La caccia ai migranti tra le tante “periferie” della guerra

Vorrei in primo luogo portare l’attenzione su di un singolare rovesciamento di prospettiva operato da papa Leone che mi ha dato da pensare e che, riflettendoci, ho trovato essere non solo un’importante indicazione di metodo, ma anche un sottile gesto dal tratto potentemente evangelico. Mi riferisco all’Angelus di domenica 15 giugno, quindi a un discorso pronunciato dal papa tre giorni dopo l’attacco che Israele ha sferrato contro l’Iran, una situazione di guerra sulla quale tutte le grandi centrali di potere del mondo, comprese le grandi agenzie di informazione, sono ovviamente molto concentrate per tanti motivi che qui non è il caso di approfondire.
Eppure, in questa domenica, nel momento in cui la preghiera mariana si dilatava abbracciando il mondo, il papa ha scelto di non soffermarsi su quella specifica crisi, cosa che in molti si attendevano e che comunque aveva fatto nei giorni precedenti, puntando invece il suo sguardo di misericordia su altre gravi situazioni di guerra, quelle di cui nessuno parla e che tuttavia mietono moltissime vittime, spesso anche più vittime delle guerre “famose”. Se non è il papa oggi a farsi voce di chi non ha voce, chi altro lo farà? Insomma, oltre a tutte quelle altre che conosciamo, esistono anche le “periferie della guerra” ed è precisamente ciò che mi sembra il papa abbia voluto mostrarci, richiamandoci all’esercizio di un vero universalismo.
Una guerra fratricida
Leone ha quindi illustrato la tragica situazione del Myanmar, poi quella concernente i massacri in corso in Nigeria e, infine, quella sanguinosa del Sudan. Al termine ha solamente nominato quelle del Medio Oriente e dell’Ucraina. Perché dunque questa scelta, che alcuni hanno trovato bizzarra se non deludente?
Perché – ho pensato – il papa non è essenzialmente un “capo politico” ma un leader spirituale, non ragiona, cioè, con la mentalità di un politico ma con il cuore di un padre. Come d’altronde lo è stato papa Francesco, padre e leader spirituale, sebbene in tanti, sbagliando clamorosamente, hanno voluto costringerlo nella figura del leader politico e odiarlo o amarlo in quanto tale. E un leader spirituale cristiano non può che parlare e agire a partire dal Vangelo, laddove il modo evangelico è sempre quello di rovesciare la logica del mondo.
Se ci si pensa bene – anche se, ormai, dovrebbe essere un dato acquisito – tutti questi conflitti sono pezzi di quell’unica guerra mondiale di cui ci ha profeticamente parlato negli scorsi anni papa Francesco. Il problema è che non tutti i pezzi sono eguali per i potenti di questo mondo, nel senso che vi è una gerarchia anche delle guerre, delle stragi e delle distruzioni, una gerarchia che risponde a dei criteri o, meglio, a degli interessi politici ed economici che sovrastano ogni valore e considerazione.
Ciò porta, come effetto collaterale, direttamente a un’altra gerarchia, quella dell’informazione, per cui la notizia di 200 morti innocenti in Nigeria semplicemente non “fa notizia” a fronte delle distruzioni che sono di maggiore interesse strategico per i grandi poteri del mondo. Potremmo, anzi, essere abbastanza certi che più di uno dei potenti leader che ne sono a capo non saprebbe nemmeno indicare sulla carta geografica i paesi di cui ha parlato il papa, sia per ignoranza sia per indifferenza.
Ma, per un cristiano – e tanto più per un cattolico – potrebbe mai essere legittima una classifica di questo genere? Possiamo davvero permetterci di ignorare le vittime e i morti delle guerre che non sono nella Top List e, nello stesso tempo, fare il callo, un callo spirituale, alle migliaia di cadaveri che riempiono cimiteri e fosse comuni nei territori geopoliticamente considerati dalle logiche del mondo come strategicamente più importanti?
Per rovesciamento di prospettiva intendo, dunque, il fatto che papa Leone abbia scelto di capovolgere questa gerarchia del terrore, dando voce, compassione e riconoscimento a un particolare genere di “ultimi”: gli ultimi tra gli ultimi della Terza guerra mondiale a pezzi.
Per il cristiano non esiste una classifica della sofferenza
D’altronde, perché stupirsi? È la strategia del Vangelo: gli ultimi sono i primi. Certo, il papa non lo fa per costruire una classifica al contrario, bensì per riequilibrare la nostra visione e comprendere nell’esercizio della misericordia tutti coloro che soffrono per la guerra. In fondo, non è forse anche in questo modo che è possibile rovesciare i potenti e innalzare gli umili?
Così come, per un cristiano, non può esistere una gerarchia di poveri a cui farsi prossimi, come ha maldestramente teorizzato il vicepresidente degli USA Vance, non c’è gerarchia possibile tra le vittime di questa guerra mondiale a pezzi che – se siamo onesti – dovremmo chiamare Terza guerra civile mondiale, così come lo furono senz’altro le prime due.
E questo non solo per alcune valide considerazioni politologiche ma perché, se davvero riconosciamo una verità profonda nell’enciclica Fratelli tutti, cioè quella di una fratellanza universale nell’umanità, allora ogni guerra non può che essere una guerra fratricida, dunque una classica guerra civile, quella che gli antichi greci chiamavano stasis. Di questo si tratta, che se ne sia consapevoli o meno.
Tra i fratelli nell’umanità vi sono poi anche quelli che ci sono fratelli nella fede e giustamente papa Leone, in quell’Angelus, ci ha ricordato che in quelle periferie di guerra i massacri concernono dei nostri fratelli e sorelle in Cristo, cioè parti del suo corpo che è la Chiesa, il che ci porta alla celebre affermazione paolina: «se un membro soffre, tutte le membra soffrono insieme» (1Cor 12,26).
Caccia ai migranti: follia e disumanità
Perciò adesso vorrei spostare l’attenzione su di un altro pesante conflitto, apparentemente meno mortale ma egualmente feroce, cioè quello che in questi giorni sta attraversando gli Stati Uniti, dove migliaia di persone migranti, lì residenti da anni, sono perseguitate dal governo in carica che le definisce con disprezzo aliens, ma dove vi sono anche migliaia di persone che si stanno mobilitando per evitare che questi fratelli e sorelle vengano sequestrati e deportati con o senza processo.
È un conflitto che lo stesso presidente americano Trump non solo ha cominciato ma sta spingendo perché dilaghi, nelle strade e nelle anime, e si muti in una stagione di vera e propria guerra civile.
È lui che straparla di insurrezioni immaginarie e marines molto reali, di bad guys e Guardia nazionale come si fosse dentro lo script di un pessimo film hollywodiano; è lui a soffiare sul fuoco, spingendo giudici, poliziotti e militari ad usare metodi violenti e inumani di interpellazione e detenzione, anche se questi mezzi si profilano al di fuori di ogni legalità repubblicana; è lui a instillare paura e terrore sia tra i migranti che tra coloro che li aiutano o che protestano; è lui a manovrare il discorso pubblico, affinché si riconosca uno stato d’eccezione, ovvero un’azione di governo che si pone sopra la legge e oltre la Costituzione, dispiegato contro un presunto “nemico interno” che non è altro che il soggetto più debole del paese: il migrante che non è perfettamente in regola con ciò che determina chi ha diritto o meno a vivere sul suolo degli Stati Uniti.

Quel suolo che quei migranti stessi ogni giorno puliscono, coltivano e mettono nelle condizioni di possibilità di essere produttivo per tutti gli altri o, meglio, per quei cittadini bianchi che Trump ama chiamare, in un lampante falso storico, real americans. Ma lo stesso Trump, quando si tratta di soldi, non è uno stupido e sa bene che non può permettersi di deportare la maggior parte dei braccianti e dei camerieri che rendono ricca la California e tante altre zone del paese, per cui gioca come un forsennato sui pedali della macchina di guerra. Un po’ accelera e un po’ frena continuando, ben inteso, a tenere alta la tensione, a minacciare e a impaurire.
Quanti cattolici fra i migranti!
Bisogna inoltre pensare al fatto che proprio quei migranti, i quali sono, allo stesso tempo, il target delle operazioni militar-giudiziarie e la mano d’opera povera degli Stati Uniti, incarnano anche una delle grandi forze vive della Chiesa cattolica americana. Infatti, secondo la recente ricerca commissionata dalla Conferenza episcopale e dalle Chiese evangeliche statunitensi che, non a caso, porta come titolo One part of the body (Una parte del corpo), ben il 61% dei migranti che potrebbero essere toccati dalla politica di deportazione promossa da Trump sono cattolici, il 13% sono evangelici, il 7% sono appartenenti ad altri gruppi cristiani, un altro 7% aderisce ad altre confessioni religiose e, infine, c’è un 12% che non aderisce a nessuna religione.
L’impatto sulla Chiesa cattolica è, quindi, devastante e non solo per un fatto quantitativo ma perché, stando alle tante testimonianze di preti e leader di comunità, la rivitalizzazione di moltissime parrocchie negli ultimi anni si deve esattamente al ruolo determinante che vi hanno le persone e le famiglie di migranti.
Molti parroci oggi raccontano che, impauriti dalle retate, molti di questi fedeli non vanno più nemmeno a messa e ritirano i loro figli dalle strutture educative. Anche in questo senso, dunque, la sofferenza di questi fratelli e sorelle diventa la sofferenza dell’intero corpo di Cristo che è la Chiesa, e dunque ciascun fedele, dovunque egli viva, ne è toccato e interrogato.
Certo, i fedeli americani in primo luogo, perché essi stessi costituiscono il “santuario” sotto il quale i fratelli nel bisogno possono materialmente ripararsi, ma anche quelli lontani non possono non partecipare delle loro sofferenze, non possono non pregare per loro, non possono non sentirsi spinti dallo Spirito ad alzare la voce contro la crudeltà e l’ingiustizia del loro trattamento. In breve: non possiamo abbandonarli.
Nessuna meraviglia quindi nel vedere che, in questi stessi giorni, alcuni vescovi coraggiosi abbiano iniziato negli USA ad alzare la loro voce e a partecipare ad iniziative di protesta, se non proprio a promuoverle. Penso, ad esempio, al nuovo vescovo di San Diego, Michael Pham, il primo nominato negli USA da papa Leone, per altro egli stesso un rifugiato, che ha scritto una lettera invitando i preti, i diaconi e i responsabili parrocchiali della sua diocesi ad unirsi a lui il 20 giugno, Giornata del Rifugiato, per recarsi presso la Corte federale a portare solidarietà ai migranti che, in quel giorno, devono comparire davanti al giudice e anche a quelli che, per paura, si sono sottratti all’arresto e che in quel giorno saranno in fuga.
Cosa saremmo senza di voi?
Personalmente, devo dire che lo sviluppo di questo movimento americano anti-deportazione dà veramente tanta speranza. Non ci si lasci incantare dalla propaganda trumpiana sulle “violenze” dei manifestanti, poca roba per lo più provocata dall’atteggiamento guerresco della migra, cioè l’ICE, la forza di polizia che si occupa di “stanare” i migranti nelle loro case e sui luoghi di lavoro e dalla Guardia nazionale incaricata di tenere a bada le proteste.
Si guardi con gioia, invece, al grande movimento comunitario che in questi giorni è in corso nei quartieri di Los Angeles e di altre città americane. Persone solidali e avvocati che battono le strade dei quartieri informando la gente dei loro diritti e cercando di bloccare o intralciare gli arresti illegali, migliaia e migliaia di persone che sfilano per le strade gridando che i loro fratelli e sorelle migranti sono parte della loro vita e della loro storia, persone che per le strade si interpongono fisicamente all’arresto dei loro vicini, cattolici che riprendono le parole di papa Leone a Pentecoste – «lo Spirito apre le frontiere» – e ne fa uno slogan di lotta, mentre pensano a come rendere le parrocchie o le loro case luoghi sicuri per chi è costretto a nascondersi.
È un grande movimento di persone di buona volontà che hanno imparato, o stanno imparando oggi, al di qua e al di là dell’appartenenza religiosa, a rovesciare le gerarchie imposte dal mondo, a soffrire con chi soffre, a lottare pacificamente insieme a loro, a convocare la realtà di un mondo in cui ciò che è comune a tutti trascende ogni barriera: è il «Samaritano collettivo», come papa Francesco ci ha insegnato a chiamare questi movimenti popolari che «non passano oltre». In fondo, davanti a coloro che spingono l’umanità verso l’abisso della guerra, penso sia questo che intendeva lo stesso Francesco quando diceva che «dai conflitti si esce dall’alto», qualcosa che solo il popolo sa e può fare, tanto più il popolo di Dio.
Nei giorni scorsi è morto Brian Wilson, leader dei Beach Boys e mente geniale della musica californiana degli anni ’60, il quale scrisse una delle più belle canzoni pop di tutti i tempi, God only knows, che nel ritornello ripete «Solo Dio sa cosa sarei senza di te».
Riascoltandola, ho pensato che siano le stesse parole che a Los Angeles e a San Francisco, a New York e a Chicago, si sono detti in tanti, pensando ai loro amici, vicini o colleghi che rischiavano di essere deportati, al dolore che si prova, mentre qualcuno prova a strapparci via un pezzo di noi stessi, ma anche alla consolazione di comprendere, in un lampo, che cosa sia la vera comunione e quindi dirsi e dire: solo Dio sa che cosa saremmo senza di voi.
(fonte: Settimana News, articolo di Marcello Tarì 20/06/2025)