Riccardo Cristiano
Padre Paolo Dall’Oglio, dubbi e misteri irrisolti
Ucciso dall’Isis o venduto ad Assad? Morto nel 2013 o sei anni dopo? Mentre si rincorrono voci sul possibile ritrovamento del corpo di padre Paolo Dall’Oglio, scomparso in Siria il 29 luglio di dodici anni fa, un giornalista che conosceva a fondo il religioso romano e non ha mai smesso di indagare sulla sua sorte mette in ordine gli elementi di un mistero che non trova ancora soluzione.
Paolo Dall'Oglio fotografato nel 2006 nella chiesa dell'antico monastero siriano di Deir Mar Musa, che aveva rifondato negli anni Ottanta. (foto Giuseppe Caffulli)
Battaglie ideologiche e indicazione di piste, ma anche depistaggi e, come sempre, l’odore dei soldi: sono questi gli ingredienti del ginepraio di falsità che abbondano nella dolorosa e intricata ricerca della verità su padre Paolo Dall’Oglio, e quindi di cosa sia successo il 29 luglio 2013, quando di lui si sono perse le tracce a Raqqa, in Siria. Nessuno ha detto ufficialmente che è stato rapito dall’Isis, come appare scontato, ma i militanti islamisti questa azione non l’hanno mai rivendicata. Eppure, l’Isis sapeva bene come farsi pubblicità con i sequestri, e la cattura di un «infedele» – come avrebbero certamente definito padre Dall’Oglio – per loro poteva essere una macabra occasione di richiamo mondiale. Ma non l’hanno usata. È il primo fatto che raramente si cita: ritengo che lo temessero, per la sua enorme popolarità, soprattutto tra i siriani di fede islamica. Le immagini del suo arrivo a Raqqa, a quel tempo unica città libera dal regime e con un autogoverno democratico messo in pratica dai «comitati di coordinamento locale» dimostrano l’entusiasmo di moltissimi per la sua presenza, oltre alla nettezza della distanza dall’Isis, chiuso nel suo quartier generale, da dove a novembre avrebbe attaccato e sconfitto i comitati e l’Esercito Libero Siriano.
Anche per questo è divenuto legittimo sospettare che lo avessero ucciso, o venduto, magari al regime di Bashar al-Assad con cui avevano torbidi legami. In un libro pubblicato anni fa in Francia, in lingua araba da Brocar Press, Maabad al Hassun, che ha combattuto contro l’Isis, ha scritto che c’era addirittura un funzionario dei servizi di Assad con un ufficio tutto suo nel quartier generale dell’Isis a Raqqa, quello dove è scomparso Dall’Oglio. È una sua affermazione, non più verificabile e che comunque non sorprende, se si considera che le grandi battaglie dell’Isis sono state contro gli oppositori di Assad, anche a Raqqa, pochi mesi dopo il sequestro di padre Paolo, quando l’Isis riuscì a imporsi con la violenza, facendone la sua capitale.
Perché una missione a Raqqa
Ma ben prima di questi eventi Dall’Oglio si è voluto a ogni costo recare nel quartier generale dell’Isis. Che cosa lo spinse non è stato oggetto di ricerche, sono bastate le parole di circostanza con cui lui stesso aveva spiegato di voler parlare con i capi dell’Isis per ottenere il rilascio di alcuni ostaggi. Era una tesi di facciata. A molti amici, tra i quali io stesso, padre Paolo, con toni gravi, aveva scritto poco prima del 29 luglio 2013 di «aver accettato» di cercare un negoziato con l’Isis. «Accettato»… La sua tesi di facciata ha convinto, e presto è diventato importante capire l’esito della sua sparizione: lo hanno ucciso? La tesi che fosse rimasto in vita a lungo è parsa sempre meno plausibile.
La difficilissima e meritoria ricerca della verità, dei probabili assassini di Paolo, ha portato a galla piste sulle quale indagare: ma ho percepito un rischio; semplificare. I due campi d’indagine, Isis e regime, non possono essere nettamente separati. Perché l’Isis non è un frutto della Primavera, piuttosto una malattia prodotta contro di essa da tanti orrori. Si trattava allora, nel caso, di capire la lezione di Dall’Oglio, che parlò della «oscura cloaca» che avvolgeva ambienti inquinati come quelli del terrorismo: lì dentro si mescolavano servizi deviati, traffici di droga, di armi, interessi di potenze straniere, accanto ovviamente a pulsioni facilitate dalla deriva disumana dei fatti e da ideologie malate.
Avveduto, non certo uno sprovveduto che non aveva capito in quale covo di vipere si fosse introdotto il 29 luglio 2013, padre Paolo avrebbe potuto spiegarci tanti risvolti dell’oscura cloaca nella quale era entrato, sapendone molto di più, almeno di me. Non lo dico perché gli ho sempre voluto bene, come a un fratello se guardiamo all’anagrafe, come a un padre se guardiamo a ciò che mi ha fatto capire. Ma perché me lo disse lui stesso, al telefono, poco prima di partire per Raqqa, alla fine di quel tremendo mese di luglio 2013.
Messaggero per i curdi
Si trovava nel suo monastero di Sulaymanya, nel Curdistan iracheno, cioè presso quei curdi che già nel 2012 lo avevano aiutato a entrare clandestinamente nella Siria di Assad, pochi mesi dopo che il regime lo aveva espulso accusandolo di ogni infamia. Realizzava un lavoro prezioso per la stazione televisiva Orient TV, nel quale metteva a confronto esponenti di tutte le anime siriane. Le puntate di quel programma sono, a mio avviso, il suo vero testamento: il suo impegno concreto, fisico, per la riconciliazione dei siriani, curdi e arabi, islamisti, laici e pii, moderni e conservatori.
Quel giorno, padre Paolo, parlandomi al telefono mentre osservava i monti del Curdistan iracheno, mi disse che stava per esplodere tutto. Era l’estate 2013: «La guerra coinvolgerà nuovi soggetti, le fiamme si propagheranno dalla Siria, arriveranno in Iraq, coinvolgeranno i curdi e quindi altri. Viene giù tutto». Nel giugno 2014, l’anno seguente, l’Isis avrebbe conquistato Mosul, espulso i cristiani, massacrato gli yazidi. Non lo immaginavo. Lui forse sì, ma mi colpì molto il suo allarme, perché sapevo che padre Paolo non parlava mai a caso.
Diversi anni dopo, ho saputo che Mohammad al Haj Saleh, autorevole esponente della famiglia che lo ha ospitato a Raqqa fino al giorno del sequestro, voleva finalmente parlare dal Paese europeo dove aveva trovato rifugio, potendo finalmente dire la sua verità. Non ho esitato un momento e l’ho chiamato. Mohammad al Haj Saleh mi ha detto di aver accompagnato padre Paolo al quartier generale dell’Isis la mattina del 29 luglio 2013 e di avergli chiesto perché mai dovesse per forza entrarvi e farsi ricevere: «Paolo, chi te lo fa fare?». Padre Paolo gli disse il suo segreto solo dopo aver ottenuto il giuramento che avrebbe taciuto: «Porto un’ambasciata dei leader del Curdistan iracheno per i capi dell’Isis: non posso sottrarmi, per nessun motivo al mondo».
Aveva capito che era l’ultima chance per evitare il disastro. I suoi rapporti con i curdi erano noti, lo avevano aiutato a entrare clandestino in Siria pochi mesi prima, e lui li difendeva denunciando le azioni dell’Isis contro di loro. Dunque, i rapporti, la fiducia, c’erano. E poi, i leader del Curdistan iracheno, a chi altri avrebbero potuto affidare un’ambasciata per il loro peggior nemico? Ai turchi? Avrebbero forse potuto fidarsi? Mi è sempre apparso plausibile che scegliessero padre Paolo perché era l’unico affidabile e anche l’unico che, senza tradirli, avrebbe rischiato la vita per la pace. Dunque, non dico che Mohammad al Haj Saleh mi ha detto tutta la verità: dico che non capisco perché avrebbe dovuto mentire. Il suo racconto mi è sempre apparso plausibile e importante.
Questi ricordi mi fanno guardare con distacco alla presunta contesa, l’ha ucciso l’Isis o l’ha detenuto Assad? Il punto che così sfugge è che stiamo parlando dell’unico uomo che aveva capito, che aveva nel suo cuore la consapevolezza del rischio incombente per tanti, dai cristiani di Mosul agli yazidi, a tanti musulmani illuminati indisponibili al buio dottrinale dell’Isis. Il discorso è perciò molto più grande. L’Isis ha certamente svolto un ruolo in questa tragedia, forse non il solo, però.
Nel corso del tempo, sul versante Isis, giustamente il più indagato, sono emersi racconti di esponenti dell’organizzazione che avrebbero visto la sua eliminazione. Mi hanno interessato tutti, ma mi ha colpito un racconto molto ben costruito, soprattutto psicologicamente: sarebbe stato un ragazzetto a uccidere padre Paolo, subito, per un alterco. Lasciato da solo con questo giovanotto, padre Paolo non gli avrebbe ubbidito, dicendo di conoscere il Corano meglio di lui: di qui la reazione, lo sparo, la morte. Un film perfetto: chiunque avesse incontrato una volta padre Paolo lo avrebbe riconosciuto in questo racconto. «È lui!» Io non credo che quei gruppi funzionino così e non credo che Paolo fosse un ingenuo. Sapeva con chi aveva a che fare, non era Alice nel Paese delle meraviglie.
Poi il giornale libanese di Hezbollah, Al Akhbar, ha fatto filtrare un’altra tesi: ipotizzava che agenti dei servizi italiani avrebbero addirittura incontrato Paolo in persona, nel deserto, per ore. Che cosa si voleva far intendere? Che si chiedeva un riscatto, forse per ostacolare una possibile intesa. Tutto questo mi è tornato in mente quando lo stesso giornalista, sempre su Al Akhbar, nel 2019, ai tempi della battaglia finale contro l’Isis, quella di Baghouz, sull’Eufrate al confine con l’Iraq, ha scritto che Dall’Oglio stava per essere liberato in uno scambio di ostaggi: liberazione sua e di altri due occidentali in cambio del lasciapassare per alcuni pezzi grossi dell’Isis. Scrivendolo si intendeva far saltare lo scambio? Non lo so.
Persone qualificate mi hanno detto di non credere che Paolo fosse in vita. Forse hanno ragione, ma restano i depistaggi, le bugie, le calunnie. Il bivio è tornato così quello dell’inizio: ucciso dall’Isis o prigioniero di Assad? La notizia che nel 2019 fosse a Baghouz ha convinto pochi. Così sono tornati i racconti della sua uccisione, da parte di un emiro o di un ragazzetto.
Un’altra pista di ricerca: il passaggio dalle prigioni del regime
Sull’altro versante, però, ho registrato indicazioni molto circostanziate, che attestano, in base a quanto contenuto in un database accuratissimo, come quello del Vdc (Violations Documentation Center), il transito di Paolo nelle prigioni di Assad, con tanto di data del suo ingresso in un penitenziario di massima sicurezza.
Era un database con centinaia di migliaia di schede, che online non è più disponibile on line, dopo l’apertura delle prigioni siriane: la pagina con il suo nome aveva questo indirizzo: bit.ly/2McWMb3. Oggi posso dire che fui aiutato a trovarla da un importante magistrato straniero impegnato nella ricostruzione dei crimini di guerra. Ho visto la data in cui, secondo questo database, padre Paolo entrò in un penitenziario degli Assad. Non la ricordo più, ma era di mesi successivi alla sua sparizione. E questo ha un grande valore. Indicherebbe una possibile «cooperazione». Una cessione?
Non propendo per una tesi. Ma non separo neanche i due campi con nettezza, tutt’altro. Dico che non bisogna perdere di vista la storia vera, quella della scelta di padre Paolo. Ritengo non plausibile che sia vivo, ma non escludo del tutto, purtroppo, che ancora nel 2019 potesse essere usato come ostaggio, o pedina di scambio.
Il punto vero su cui riflettere, per orientarsi, rimane per me quello dei motivi che lo hanno spinto ad andare dal nemico: la dichiarazione di Mohammad al Haj Saleh non ci dice il nome di chi lo ha ucciso, ma ci dice un’altra cosa: uno dei motivi per cui Paolo – secondo quel che afferma avergli detto lo stesso Dall’Oglio – è andato dall’Isis. Ce ne possono essere stati altri, so che si parla di altre sue intenzioni. Comunque, un osservatore molto attento mi ha detto che il suo stesso rientro clandestino in Siria, per la seconda volta, era per il regime di Assad una sfida intollerabile. Credo che anche questo possa aver influito sul suo destino. Bisogna capire.
Le voci su padre Paolo negli ultimi anni sono parse diminuire. Ma nel 2019 gli Stati Uniti hanno offerto 5 milioni di dollari come ricompensa per chi avesse fornito notizie certe sul destino di cinque religiosi scomparsi in Siria, tra i quali, oltre a due vescovi, figura anche Dall’Oglio.
Qui potremmo trovare una piega attraverso la quale guardare a quanto accaduto nei giorni passati. Come è noto, i curdi hanno ancora oggi, con il sostegno degli americani che però tendono a uscire di scena, il controllo dei campi e dei prigionieri, ordinari e d’eccellenza, dell’Isis. Di tutto questo lavoro enorme, che riguarda migliaia di persone e alcuni «pezzi grossi», si sa assai poco. Ma questa è la realtà.
Perché si torna a parlare del gesuita amico dell’islam?
Ora è accaduto che quello che sembra essere un amico di un ex emiro dell’Isis, che si trova sotto il controllo dei curdi, ha scritto sui social media che i curdi avrebbero trovato a Raqqa una fossa con alcuni corpi e un cadavere apparteneva a un uomo molto alto *. I curdi avrebbero inviato sul posto una loro squadra, che avrebbe individuato il posto ed effettuato dei prelievi. Ritengo che, divulgando queste «informazioni», abbia riferito quanto suoi interlocutori gli avranno riferito: «Il tal emiro dell’Isis ha parlato, ha svelato ai curdi il luogo della sepoltura di padre Paolo e loro hanno mandato da Qamishli (capoluogo della regione autonoma dei curdi siriani – ndr) una squadra nel luogo indicato».
Ha diffuso la notizia diversi giorni prima che divenisse di pubblico dominio attraverso le dichiarazioni del vescovo armeno-cattolico di Qamishli, monsignor Antranig Ayvazian, che l’ha avvalorata.
I curdi però non hanno confermato. Fonti affidabili, coloro che svolgono le ricerche degli scomparsi e delle fosse comuni in Siria, hanno smentito. Chi dice di aver dato ai curdi l’indicazione, la «dritta», non potrebbe essere interessato a tentare in qualche modo di raggiungere la ricompensa? Non ho certezze, dico solo che si dovrebbe indagare, capire, chiedere, verificare e allargare il discorso. Perché la verità su Paolo può anche essere rischiosa. Il suo corpo ha evidentemente un valore, sacro, come la sua storia.
Si tratta di sapere se sia morto, e dove sia eventualmente il suo corpo, ma anche chi siano i veri responsabili della sua morte e i loro motivi. Io non credo all’alterco. Se stava portando un’ambasciata dei curdi, all’Isis potrebbero aver pensato che uccidendolo si sarebbe fatto capire che l’offerta era respinta, senza che ci fosse un testimone di questo rifiuto. E altre sue possibili ricerche? Anche questo potrebbe aver influito. Resta il fatto che probabilmente un uomo si è mosso, dietro richiesta, per evitare il peggio.
«Contenere il male!»: come sigillo del martirio
«Contenere il male!»: a questo pensava padre Paolo mentre andava a Raqqa? Lui, da tutti definito irruente, pensava a contenere, fermare, salvare il salvabile? Su questo fondo sta la mia convinzione: il suo è stato un vero martirio e l’idea che sia andato a chiedere di rilasciare una o due persone a lui care non mi basta: perché avrebbero dovuto ascoltarlo? Ai miei occhi c’era uno sforzo enorme nella sua azione, per quel contenimento del male nel nome del quale potrebbe essersi offerto messaggero, dopo aver invocato il diritto dei siriani a difendersi da chi li voleva sterminare.
L’agenzia Reuters, la sera del 29 luglio 2013, dando la prima notizia della sua sparizione, ha citato Abdel Razzaq Shlas, esponente di primo piano nella Raqqa di allora, per il quale le denunce di Dall’Oglio di massacri di curdi a Tel el Abiad avevano fatto arrabbiare i leader dell’Isis. Io non ritengo che quella di Mohammad al Haj Saleh sia tutta la verità, ma non credo nemmeno che sia una bugia: forse c’era anche altro nella sua testa, nei suoi pensieri, e andrebbe appurato parlando con i testimoni prima che spariscano. I tanti siriani che testimoniano ancora tanto amore, trasporto e passione per lui, mi dicono che su questo occorre ancora scavare. Perciò continuo a seguire le tracce della sua storia, che riassume in sé tutto l’indicibile dolore siriano, oggetto dell’«indifferenza» di tanti. Non si tratta di non rassegnarsi: la storia di Paolo è la storia del popolo siriano, espulso da Assad e sequestrato dall’Isis. Forse sapremo la verità quando il tormento siriano avrà fine.
* Dopo la diffusione della notizia del presunto ritrovamento del corpo di padre Dall’Oglio, il 3 giugno monsignor Hanna Jallouf, vicario apostolico di Aleppo, è stato intervistato nella trasmissione di Rai 3 Il cavallo e la torre. Il vescovo dei cattolici latini della Siria ha detto: «Ho saputo che lui è stato ucciso in questa data, il 22 aprile 2014». Padre Jallouf ha aggiunto di non potere riferire le sue fonti. Resta la domanda: che cosa è stato di padre Paolo nei nove mesi tra la sua sparizione, il 29 luglio 2013, e il 22 aprile 2014?
(fonte: https://www.terrasanta.net/ 09/06/2025)
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- Padre Paolo dall’Oglio. Ancora un mistero? - Il corpo di padre Dall'Oglio forse in una fossa comune Resti trovati a Raqqa. La sorella Francesca: 'Non credo sia lui'
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