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sabato 10 novembre 2018

Il martirio dei frati di Tibhirine in Algeria di Enzo Bianchi

Il martirio dei frati di Tibhirine in Algeria
di Enzo Bianchi

pubblicato in “La Stampa” 
del 7 novembre 2018

La prefazione al libro di Thomas Georgeon «La nostra morte non ci appartiene» (Editrice missionaria italiana) sui religiosi uccisi negli anni 90 in Algeria e beatificati tra un mese. 

Quando la chiesa canonizza dei testimoni uccisi perché cristiani intende – come per tutte le proclamazioni di santità – riconoscere l’evangelicità del loro vissuto e indicarli come esempi all’insieme della comunità dei credenti. È la vita dei martiri, dunque, e non solo la loro morte a essere celebrata sugli altari: la loro vita spesa fino all’estremo, vissuta sulle orme della vita di Gesù di Nazaret, accolta nella vita senza fine del Signore risorto. Una vita non perfetta, una vita di peccatori capaci di conversione, una vita non esente da peccati e contraddizioni al Vangelo, ma sulla quale ha il primato la grazia misericordiosa di Dio.
I martiri sono testimoni di una vita più forte della morte, anche di quella violenta da loro subita.
Emblematiche in questo senso le vicende dei 19 martiri di Algeria, e in particolare la «passione» dei sette monaci di Tibhirine. […] Testimoni, martiri fino alla fine, in mezzo al popolo algerino: questo tratto comune ha caratterizzato anche il percorso di questi anni verso la canonizzazione. Non sono mancati, anche all’interno della chiesa d’Algeria e tra le persone più vicine ai «martiri», quanti esitavano nel propugnare questa beatificazione, temendo che potesse essere vissuta e compresa – cioè fraintesa – come un sigillo a una «eccezionalità» cristiana: solo loro sarebbero stati i martiri in quegli anni di violenza e di terrore. È prevalsa invece la comprensione più profonda e autentica: le loro storie e la loro morte parlano anche a nome delle decine di migliaia di algerini – quasi esclusivamente musulmani – vittime sacrificali dell’odio.
Lo scriveva, con lucidità e lungimiranza, fratel Christian nel suo testamento: «Se mi capitasse un giorno (e potrebbe essere oggi) di essere vittima del terrorismo che sembra voler coinvolgere ora tutti gli stranieri che vivono in Algeria, vorrei che la mia comunità, la mia chiesa, la mia famiglia si ricordassero che la mia vita era donata a Dio e a questo paese […] Che sapessero associare questa morte a tante altre ugualmente violente, lasciate nell’indifferenza dell’anonimato. La mia vita non ha più valore di un’altra. Non ne ha neanche meno». Lo confessava un algerino musulmano dopo aver partecipato ai funerali dei padri bianchi di Tizi Ouzou: «Che cosa possiamo fare, noi musulmani sinceri, di fronte a una simile tragedia, quando anche migliaia di algerini muoiono in circostanze egualmente tragiche, se non portare testimonianza e affermare alto e forte che Dio è amore, misericordia e perdono?».
Lo ripeteva fratel Michel Fleury, con la semplicità e la schiettezza che lo caratterizzavano: «Se ci succedesse qualcosa – ma non me lo auguro – vogliamo viverlo qui, solidali con tutti gli algerini e algerine che hanno già pagato con la vita, semplicemente solidali con tutti questi sconosciuti, innocenti». Lo sigilla infine, con una forza più dirompente di mille parole, il sangue di padre Pierre Claverie mescolato a quello del giovane Mohamed Bouchikhi nel brutale attentato che segna anche la fine delle uccisioni di cristiani in quella terra martoriata. […] La vita alla sequela di Cristo, vissuta giorno dopo giorno in mezzo ad altri credenti, molti di questi martiri l’avevano riletta, in quel Ribât es-Salâm, «legame di pace» che li univa agli amici musulmani, non come una discussione teologica, ma come luogo di apertura spirituale all’islam in quanto cammino verso Dio.
Lievito nascosto in una pasta divenuta sempre più acida per la violenza insensata, la chiesa d’Algeria ha pensato sé stessa come icona della Visitazione: come Maria si è affrettata ad andare verso la cugina Elisabetta per renderle servizio, portando così Gesù nascosto in grembo, questi uomini e donne di Dio erano consapevoli che a sua volta Elisabetta – il popolo cui prestavano un umile servizio – recava in sé la possibilità di riconoscere la venuta di Cristo e rallegrarsene. È forse questo il messaggio che risuona con più forza oggi nella chiesa grazie alla canonizzazione di questi «martiri della carità»: «Tutti hanno il diritto di ricevere il Vangelo. I cristiani hanno il dovere di annunciarlo senza escludere nessuno, non come chi impone un nuovo obbligo, bensì come chi condivide con gioia, segnala un orizzonte bello, offre un banchetto desiderabile. 
La chiesa non cresce per proselitismo ma per attrazione».
Ed è in questi semplici uomini e donne del Vangelo che risplende, illuminata dalla luce del martirio, quella «santità della porta accanto» che papa Francesco mette in risalto nell’enciclica Gaudete et exsultate: «Mi piace vedere la santità nel popolo di Dio paziente: nei genitori che crescono con amore i loro figli, negli uomini e nelle donne che lavorano per portare il pane a casa, nei malati, nelle religiose anziane che continuano a sorridere. In questa costanza per andare avanti giorno dopo giorno vedo la santità della chiesa militante. Questa è tante volte la santità “della porta accanto”, di quelli che vivono vicino a noi e sono un riflesso della presenza di Dio, o, per usare un’altra espressione, “la classe media della santità”». Allora sarà gioia condivisa, orizzonte di bellezza, banchetto di delizie: a questo siamo invitati da Dio assieme a tutti i nostri fratelli e sorelle in umanità.


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I martiri di Tibhirine – I monaci chiamavano amici tutti!!!