La bellezza di impegnarsi che salverà il mondo
Sono una moltitudine, non una rarità, le ragazze, i ragazzi, gli uomini e le donne che amano il mondo e vogliono salvarlo, che ritengono ovvio aiutare chi ha bisogno, di qualunque colore sia e dovunque viva, che non accettano di ignorare le guerre, la fame, i terremoti, il terrorismo, le malattie, le inondazioni, la miseria, l’abbandono, i migranti, dovunque la gente viva la tragedia quotidiana di una crudele incerta sopravvivenza, dove il futuro non esiste.
Ma è come se queste persone non esistessero, l’informazione spesso le scopre quando fanno cattiva notizia, come Silvia Romano, rapita in un villaggio nella pericolosa foresta keniota alle spalle di Malindi, luogo di turismo privilegiato, e non lontano dal villaggio in cui sorge il centro spaziale italiano Luigi Broglio.
Ventitré anni, milanese di Lambrate, ragazza qualsiasi senza storia, che anziché sognare di esibirsi a X Factor con i capelli tinti di viola e molti anelli al naso, ha scelto un altro modo per dare senso alla sua giovinezza, appunto il volontariato con una onlus che lavora in Africa, accettando di dare il suo contributo di entusiasmo e sostegno, a Chakama, un luogo considerato pericoloso per le incursioni di banditi e terroristi. L’avevano sconsigliata senza però fermarla: e lei ha affrontato la grande avventura, sicura del suo bisogno di essere utile, di sentirsi nel giusto, di inebriarsi di bene. Felice, ridente, come appare nelle foto circondata da bellissimi bambini, come lei felici, come lei ridenti.
Ma si sa oggi i “clicchisti” nel deserto inutile della valanga di post hanno un’idea tutta loro di cosa e chi devono irridere, sconfessare, insozzare, minacciare di morte; i gesti e le parole che non capiscono o che gli imporrebbero una riflessione, e poi chi si sottrae al cattivo umore generale con una scelta di vita coraggiosa, e chi alla fine segretamente invidiano, sentono migliori.
Non si sa cosa stia succedendo a quella che oggi è solo una vittima, doppiamente vittima in quanto donna, ma buona parte dei suoi improvvisati nemici, maschi intrappolati nelle loro infelicità, femmine avvilite dalla pochezza dei loro desideri, si augurano il peggio. E il peggio è che oggi il noioso e annoiato popolo in guerra con gli altri e quindi con se stesso, non sa come imporsi alle donne se non augurando loro una sottomissione attraverso lo stupro, la violenza, la sopraffazione di gruppo.
In questo senso a Silvia la giusta, la generosa, l’appassionata, ragazza inerme nella ferocia dei rapitori, non viene risparmiato il disprezzo con cui oggi si tenta nuovamente di isolare le donne, di rimetterle al loro posto. Forse lo sghignazzo verso Silvia è un ennesimo, stupido gioco, e giusto per non sentirsi, orrore, buoni la si accusa di non essersene stata quieta a casa sua, magari a vedere il Grande fratello vip, a seguire Elisa Isoardi su Instagram, o se proprio scriteriata, a occuparsi di bambini in Italia, naturalmente italiani. Di Isoardi e di altre belle signore di coscia lunga e vita turbolenta abbiamo simpatiche notizie tutti i giorni più volte al dì, ma chi sono le persone che trovano se stesse lavorando lontano per gli altri? Si sa che il governo fa di tutto per ostacolare un tipo di volontariato che agisce senza tener conto dei suoi diktat, anche usando la folla di insultanti di professione. Forse bisognerebbe avere lo chic di rivalutare il buon buonismo per limitare la volgarità della cattiveria arrogante e forse, prima o poi, pericolosa.
(fonte: “la Repubblica” articolo di Natalia Aspesi del 23/11/2018)
Silvia, i cattivisti e i Soloni da salotto.
Almeno tacete
Siamo molti, nell’Italia che va invecchiando, ad avere l’età per essere potenzialmente madre (o padre) e nonno (o nonna) di Silvia Costanza Romano, la giovane volontaria rapita in Kenya. Ma abbiamo anche l’età (e condividiamo la responsabilità) per essere parenti o educatori dei due ragazzi che a Varese hanno sequestrato e torturato un loro coetaneo per un debito di droga contratto da un amico di quest’ultimo. Domande facili: quale sceglieremmo come figlio o nipote? Di chi saremmo giustamente orgogliosi? Eppure, nel Paese al contrario che sempre più spesso sembriamo diventati, in poche ore sono spuntate, come piante carnivore dal fiorire improvviso sull’humus di rancore diffuso, velenose critiche e ingenerose, persino violente accuse alla nostra cooperante, rea di "essersela cercata" e di crearci nuovi grattacapi, facilmente evitabili restando a Milano.
Silvia – ci si permetta di chiamarla per nome (bisognerebbe ricominciare anche dalle buone maniere) – è finita nelle mani di miliziani senza scrupoli che, c’è da sperarlo, potrebbero chiedere un riscatto per la sua liberazione. Domanda sbagliata: ha delle colpe per questo? Chi ha una figlia o nipote che rischia la vita in modo simile non si chiederà perché è andata a sostenere gli orfani africani, ma supplicherà chiunque possa fare qualcosa di aiutarlo a liberarla. E i suoi connazionali, in genere, invece che farsi forsennati spettatori dalle tribune social e di chiederle già conto di un’ipotetica somma versata ai banditi, avrebbero trepidato e magari pregato per la sua salvezza.
Siamo abbastanza sicuri che se Silvia fosse caduta in una buca davanti a casa dei suoi denigratori da salotto, la stragrande maggioranza di essi si sarebbero mobilitati per darle una mano, in senso letterale. Restano però preoccupanti la mancanza di solidarietà, il cinismo e – diciamolo: persino la ferocia – che in Rete viaggiano veloci ormai senza neppure bisogno dell’anonimato, ma solo grazie all’assenza di remore personali e di sanzioni morali. E ancora di più colpiscono, come un schiaffo a freddo, i commenti agrodolci di acclamati opinionisti, desiderosi di non scostarsi troppo dal clima che si vorrebbe prevalente. Quello che mette alla gogna le Ong che salvano i migranti, che invoca sgomberi di senza tetto facendo finta che il problema dei più bisognosi così scompaia, che pretende inflessibile severità per tutti tranne che per se stessi.
Un Paese che coltiva il rispetto e l’altruismo, che apprezza e promuove il volontariato, non può che generare un tessuto sociale generoso e vivibile, persone capaci di slanci coraggiosi, proiettate verso il bene comune.
E qualcuna di esse andrà anche all’estero, ambasciatore di solidarietà, si diceva una volta, con una retorica buonista che sta tornando rapidamente fresca e croccante al confronto della montante muffa cattivista, mascherata da sincerità finalmente senza finzioni. Non ve la sentite di mandare un messaggio in favore di Silvia? Almeno tacete. Non tentate impietosamente di infangarne la figura. Lasciate spazio a chi ancora crede che spendere una piccola parte della propria vita per gli altri sia una scelta da lodare e incoraggiare (evitando, certo, improvvisazioni dettate solo dal cuore e con interventi il più possibile mirati ed efficaci da parte delle organizzazioni che li promuovono).
Non è il fatto peggiore dell’Italia di oggi. Non vogliamo farne una caso più grande di quello che è. Ma quelli emersi in queste ore sono segnali da non sottovalutare, spie di qualcosa che sta avvenendo nel profondo. E che può dare frutti malati nel futuro, se non verrà invertita la tendenza. Quanti penseranno di partire per terre di 'missione', quando ti danno addosso perfino nel momento in cui vieni rapito e sei in pericolo di vita? E, grattando sotto la superficie dei messaggi e dei commenti, sembrano emergere nel dibattito pubblico pure vecchi-nuovi vizi, uno tristemente sdoganato e l’altro ancora troppo superficialmente combattuto. Il primo è legato all’operato di Silvia. Non vorremmo essere maliziosi nel sospettare che dare un’istruzione e una speranza a un pugno di bambini neri di un villaggio sperduto non sia considerato da molti una priorità meritevole di impegno e rischio connesso. Il secondo è legato alla persona stessa di Silvia, un sessismo strisciante e inconfessabile, secondo il quale siamo davanti a una giovinetta incosciente che si mette nei guai per seguire sogni irrealistici. Un riflesso già comparso in passato, quando altre volontarie italiane erano state vittime di bande armate.
Non salva il mondo Silvia. Non è un’eroina. Ma noi ci sentiamo di esserle accanto con gratitudine, e non solo perché è nostra connazionale. Ha 23 anni, si spende per i meno fortunati, non ha chiesto nulla per sé e, a quanto sappiamo, non è stata nemmeno imprudente (ammesso che in questi frangenti conti qualcosa). La aspettiamo con ansia, senza il benché minimo dubbio che il nostro governo farà tutto il possibile per riportarla presto a casa. Come è sempre stato e come sempre dovrà essere.
(fonte: Avvenire, articolo di Andrea Lavazza del 23/11/2018)
È polemica in Rete sul rapimento di Silvia Romano in Kenya. «Poteva stare a casa e aiutare gli italiani» è solo uno dei commenti negativi postati sui social contro la scelta di Silvia di impegnarsi in Africa come volontaria. Ma il popolo della rete questa volta ha reagito con forza a questi attacchi gratuiti. “Sono gli stessi – hanno risposto in molti – che dicevano “aiutiamoli a casa loro”, in realtà sono solo razzisti”. Abbiamo raccolto la riflessione dello scrittore ed educatore Eraldo Affinati
... Silvia ha preferito il rischio generoso alla mediocrità del calcolo azzeccato!