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martedì 8 settembre 2020

"A cosa serve la paura" di Enzo Bianchi

A cosa serve la paura 
di Enzo Bianchi


La Repubblica - Altrimenti
31 agosto 2020

La pandemia che nei mesi scorsi ha ammorbato i nostri paesi, esaurita (si spera) la sua fase acuta, continua ad avere effetti significativi sul nostro modo di vivere, di viaggiare, di lavorare. Oggi ci rendiamo conto di cambiamenti avvenuti nella nostra vita personale e sociale, il che può condurci a una riflessione finalizzata non solo a una maggiore consapevolezza delle nostre fragilità, ma anche delle nostre responsabilità.

In primavera avevo scritto che l’improvvisa crisi pandemica era un’apocalisse. Non nel senso con cui di solito si usa questo termine, a indicare catastrofe o fine del mondo, ma nel suo significato etimologico, con radici bibliche: apocalisse è un alzare il velo, è la ri-velazione di ciò che, pur sommerso, era già presente. Proprio nella luce apocalittica è possibile interrogarsi su un mutamento avvenuto, eppure poco meditato sui media.

La presidenza della CEI, così come numerosi vescovi, hanno denunciato nei giorni scorsi una forte diminuzione della presenza dei cattolici alla liturgia domenicale, dunque un mancato ritorno alla prassi liturgica dopo i mesi del confinamento sociale. Ciò riguarda soprattutto i giovani (diminuiti della metà), ma anche anziani e intere famiglie. In verità i giovani erano già pochi prima, erano “la chiesa che manca” (Armando Matteo), perché, interrottasi la trasmissione della fede, sono da tempo indifferenti alla liturgia. Più in generale nelle giovani generazioni la fede, se presente, è debolissima, vissuta a intermittenza, incapace di esprimersi a causa di un analfabetismo cristiano dilagante anche in Italia.

In ogni caso, questa diminuzione della partecipazione alla vita della comunità cristiana è visibile. È per paura del contagio? Forse per gli anziani, non certo per gli altri. È causata dall’abitudine ormai assunta ad assistere a una liturgia virtuale in tv, senza il peso di riservarle un orario, di recarsi in un luogo, di vivere la fatica dell’incontro con altri, spesso estranei? C’era forse una tale incapacità della comunità cristiana a vivere la liturgia che, divenuta per un certo tempo impossibile la partecipazione in chiesa, ora non se ne avverte neppure più il bisogno?

Un tempo le epidemie erano occasioni per rinnovare la devozione, eventi che la chiesa leggeva come punizione per i peccati; di conseguenza, i cristiani obbedienti si dedicavano alla penitenza. Oggi però non è così! E l’immagine iconica di papa Francesco che nell’ora tenebrosa del tramonto avanza solitario in una piazza San Pietro vuota è eloquente: l’esatto contrario delle processioni ricche di gente dei tempi passati, anche non lontani…

Oggi la paura non solo non crea gli dèi, ma non spinge neanche a invocarli. Il lato positivo è che i credenti sono stati liberati dal vivere il cristianesimo come relazione utilitaristica e superstiziosa con Dio. Eppure le paure rimangono e mutano: esse dovrebbero spingerci alla responsabilità, alla cura dell’altro, alla consapevolezza che siamo vulnerabili. Ma se le chiese restano vuote e si riempiono i luoghi della movida, certamente non cresciamo in responsabilità.

Pubblicato su: La Repubblica