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mercoledì 21 novembre 2018

Si infittisce il mistero del sequestro di Padre Paolo Dall'Olio


Dall’Oglio, il giorno del suo 64esimo compleanno si infittisce il mistero del sequestro

Una inchiesta di “La Croix” riferisce nuovi dettagli sulla vicenda del gesuita romano sparito nel 2013, a partire da una valigia riconsegnata ai suoi cari dopo anni. Jacques Mourad, rapito in passato dall’Isis, rilegge nell’oggi la visione del confratello

Una veglia per padre Paolo Dall’Oglio

Di lui non si hanno notizie dal 29 luglio del 2013, il mistero del suo sequestro resta impenetrabile, ma aumenta anche l’impressione che gli elementi emersi consentirebbero di sapere almeno qualcosa di più. La vicenda di padre Paolo Dall’Oglio, il gesuita italiano espulso dalla Siria da Assad e poi sequestrato dall’Isis, sembra davvero riassumere la tragedia del popolo siriano, perso tra un sogno, quello della libertà, e un incubo, quello della ferocia. Nel complesso tragitto che separa il sogno e l’incubo la vicenda del gesuita romano, che ha scritto “Innamorato dell’Islam, credente in Gesù” e “Collera e luce”, indica un cammino mai semplice, come il conflitto che lo ha inghiottito. 

Cercare di capire la sua vicenda è cercare di capirne mille, impastate tra passioni e intrighi, calcoli e speranze, dedizioni e paure, aneliti e progetti egemonici, crudeltà e sacrifici, efferatezza ed eroismo. Il silenzio e l’oblio dunque hanno la forza della comodità. Potrebbe confermarlo anche la vicenda della sua valigia, citata e scandagliata in queste ore da un’ eccellente inchiesta del giornale francese La Croix. Un suo amico, Youssef Daas, uno di quelli che lo vide nelle ore precedenti il sequestro a Raqqa e che poi hanno dato l’allarme sulla sua scomparsa, nel 2014 decise di fuggire dalla sua città. Non devono essere stati momenti facili per lui, che comunque in un contesto drammatico non si dimenticò del suo amico, dei suoi effetti personali. Tolse quel che gli apparve superfluo, mise tutto in una sacca e lo portò con sé, consapevole del rischio, in Turchia. 

Le vicende siriane non sono mai semplici, i pericoli molteplici, è probabilmente questo il motivo per cui Youssef affidò il tutto a una terza persona, che fece inviare gli effetti di Paolo non al consolato più vicino, come concordato, ma a Parigi. Nella capitale francese un dissidente siriano consegnò quanto ricevuto all’ambasciata italiana. Eravamo nel 2014, ma solo all’inizio del 2018 gli effetti personali arrivarono a chi di dovere, cioè ai suoi cari, che dopo essere stati informati avrebbero atteso a lungo prima di entrarne in possesso. Questo, riferito sommariamente, ricostruisce il giornale cattolico francese, dandone conto in questa ampia e approfondita inchiesta, aggiungendo che lì c’erano tutte le chiavi d’accesso al suo tablet e ai suoi account. 

A Vatican Insider è stato riferito che i passaggi di mano in Turchia sarebbero stati effettivamente due, gli effetti del religioso infine sarebbero stati portati di persona a Parigi da persona vicina a chi poi li ha consegnati all’ambasciata italiana. La certezza di Youssef, è stato fatto notare in base a quanto scritto dal figlio sul Raqqa Post tempo fa, era che quegli effetti personali fossero stati portati al consolato italiano di Gazantiep, il più vicino al confine siriano. Cosa accadde? Non sembra sia stato appurato, dal momento che nessuno avrebbe ritenuto di sentire i protagonisti di questa complessa vicenda. Ma il punto della ricostruzione di La Croix sta nel tempo impiegato dalla valigia di padre Paolo Dall’Oglio ad arrivare dall’ambasciata italiana a Parigi ai suoi veri destinatari. Tantissimo. E qui le ulteriori domande non sono poche. 

È un tempo che scorre molto lento quello del caso di padre Dall’Oglio, troppo, visto che in queste ore il gesuita romano compirebbe 64 anni: quando è stato rapito ne doveva compiere 59; è vivo? È stato ucciso? E da chi? E soprattutto, perché? Tutto questo rimane avvolto da un mistero impenetrabile, come nel caso di tantissimi siriani, quale Paolo si riteneva e definiva: migliaia di persone né vive né morte, inghiottite nel buio siriano, un buio che non finisce mai. Ricordare Paolo diviene così ricordare una tragedia rimossa, che coinvolge non solo le tantissime, probabilmente migliaia di persone che sono in analoghe condizioni, ma migliaia di famiglie, che convivono con l’attesa, una sottile speranza e l’angoscia da anni. 

Eppure per Paolo si è appreso il nome e la permanenza in vita del suo probabile sequestratore, Abdul Rahman al Faysal abu Faysal, emiro dell’Isis . Lui è a Raqqa, ma nessuno parrebbe averlo interrogato. La forza della sua tribù indurrebbe le autorità curde a estrema cautela: in città ci sarebbero state anche sparatorie per ottenerne il rilascio, e lui ora sarebbe a casa sua, non in prigione. Un capo dell’Isis agli arresti domiciliari? Ma c’è solo il timore per l’ordine pubblico a tenerlo lontano dagli inquirenti, o anche l’importanza dei segreti che potrebbe, volendo, svelare? Ora emergono altri nomi, vengono fatti dal pregevole e documentatissimo reportage di La Croix. Si tratta di altri esponenti dell’Isis che quel giorno sarebbero stati nella sede dell’Isis dove si persero le tracce del fondatore della comunità monastica di Mar Musa. 

«Lui, recandosi nella sede dell’Isis, entrò in un nido di serpi», dice il vecchio amico al giornale francese. Certamente è così, e certamente Dall’Oglio questo lo sapeva. Dunque deve esservi entrato per un valore che riteneva più importante della sua stessa vita, testimoniare la sua fede. E a Raqqa testimoniare la fede in quelle ore cruciali, decisive, drammatiche, le ore che hanno preceduto la conquista della città da parte dell’Isis, significava portare speranza, amicizia per l’uomo, per gli uomini, cercare la salvezza dei sequestrati, operare per evitare il peggio. 

La Croix ipotizza che portasse un messaggio della leadership curda per evitare i successivi sconvolgimenti. Può essere, ma il punto più importante può essere se il vero messaggio non sia stato proprio nel viaggio. Poche settimane prima, a Beirut, stando al rendiconto de L’Orient le Jour, durante una conferenza, padre Paolo disse: «Se i cristiani sostengono il regime (di Assad) perché hanno paura dell’islamismo lasceranno in massa il Paese. È quello che è successo in Iraq, è quello che accadrà in Siria e se non si trova una soluzione, è quello che si verificherà anche in Libano. I cristiani del Medio Oriente non sanno più perché Dio li abbia mandati a vivere con i musulmani. Quando uno non trova più una risposta a questo, allora uno parte, lascia il paese. La loro deve essere una risposta spirituale, non soltanto sociale o economica». 

Stanno forse tornando i cristiani in Siria? Ma lui, padre Dall’Oglio, l’uomo che da Mar Musa aveva affascinato tanti giovani, anziani, cristiani, musulmani, agnostici, atei, pellegrini, turisti e tanti altri ancora, sosteneva che i monasteri avessero tanto da dire, soprattutto a un mondo che dai tempi degli Ottomani, che pure cercarono la riforma dello statuto personale con le note riforme, ancora vive nella divisione confessionale e nella protezione delle comunità da parte del Sultano, o del capo di turno: «I monasteri cristiani sono la migliori riprova che non v’è miglior protezione del buon vicinato». Ma sono i cristiani di Siria quelli che devono scegliere e credere nel senso del messaggio di Paolo, quello affidato a L’Orient Le Jour soprattutto. 

Padre Jacques Mourad, aleppino che ha lavorato con Dall’Oglio sin dall’inizio dell’avventura di Mar Musa e che come lui è stato sequestrato dall’Isis, risponde senza esitare: «Questo è il momento in cui i cristiani di Siria sono chiamati a dare la loro testimonianza. Cosa vuol dire essere cristiani se si sottostà alla paura? Dov’è Dio? Sottostare alla paura è un messaggio di disperazione, non di speranza. Quella disperazione che provano tanti siriani davanti alle scelte della Comunità Internazionale che li ha dimenticati, che non ha fatto la cosa giusta. A questi siriani noi dobbiamo dare il nostro messaggio, che è messaggio di speranza, di pace, non un messaggio disperato. Voglio fare un esempio: quando sono stato prigioniero non è stata la paura che mi ha dato la forza di resistere alle pressioni che venivano esercitate su di me (si riferisce evidentemente alle minacce patite quando gli venne intimato di convertirsi, ndr). Dove mi avrebbe portato la paura? Quella forza nella paura non può esserci. E allora se noi cediamo alla disperazione, non chiudiamo le porte alla testimonianza?». 

«In definitiva - spiega Mourad - voglio dire che i cristiani sono chiamati ad aiutare loro il popolo siriano, sulla via della speranza, con il loro impegno per la giustizia e l’eguaglianza; quindi i cristiani sono chiamati a una testimonianza basata sul Crocifisso, che ha dato la Sua vita e il perdono. Siamo chiamati così a tornare allo spirito della “buona novella” dei nostri padri, dei nostri martiri; è grazie alla loro testimonianza di fede e di sangue se siamo ancora in quel territorio! Chi è responsabile del futuro dei cristiani nel Medio Oriente? Certo, scappare è facile, ma dopo? Queste parole per me sono l’eco del sacrificio di padre Paolo». 

Ritenuto da alcuni un impolitico, un sognatore, da altri un visionario, Paolo Dall’Oglio è al centro di una rimozione che arriva ai temi di fondo del nostro confronto odierno. Lui, già nel 2013, quindi ben prima del drammatico afflusso di profughi nel 2015, seppe prevedere quel che da allora avrebbe tormentato il nostro confronto sul tema dei profughi, visto che dopo il suo sequestro dalla Siria ne sono partiti milioni, dicendo in un’intervista: «È una tattica infernale scatenare le provocazioni per mettere le comunità l’una contro l’altra. Ma non senti i rumori di questi milioni di profughi che si preparano ad arrivare in Europa? Non senti i colpi dei remi, il respiro ansimante dei fuggiaschi, i motori lenti dei barconi? Sono milioni... È il nuovo esodo dalle Terre del Faraone, ma non ha Terre Promesse». 

Occuparsi del suo sequestro, dei suoi motivi, delle sue modalità, occuparsi di lui come dei due vescovi rapiti pochi mesi prima e anche loro inghiottiti ancora oggi nel buio nonostante i giuramenti di autorevoli mediatori libanesi che il rilascio fosse imminente, non vuol dire dimenticarsi di migliaia di altri sequestrati, dei quali da anni non si hanno notizie; vuol dire non avere paura di avvicinarsi alla verità, siriana e non solo siriana. Una verità che probabilmente oggi può essere cercata non solo in Siria, ma anche nei tanti luoghi dove i siriani, che spesso conservano un ricordo indelebile di quello che hanno sempre chiamato abuna Paolo (nostro padre Paolo), sono stati disseminati.

(fonte: “La Stampa Vatican Insider” del 17 novembre 2018)

Vedi anche l'inchiesta di Jérémy André in “La Croix”  Che cosa è successo a padre Paolo in Siria?  (traduzione: www.finesettimana.org)