Le parole hanno il peso che ciascuno è disposto a dare loro. È questo il dato che accomuna i due eventi suscitati dalle parole di scomunica pronunciate da papa Francesco in Calabria contro i mafiosi. Da un lato un gruppo di detenuti per reati di mafia sospende la propria partecipazione alla messa nella cappella del carcere, dall’altra una processione con la statua della Madonna si ferma per onorare un boss agli arresti domiciliari. La prima evidenza che emerge è che Papa Francesco assapora ancora una volta il fraintendimento delle sue parole e delle sue intenzioni. L’abbiamo già scritto più volte: non può essere diversamente perché, se hanno potuto pervertire le parole di Gesù, come potranno non farlo anche con quelle del successore di Pietro?
In verità, anche se il Codice di diritto canonico non la prevede esplicitamente, l’episcopato siciliano ha ricordato la pena della scomunica ai mafiosi già nel 1944, l’ha reiterata nel 1955 e ancora nel 1982. Resta tuttavia vero che papa Francesco nella Calabria infestata dalla n’drangheta e dalla mafia ha gridato in modo esplicito nella piana di Sibari: “i mafiosi non sono in comunione con Dio, sono scomunicati!”. Ha cioè ribadito con vigore una verità semplice e reale per chi si professa cristiano e aderisce al vangelo di Gesù Cristo.
Non ha firmato uno specifico decreto di scomunica per i mafiosi, ma ha minacciato con linguaggio profetico quanti appartengono alla mafia, un’associazione criminale che uccide nemici e innocenti, fino a organizzare stragi: una denuncia della loro situazione notoria e ostinata nel perseverare nel delitto e un avvertimento sull’inevitabile conseguenza di essere separati da Dio e fuori dalla comunione ecclesiale. Papa Francesco non si sostituisce al giudizio definitivo di Dio su ogni singola persona, ma ricorda che ciascuno sarà giudicato in base al proprio operato: non è Gesù Cristo che condanna, ma ognuno si condanna da se stesso e il giudizio ricade su ogni azione e ogni pensiero già oggi.
Il magistrato calabrese Nicola Gratteri aveva lanciato un allarme circa le possibili reazioni della n’drangheta anche nei confronti del papa, e Francesco le conosce bene, ma non per questo può venir meno al compito apostolico di “insistere al momento opportuno e inopportuno, di ammonire, rimproverare” (2 Timoteo 4,1-2). Papa Francesco e con lui la chiesa non può tacere perché ne verrebbe il pervertimento della fede e dell’appartenenza alla chiesa. Non si può beatificare chi ha lottato contro la mafia e poi restare silenti, non vedere, lasciare spazio a collusioni indegne del vangelo. Allora, com’è possibile che una processione, se è espressione di “pietà popolare” cristiana, diventi uno strumento di culto idolatrico e si lasci pervertire in una prosternazione davanti a chi si è macchiato di sangue?
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