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lunedì 5 novembre 2018

La prefazione di Papa Francesco a “Insegnare e imparare l’amore di Dio” di Joseph Ratzinger / Benedetto XVI



Pubblichiamo la prefazione di Papa Francesco a un’antologia di testi del suo predecessore sul sacerdozio, “Insegnare e imparare l’amore di Dio” (Siena, Cantagalli, 2016, pagine, euro 19) raccolti in occasione del sessantacinquesimo anniversario di ordinazione sacerdotale di Benedetto XVI.

Ogni volta che leggo le opere di Joseph Ratzinger / Benedetto XVI mi diviene sempre più chiaro che egli ha fatto e fa «teologia in ginocchio»: in ginocchio perché, prima ancora che essere un grandissimo teologo e maestro della fede, si vede che è un uomo che veramente crede, che veramente prega; si vede che è un uomo che impersona la santità, un uomo di pace, un uomo di Dio. E così egli incarna esemplarmente il cuore di tutto l’agire sacerdotale: quel profondo radicamento in Dio senza il quale tutta la capacità organizzativa possibile e tutta la presunta superiorità intellettuale, tutto il denaro e il potere risultano inutili; egli incarna quel costante rapporto con il Signore Gesù senza il quale non è più vero niente, tutto diventa routine, i sacerdoti quasi stipendiati, i vescovi burocrati e la Chiesa non Chiesa di Cristo, ma un prodotto nostro, una ong in fin dei conti superflua.

Il sacerdote è colui che «incarna la presenza di Cristo, testimoniandone la presenza salvifica», scrive in questo senso Benedetto XVI nella lettera d’indizione dell’Anno sacerdotale. Leggendo questo volume, si vede chiaramente come egli stesso, in sessantacinque anni di sacerdozio che oggi celebriamo, abbia vissuto e viva, abbia testimoniato e testimoni esemplarmente questa essenza dell’agire sacerdotale.

Il cardinale Gerhard Ludwig Müller ha autorevolmente affermato che l’opera teologica di Joseph Ratzinger prima, e di Benedetto XVI poi, lo mette tra la schiera dei grandissimi teologi sul soglio di Pietro; come, ad esempio, papa Leone Magno, santo e dottore della Chiesa.

Rinunciando all’esercizio attivo del ministero petrino, Benedetto XVI ha ora deciso di dedicarsi totalmente al servizio della preghiera: «Il Signore mi chiama a “salire sul monte”, a dedicarmi ancora di più alla preghiera e alla meditazione. Ma questo non significa abbandonare la Chiesa, anzi, se Dio mi chiede questo è proprio perché io possa continuare a servirla con la stessa dedizione e lo stesso amore con cui ho cercato di farlo fino ad ora», ha detto nell’ultimo, commovente Angelus da lui recitato. Da questo punto di vista, alla giusta considerazione del Prefetto della Dottrina della Fede, vorrei aggiungere che forse è proprio oggi, da Papa emerito, che egli ci impartisce nel modo più evidente una tra le sue più grandi lezioni di «teologia in ginocchio».

Perché e forse soprattutto dal monastero Mater Ecclesiae, nel quale si è ritirato, che Benedetto XVI continua a testimoniare in modo ancor più luminoso il «fattore decisivo», quell’intimo nucleo del ministero sacerdotale che i diaconi, i sacerdoti e i vescovi mai devono dimenticare: e cioè che il primo e più importante servizio non è la gestione degli «affari correnti», ma pregare per gli altri, senza interruzione, anima e corpo, proprio come fa il Papa emerito oggi: costantemente immerso in Dio, con il cuore sempre rivolto a lui, come un amante che ogni momento pensa all’amato, qualsiasi cosa faccia. Così, Sua Santità Benedetto XVI, con la sua testimonianza, ci mostra quale e il vero pregare: non l’occupazione di alcune persone ritenute particolarmente devote e magari considerate poco adatte a risolvere problemi pratici; quel «fare» che invece i più «attivi» credono sia l’elemento decisivo del nostro servizio sacerdotale, relegando così di fatto la preghiera al «tempo libero». E pregare non è nemmeno semplicemente una buona pratica per mettersi un po’ in pace la coscienza, o solo un mezzo devoto per ottenere da Dio quello che in un dato momento crediamo ci serva. No. La preghiera, ci dice in questo libro e ci testimonia Benedetto XVI, è il fattore decisivo: e una intercessione di cui la Chiesa e il mondo — e tanto più in questo momento di vero e proprio cambio d’epoca — hanno bisogno più che mai, come il pane, più del pane. Perché pregare è affidare la Chiesa a Dio, nella consapevolezza che la Chiesa non è nostra, ma sua, e che proprio per questo egli non la abbandonerà; perché pregare significa affidare il mondo e l’umanità a Dio; la preghiera è la chiave che apre il cuore di Dio, è l’unica che riesce a ricondurre Dio sempre di nuovo in questo nostro mondo, e insieme l’unica che riesce a ricondurre sempre di nuovo gli uomini e il mondo a Lui, come il figliol prodigo a suo padre che, pieno d’amore per lui, non attende altro che poterlo riabbracciare. Benedetto non dimentica che la preghiera è il primo compito del vescovo (Atti degli apostoli, 6, 4).

E così il pregare veramente va mano nella mano con la consapevolezza che, senza la preghiera, ben presto il mondo non solo perde l’orientamento ma anche l’autentica fonte della vita: «Perché senza il legame con Dio siamo come satelliti che hanno perso la loro orbita e precipitano come impazziti nel vuoto, non solo disgregando se stessi ma minacciando anche gli altri», scrive Joseph Ratzinger, offrendoci una delle tante, stupende immagine disseminate in questo libro.

Cari confratelli! Io mi permetto di dire che se qualcuno di voi dovesse mai avere dei dubbi sul centro del proprio ministero, sul suo senso, sulla sua utilità, se dovesse mai avere dei dubbi su cosa veramente gli uomini si attendono da noi, mediti profondamente le pagine che ci vengono offerte: perché essi si attendono da noi soprattutto quello che in questo libro troverete descritto e testimoniato: che portiamo loro Gesù Cristo e che li conduciamo a lui, all’acqua fresca e viva, della quale hanno sete più di ogni altra cosa, che solo Lui può donare e che nessun surrogato mai potrà rimpiazzare; che li conduciamo alla felicità piena e vera quando più nulla li soddisfa, che li conduciamo a realizzare quel loro più intimo sogno che nessun potere potrà mai promettergli ed esaudire!

Non è un caso che l’iniziativa di questo volume — insieme a quella di dare vita molto opportunamente a una collana di libri tematici del pensiero di Joseph Ratzinger / Benedetto XVI — sia partita da un laico, il professore Pierluca Azzaro, e da un sacerdote, il reverendo padre Carlos Granados. A loro va il mio cordiale ringraziamento, augurio e sostegno per l’importante progetto, insieme al reverendo don Giuseppe Costa, direttore della Libreria Editrice Vaticana che pubblica l’opera omnia di Joseph Ratzinger. Non e un caso, dicevo, perché il volume che oggi presento e rivolto in egual misura ai sacerdoti e ai fedeli laici; come magistralmente testimonia, tra le tante, questa pagina del libro che offro a religiosi e laici come un ultimo, accorato invito alla lettura: «Casualmente in questi giorni ho letto il racconto che il grande scrittore francese Julien Green fa della sua conversione. Scrive che nel periodo tra le due guerre egli viveva proprio come vive un uomo di oggi: si permetteva tutto quello che voleva, era incatenato ai piaceri contrari a Dio così che, da un lato, ne aveva bisogno per rendersi la vita sopportabile, ma, dall’altro, trovava insopportabile proprio quella stessa vita. Cerca vie d’uscita, allaccia rapporti. Va dal grande teologo Henri Bremond, ma la conversazione resta sul piano accademico, sottigliezze teoriche che non lo aiutano. Instaura un rapporto con i due grandi filosofi, i coniugi Jacques e Raïssa Maritain. Raïssa Maritain gli indica un domenicano polacco. Lui lo incontra e gli descrive ancora questa sua vita lacerata. Il sacerdote gli dice: “E lei, è d’accordo a vivere così?”. “No, naturalmente no!”, risponde. “Dunque vuole vivere in modo diverso; è pentito?”. “Sì!” fa Green. E poi accade qualcosa di inaspettato. Il sacerdote gli dice: “Si inginocchi! Ego te absolvo a peccatis tuis — ti assolvo”. Scrive Julien Green: “Allora mi accorsi che in fondo avevo sempre atteso questo momento, avevo sempre atteso qualcuno che mi dicesse: inginocchiati, ti assolvo. Andai a casa: non ero un altro, no, ero finalmente ridiventato me stesso”» (Joseph Ratzinger, Opera omnia, 12, p. 781).