Benvenuto a chiunque è alla "ricerca di senso nel quotidiano"



mercoledì 30 settembre 2020

A quale età i giovani escono di casa? Perché c'è tanta differenza in Europa?

A quale età i giovani escono di casa?
Perché c'è tanta differenza in Europa?



 
GIOVANI CHE ESCONO DI CASA.
CHI NON TROVA LA PORTA?
di Francesco Belletti*

L’analisi dei diversi contesti nazionali, così diversi tra loro, forse aiuta a districarsi nelle varie ipotesi interpretative senza affidarsi a pregiudizi e semplificazioni. Certamente le politiche attive per facilitare l'uscita di casa e la conseguente maturazione dei figli adulti hanno un ruolo decisivo. E vanno promosse perché l'autonomia dei giovani è la priorità di ogni nazione che voglia costruire un futuro.

I recenti dati Eurostat sull’età a cui i giovani escono di casa in 32 Paesi europei sono di estremo interesse, ben al di là della consueta lamentazione sui cosiddetti bamboccioni italiani. In effetti l’età media complessiva europea di uscita di casa si attesta nel 2019 attorno ai 26 anni, ed è facile notare che in Svezia si esce a 17,8 anni (!), mentre in Italia si esce a 30,1 anni. A dire il vero non è l’Italia il Paese con il dato più alto: si deve andare in Montenegro, dove i giovani escono ancora più tardi, a 33,1 anni. E la Svezia è davvero un caso a parte: in nessun altra nazione si scende sotto i 20 anni: in Lussemburgo si esce a 20,1 anni, in Finlandia a 21,8, e seguono altri Paesi del Nord Europa. 

L’analisi dei diversi contesti nazionali forse aiuta a districarsi nelle varie ipotesi interpretative senza affidarsi a pregiudizi eccessivamente semplificatori: colpa dei ragazzi che non vogliono rischiare? colpa delle famiglie che non si fidano dei figli e li “trattengono”? colpa del mercato del lavoro, che offre solo lavori precari? colpa delle politiche, che investono su altre categorie e non sostengono giovani e bambini? Probabilmente in tutte queste ipotesi c’è del vero, e sarebbe meglio capire come intervenire su ciascuna di esse, anziché cercare il colpevole. Però dai dati si possono notare diversi aspetti.


In primo luogo ci sono “gruppi di nazioni” con comportamenti omogenei: quelle in cui si esce più tardi, dove cioè i giovani fanno più fatica a conquistare l’autonomia, sono in primo luogo i Paesi balcanici (da questi si esce più tardi, tra i 31 e i 33 anni), e in seconda battuta i Paesi mediterranei (Italia, Spagna, Portogallo, Grecia, attorno ai 30 anni). L’interagire delle difficoltà economiche per i giovani, delle scelte politiche inadeguate e delle culture familiari più o meno emancipanti offre qui combinazioni molto differenti. Dall’altra parte, emergono i Paesi scandinavi, dove si esce prima possibile (tra i 20 e i 22 anni), e poi i Paesi centro-europei (tra 23 e 25 anni). Cosa fa soprattutto la differenza tra questi gruppi di nazioni? Certamente le politiche attive per l’autonomia dei giovani hanno qui un ruolo decisivo. Ad esempio sarebbe interessante sperimentare nel nostro Paese alcune delle misure di sostegno ai giovani che qui sono normali, come abitazioni facilmente accessibili e a basso costo, occasioni di lavoro non precarie, e magari anche l’università lontano da casa (aiuterebbe certamente l’autonomia), e vedere se sono le nostre famiglie ad essere bloccate e i nostri ragazzi ad essere pigri, e non, piuttosto, le politiche ad essere gravemente deficitarie. Diamo un’opportunità ai nostri figli: non ci deluderanno!

Un secondo dato, colpevolmente trascurato da molti commenti, è la differenza di genere: in alcuni Paesi l’età di uscita dalla casa è drammaticamente diversa tra maschi e femmine, evidenziando traiettorie di vita sicuramente diverse. È il caso soprattutto dei Paesi balcanici: in Macedonia la differenza è di oltre 7 anni (i maschi escono in media a 35,6 anni, le femmine a 28). In Italia, il differenziale è presente (come in quasi tutti gli altri Paesi), ma molto più contenuto (maschi a 31 anni, femmine a 29,1). È un dato da non dimenticare, soprattutto perché le giovani donne hanno l’ulteriore potenziale handicap della gravidanza e della maternità, che sicuramente le penalizza fortemente, in assenza di politiche pubbliche efficaci e di una cultura del lavoro ancora troppo indifferenti alla grave emergenza natalità.

Cosa possono suggerire questi dati, qui solo brevemente analizzati? In primo luogo conviene ricordare che rimanere a lungo nella casa dei propri genitori costituisce per i giovani un oggettivo e prezioso “ammortizzatore”, di fronte a scenari sempre più complessi e turbolenti, ma questa scelta rinvia spesso troppo a lungo il loro protagonismo sociale e la loro reale autonomia. Sono tutti anni guadagnati alla propria libertà, quelli in cui si esce, si rischia, si mettono in gioco i propri talenti. E sarebbe interesse di tutti consentire ai giovani di prendersi in mano la propria vita, costruendo il proprio futuro e insieme il futuro del proprio Paese. Non è una questione privata: è una delle priorità di ogni nazione che voglia costruire il futuro: staremo a vedere, se davvero la Italian Next Generation sarà al centro delle attenzioni e delle priorità del nuovo piano di rilancio che in queste settimane potremo costruire, con risorse mai avute prima, che tolgono ogni alibi a chi deve decidere. Perché per costruire il futuro è indispensabile affidarlo nelle mani delle nuove generazioni.

*Direttore del Cisf - Centro Internazionale Studi Famiglia
(fonte: Famiglia Cristiana 29/09/2020 )

Età media di uscita di casa:
la mappa relativa ai giovani in Europa
(dati Eurostat)




I 30enni italiani a casa con i genitori: il rapporto Eurostat

De Masi: è l’effetto della mancanza di lavoro. 
De Rita: ma nel nido non si sta senza fare niente


Li hanno chiamati sfigati o choosy, che in inglese sta più o meno per schizzinosi. E ancora inoccupabili, sdraiati o addirittura (come dimenticare?) bamboccioni. Etichette indovinate oppure no, il fenomeno che le ha generate è vivo e lotta insieme a noi. Anzi, sta crescendo. A ricordarcelo è un file di Eurostat, l’ufficio statistico dell’Unione europa. Per ogni Stato membro, il documento dice a quale età i figli vanno via di casa, lasciando il nucleo familiare d’origine, cioè mamma e papà. La media europea è intorno ai 26 anni, 25,9 perla precisione. In Italia siamo un filo sopra quota 30, 30,1 anni. Più tardi di noi, escono di casa solo gli slovacchi e i croati, rispettivamente a 30,9 e 31,8 anni. 

La forbice si allarga

Non è una sorpresa, certo. Come non stupisce che in Svezia il momento del distacco arrivi ancora prima di diventare maggiorenni, in media a 17,8 anni. Tutti i Paesi del Sud Europa tendono a ritardare il momento dell’indipendenza, e questo non solo perché è più difficile trovare lavoro o perché il lavoro si cerca per altri canali, ma anche per una diversa visione della vita. Colpisce però che la forbice si stia allargando. Nel 2011, quando la grande crisi che di fatto non ci ha mai abbandonato era agli inizi, i giovani italiani lasciavano la famiglia d’orgine prima dei 30 anni. Per carità, appena prima, 29,7. Ma che cosa è successo se nel 2019 abbiamo superato la soglia non solo psicologica di quota 30 anni, mentre la media europea è scesa, seppure di uno zero virgola?

Un mondo senza lavoro?

«A me non sembra un segnale negativo, ma un aggiustamento per adattarci al mondo senza lavoro che sta arrivando» dice il sociologo Domenico De Masi, serafico come sempre. Lui invita ad alzare la lente di ingrandimento dalle tabelle dell’Eurostat e guardare quella che definisce la «striscia lunga dei dati». In che senso? «Nel 1891, in Italia eravamo 30 milioni e lavoravamo 70 miliardi di ore. Adesso siamo il doppio e lavoriamo quasi la metà di ore. Che la tecnologia non distrugga posti di lavoro è una bugia che ci raccontiamo tutti per stare un po’ più tranquilli. E se c’è meno lavoro è inevitabile che si resti di più nella famiglia d’origine». Nessun problema, dunque? «No, un problema c’è. Chi resta in una famiglia ricca se la cava, chi resta in una famiglia meno ricca se la cava meno. Bisogna trovare altri modi per dividere la ricchezza. Finora lo abbiamo fatto proprio sulla base del lavoro, con gli stipendi e le pensioni. Ma se il lavoro tende a scomparire?».

L’effetto Covid

«In una stagione difficile come questa è inevitabile che le famiglie d’origine diano una mano ai figli per il sostentamento o per l’investimento in istruzione, e li tengano vicini», dice il fondatore del Censis Giuseppe De Rita. Ma non c’è il rischio che andando via di casa più tardi, i giovani italiani fatichino poi a nuotare in mare aperto? «Questo dipende molto dalle famiglie di provenienza. In linea di massima questo rischio non c’è anche perché non è mica vero che chi rimane nel nido ne approfitta sempre per non fare nulla. Semmai il rischio vero è un altro». E quale? «Che ad addormentarsi sia proprio la famiglia di provenienza. Specie dopo il Covid e questo anno di assoluta mancanza di mobilità, non solo fisica, il problema può essere questo».

L’adolescenza protratta

Ma se ci spostiamo dalla sociologia alla psicologia, spuntano altre domande, altri problemi: «C’è sicuramente un fascino nell’essere trattenuti e la famiglia mediterranea tende a inseguire questa chimera del non lasciarsi», dice la psicoterapeuta Anna Salvo. «Il rischio è quello di finire in un’adolescenza protratta, quasi interminabile». E questo può essere un guaio serio. «Certo, perché noi abbiamo bisogno di movimenti oscillatori, di andata e ritorno. Altrimenti compromettiamo la nostra capacità di metterci alla prova. E quella è una ferita che può restare aperta per tutta la vita».

(fonte: San Francesco Patrono d'Italia 29/09/2020)