora mettersi là dove il conflitto ha luogo, mettersi tra le due parti in conflitto. Non si tratta quindi solo di articolare un bisogno davanti a Dio (Signore, dacci la pace!), stando al riparo». Ecco, ci pare che questo «mettersi in mezzo», con tutti i rischi del caso, sia esattamente ciò che hai fatto nella tua vita, sia stato il tuo modo di intendere la missione del dialogo.
«L’unico mezzo per donare la propria vita per Gesù consiste nell’aiutare ognuno a essere un pellegrino di verità», scrivevi in un libro ora ridato alle stampe (L’uomo del dialogo, Paoline 2014). Noi siamo grati, caro Paolo, per avere fatto con te un tratto di questo pellegrinaggio.
Stefano Femminis
Direttore di Popoli
6 novembre 2014
Vedi anche alcuni dei nostri post precedenti: