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sabato 12 settembre 2020

La cultura del sospetto e le metamorfosi della fede di Giuseppe Savagnone

La cultura del sospetto e le metamorfosi della fede 
di Giuseppe Savagnone


Tramonto della fede?
In gran parte dell’Europa secolarizzata la fede cristiana, che per quasi duemila anni ne era stata l’anima, è ormai presente solo come fenomeno residuale e in continua decrescita. In un’intervista all’«Osservatore Romano» dello scorso 2 settembre, il cardinale Jean-Claude Hollerich, presidente della Commissione delle Conferenze episcopali dell’Unione europea ha detto che a suo avviso la pandemia di coronavirus avrà come effetto di accelerare di dieci anni il processo di abbandono della pratica religiosa. Una previsione che ha riscontro nella preoccupata lettera della presidenza della Conferenza Episcopale Italiana, in cui si invitavano i vescovi ad «aprirsi a nuove forme di presenza ecclesiale, per far fronte ad «un certo smarrimento (in particolare, una diffusa assenza dei bambini e dei ragazzi)» registrato tra i fedeli, molti dei quali non sono ritornati in chiesa anche dopo la fine del lockdown. 

La “cultura del sospetto”

La crisi della fede religiosa si inserisce, in realtà, in una più ampia trasformazione culturale, le cui radici sono profonde, e che ha reso problematica ogni certezza. Gli studiosi della recente storia del pensiero hanno più volte individuato in tre grandi protagonisti di questa storia – Karl Marx, Friedrich Nietzsche e Sigmund Freud – i «maestri del sospetto» che, ognuno per la sua parte, in questi ultimi centocinquant’anni hanno contribuito in modo decisivo a smascherare la falsità di rappresentazioni concettuali che avevano per secoli dominato l’immaginario collettivo dell’Occidente.

Il crollo di queste costruzioni illusorie – con la denunzia della sottile rete di interessi, di meccanismi psicologici, di abitudini inveterate, che stava dietro di esse – ha reso sempre più difficile, agli uomini e alle donne di oggi, aderire non solo alle «grandi narrazioni» religiose e metafisiche, ma a qualsiasi verità. Il sospetto è diventato – anche per tante persone semplici, abituate in un passato non troppo remoto a fidarsi senza riserve di quello che dicevano persone di cultura, esponenti della gerarchia ecclesiastica, scienziati, giornalisti, governanti – un atteggiamento radicato, che rende molto difficile la dedizione incondizionata a cause ideali, ma anche, più semplicemente, la fiducia in ciò che viene proposto da altri come vero.

La crisi delle autorità morali e culturali

Proprio coloro che, per motivi diversi, spesso di ordine socio-economico, non hanno potuto fruire di un’istruzione adeguata, e che prima erano i più disponibili ad accettare senza dubbi di sorta l’autorità morale e culturale dei “dotti”, sono ormai i più restii ad accettare questa autorità.

Colpisce leggere sui social i commenti francamente volgari e ingiuriosi che molti indirizzano contro una figura, in altri tempi da tutti ascoltata con rispetto, come quella del Sommo Pontefice. È solo un esempio. Già il Sessantotto aveva segnato la “morte dei maestri”. Allora questo fenomeno era inserito in un più ampio tentativo di combattere l’autoritarismo e di costruire un sistema nuovo. Oggi di quelle prospettive non resta nulla, se non la disinvolta scelta di trattare tutti, nelle discussioni, come propri pari, prescindendo dalla diversità di competenze che differenzia un interlocutore dall’altro.

Uno vale uno?

È la logica del populismo. Uno vale uno. Ogni pretesa differenza è una prevaricazione. Molti ricordano il confronto televisivo tra Pier Carlo Padoan, professore di Economia presso l’Università La Sapienza e già direttore per l’Italia del Fondo Monetario Internazionale e la sottosegretaria 5stelle all’economia del governo Conte 1 (confermata poi nel Conte 2), Laura Castelli, diplomata in ragioneria e con laurea triennale in economia aziendale, in cui, a proposito del rapporto tra spread e tassi dei mutui, quest’ultima zittì il suo interlocutore con un veemente: «Questo lo dice lei!». Una battuta che la stessa Castelli poi ha spiegato: «Non è che perché uno ha studiato più di un’altra, quello che ha studiato ha per forza ragione».

Contro le competenze 

È la stessa logica per cui molti, che non hanno mai aperto un libro di teologia, i quali sui social ripetono che papa Francesco è eretico, perché a loro avviso non si colloca nella tradizione della Chiesa cattolica.

La stessa logica per cui fiorisce oggi un movimento di “terrapiattisti” che sostiene la totale falsità delle tesi scientifiche ispirate alla teoria copernicana e vede in esse il frutto di un complotto internazionale.

La stessa logica che ha ispirato il movimento di rifiuto dei vaccini, basato sulla premessa che la classe medica è costituita nella stragrande maggioranza da incompetenti e mascalzoni, interessati solo a far guadagnare le case farmaceutiche.

Accusa che adesso viene rinnovata a proposito del coronavirus, che, secondo i “negazionisti”, sarebbe un’invenzione finalizzata a soddisfare oscuri interessi economici (ritorna il tema delle case farmaceutiche, desiderose di arricchirsi vendendo mascherine e sanificanti).

Una nuova forma di fede

Eppure, a ben vedere, questa “cultura del sospetto” comporta anch’essa, suo malgrado, una fede e delle certezze. Ne troviamo l’eco sui social, negli stessi messaggi ingiuriosi rivolti a studiosi o a rappresentanti del mondo politico e della Chiesa. Chi accusa la “casta” di mentire deve farlo appellandosi a qualche “ragione”. E c’è sempre qualcuno, in possesso di qualche titolo che giustifica la sua pretesa, che si presenta come “esperto fuori dal coro” e denunzia il conformismo e la malafede dei suoi colleghi. Si tratta quasi sempre di figure che, per varie ragioni (che non è certo qui il caso di analizzare) sono rimaste marginali nei loro rispettivi ambiti, o che hanno poi sentito il bisogno di mettere meglio a fuoco la loro posizione “anticonformista”.

Emblematico il caso del prof. Zangrillo, primario al San Raffaele, che aveva sostenuto, con grande sconcerto del mondo scientifico, che il coronavirus era ormai «clinicamente morto», che ha dovuto recentemente ammettere, in un momento in cui il suo più famoso paziente ha dovuto essere ricoverato per polmonite, di avere usato «una espressione probabilmente stonata nel modus». 

Anche senza appigli

Ma anche quando nessuno offre appigli per giustificare le loro certezze, terrapiattisti, negazionisti, no vax, sostenitori dell’invasione incontrollabile di immigrati, questa fede ce l’hanno, e così radicata da rifiutare di discuterla. Si ha un bel dire che ci sono dei dati scientifici, delle statistiche ufficiali, che basterebbe documentarsi per capire dove sta l’equivoco. Nulla da fare. «Sono tutte balle», rispondono. E chi vuole sostenerne la verità è, ai loro occhi, un complice dell’inganno, che sicuramente nel fare questo ha i suoi vantaggi.

Da una fede all’altra

La fede, cacciata dalla porta, è rientrata dalla finestra. Ma è una fede malata, ben diversa da quella del cristianesimo, sempre accompagnata dal richiamo alla ragione. Non sembra sia stato un buon affare per l’Europa il passaggio dall’una all’altra. Episodi storici di intolleranza – penso all’Inquisizione o al caso Galilei – non devono far perdere di vista i costanti richiami del magistero della Chiesa – esemplari i documenti del Concilio Vaticano I e del Concilio Vaticano II, ma anche l’enciclica Fides et ratio di Giovanni Paolo II – alla valorizzazione dell’intelligenza, della scienza, della ricerca critica della verità.

Un compito per la Chiesa

Forse proprio la Chiesa dovrebbe saper riscoprire l’attualità del concetto di fede maturato nella sua millenaria tradizione e riproporlo come alternativa autentica umana, oltre che cristiana. Non per difendere la propria posizione, ma per rendere un servizio agli uomini e alle donne di questa società. Non è detto che ciò basterebbe a fermare il processo di scristianizzazione in corso. Ma sarebbe – questo sì – un modo nuovo, creativo, di riproporre la sua presenza pastorale.
(fonte: Tuttavia 11/09/2020)

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