IL PESO D’ORO NEL DOLORE DEL RE
Sa perdonare chi è più grande e più forte
I commenti di p. Ermes al Vangelo della domenica sono due:
- il primo per gli amici dei social
- il secondo pubblicato su Avvenire
In quel tempo, Pietro si avvicinò a Gesù e gli disse: «Signore, se il mio fratello commette colpe contro di me, quante volte dovrò perdonargli? Fino a sette volte?». E Gesù gli rispose: «Non ti dico fino a sette volte, ma fino a settanta volte sette. Per questo, il regno dei cieli è simile a un re che volle regolare i conti con i suoi servi (...)». Mt 18, 21-35
per i social
Foto dal film “Mission” di Roland Joffé
C'è un modo regale di stare nel mondo, un modo divino che risiede nella larghezza del cuore: sa perdonare chi è più grande e più forte.
Gesù lo spiega con la parabola dei due debitori.
Il primo doveva una cifra iperbolica al suo signore, qualcosa come un bilancio di stato, un debito insolvibile. E il re ne sentì compassione.
Un re che non è un campione del diritto, ma modello di pietà: sente come suo il dolore del servo.
Dolore che pesa più dell'oro.
In opposizione a quello regale ecco il cuore servile: appena uscito, quel servo (del denaro) trovò un altro uomo.
Appena uscito, appena visto quanto sia grande un cuore di re, con la fretta del tutto e subito, preso il suo compagno per il collo lo strangolava... Ridammi i miei dieci euro! Lui, perdonato di milioni.
Il servo non è ingiusto, è senza pietà.
È onesto e al tempo stesso malvagio.
Quanto è facile essere giusti e insensibili, onesti e spietati.
Perché non basta essere giusti per essere uomini, giustizia e diritto da soli non faranno nuovo il mondo.
Anzi, l'estrema giustizia, ridammi TUTTI I MIEI dieci euro, è la massima offesa all'uomo: lo strangolava...
Così anche per noi. Bravissimi a calare sul piatto i nostri diritti, abilissimi prestigiatori nel far scomparire i nostri doveri.
Gesù propone l'illogica pietà:
non dovevi anche tu avere pietà di lui, come io ne ho avuta di te?
Perché avere pietà e in aggiunta perdonare?
Per immettere il suo divino disordine nell'equilibrio apparente del mondo.
Perché niente vale quanto una vita, compresa la nostra.
E allora occorre una dismisura, occorre imparare un eccesso di pietà.
Mentre l'uomo pensa per equivalenza, Dio pensa per eccedenza, e sull'eterna illusione dell'equilibrio tra dare e avere, fa prevalere l’umile grazia che nasce dalla compassione.
Questo è il mistero del perdonare: fare ciò che Dio fa, a sua immagine.
E’ il perdono di cuore. Difficilissimo. Comporta un atto di fede, non d'intelligenza. Verso l’uomo, e verso me stesso.
Un atto di speranza e non di spontaneità, che guarda al domani e non a ieri.
Come fa Dio con me: mi perdona come colui che non ha tempo per il passato, lui deve sospingere avanti. Un liberatore che sprona, che lancia, che fa salpare ancora e di nuovo verso albe intatte.
Lui è vento nelle vele, un supplemento d'energia, e perdona sospingendo verso il pieno fiorire, verso il futuro che non sai.
Perdonare significa - secondo l'etimologia del greco ‘aphíemi’ - lasciare andare, liberare, troncare tentacoli e corde che annodano malignamente in una reciprocità di debiti, in un labirinto di legami. Bellissimo questo stupore dell’illogico perdono, fino a settanta volte sette.
Dio che mi assolve, che libera il futuro, non come uno smemorato che dimentica il male, ma con la casta follia della croce che si prende gioco della logica umana e anche delle mie morti quotidiane.
Perché lui è l’Innamorato che vede già primavere dentro i miei inverni.
per Avvenire
«Non fino a sette, ma fino a settanta volte sette», sempre: l'unica misura del perdono è perdonare senza misura. Gesù non alza l'asticella della morale, porta la bella notizia che l'amore di Dio non ha misura. E lo racconta con la parabola dei due debitori. (…)