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domenica 4 novembre 2018

L'esodo dei migranti verso l'America - almeno 2.300 i bambini in cammino - Axel, 14 anni, è la mascotte dell'esodo in marcia con le stampelle

L'esodo dei migranti verso l'America


La lunga marcia dei migranti verso l’America. Gran parte della carovana è costituita da cittadini di nazionalità honduregna: il paese, che assieme ad El Salvador condivide la frontiera settentrionale con il Guatemala, registra alti tassi di povertà e violenza. Purtroppo, queste situazioni fanno parte della vita quotidiana di milioni di famiglie centroamericane che ogni giorno, di fronte alle dure condizioni di sussistenza, prendono la dolorosa decisione di abbandonare le loro case e mettersi in viaggio, in cerca di sicurezza e di un futuro migliore.






L'esodo in Messico
In marcia altre due Carovane. 
Trump: «Non entreranno mai negli Usa»

Il presidente insiste nella retorica a pochi giorni dal voto di midterm e promette di schierare fino a 15mila soldati al confine. Ma la colonna di disperati dall'America Latina non si ferma

L'attravesamento del fiume Suchiate, da Tecun Uman in Guatemala a Ciudad Hidalgo in Messico (LaPresse)
Non si ferma la fuga per la vita dei centroamericani. Mentre la prima Carovana – partita il 13 ottobre da San Pedro Sula, nel nord dell’Honduras – s’è fermata per un giorno di riposo a Juchitán, nell’Oaxaca, il secondo gruppo, di circa duemila persone, è entrato ieri in territorio messicano, attraversando il fiume Suchiate. Nel frattempo, s’è aggiunto un terzo nucleo, un migliaio di salvadoregni, s’è messo in marcia. Tutti – oltre diecimila persone ormai – sperano di raggiungere il confine statunitense e di poter chiedere asilo. Finora, però, il presidente Donald Trump s’è mostrato irremovibile: la Carovana – o meglio le Carovane – non entreranno. Per fermare i profughi, Washington schiererà 15mila militari. Una promessa che, credono in molti, dimenticherà subito dopo il voto di midterm di martedì prossimo.

L'arrivo sulla riva messicana della terza carovana di profughi partiti dall'Honduras (LaPresse)
Nonostante le minacce, i centroamericani vanno avanti, aiutati da Chiese e società civile. Martedì e ieri, in tutto il Messico, si è pregato nelle Messe per i profughi in viaggio. Alle celebrazioni hanno partecipato anche numerosi immigrati evangelici. «Il fatto è che la Chiesa cattolica ci ha dato un gran aiuto. Sono stati fantastici con noi. È bello pregare insieme», racconta l’honduregno Harlin, in cammino con la prima Carovana.
(fonte: Avvenire, articolo di Lucia Capuzzi 1 novembre 2018)

L'odissea della carovana dei migranti attraverso il Centro America continua tra mille difficoltà 
Man mano che questa marea di disperati si avvicina alla frontiera messicana sale la tensione soprattutto per la concomitanza con le elezioni americane di midterm. I migranti in fuga da bande criminali, estorsioni e povertà hanno guadato il fiume Suchiate bella provincia di Salvador in Guatemala in una marcia disperata verso il sogno americano. Secondo l'Unicef sono almeno 2.300 i bambini in cammino con le famiglie, esposti al rischio di sfruttamento e abusi e bisognosi di servizi essenziali, come assistenza sanitaria e acqua pulita.

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In Carovana con le stampelle. «Arriverò negli Stati Uniti»

Axel, 14 anni, è la mascotte dell'esodo. I messicani di Pijijian si sono tassati per comprargli una sedia a rotelle. Trump: stretta sul diritto d'asilo

Axel Molina, 14 anni, è fuggito con la famiglia dal Nicaragua
«Sono stanco, sì ma non posso darmi per vinto. Non voglio rallentare la fuga della mia famiglia. Dobbiamo arrivare negli Stati Uniti. Là i miei genitori e mia sorellina saranno al sicuro. E magari potrò essere operato. Ho visto gli ospedali Usa in una serie tv: là sanno curare qualunque problema. Magari camminerò di nuovo». E si è rimesso in marcia. Alle 4, prima dell’alba, per evitare le ore più calde, insieme a tutti gli altri. Mentre il resto della comitiva cammina, Axel Molina arranca con la carrozzina sulle strade, non sempre asfaltate, dell’Oaxaca. «I momenti più difficili sono quando le ruote si incastrano. Ma trovo sempre qualche fratello honduregno che mi dà una spinta. Se il terreno è troppo scosceso proseguo con le stampelle. In alcuni tratti, gli altri profughi mi hanno portato perfino in braccio. Sono tutti molto solidali», racconta Axel ad “Avvenire”. L’avere perso l’uso della gamba destra non ha impedito a questo ragazzino di 14 anni, nato e cresciuto a Diriamba in Nicaragua, di mettersi in viaggio con la prima Carovana. Si è unito agli altri il 22 ottobre quando la Carovana, in gran parte costituita da honduregni, ha raggiunto Tapachula, in Messico, dopo il pellegrinaggio in territorio guatemalteco. Là, i Molina si trovavano impantanati in lungaggini burocratiche dal 27 luglio, dopo che le organizzazioni per i diritti umani erano finalmente riuscite a farli uscire dal Nicaragua. Troppo pericoloso restare: la polizia e le “turbas”, le bande paramilitari agli ordini del presidente Daniel Ortega, davano loro la caccia senza sosta. Il delitto di cui li accusavano era grave: «Terrorismo».

In fuga dalla repressione

«In realtà, la nostra colpa è stata quella di partecipare alle manifestazioni di protesta esplose nel Paese dal 14 aprile. Non me ne pento. Ma l’abbiamo pagata molto cara», sottolinea Idania, la madre di Axel. La donna ha perso il lavoro di maestra e la bancarella di vestiti usati con cui arrotondava il magro stipendio. Lo stesso è accaduto al marito. La figlia undicenne ha lasciato la scuola. «Il peggio, però, l’hanno fatto ad Axel», dice la mamma. Il ragazzino, insieme agli amici, partecipava ai “tranques” (blocchi stradali), organizzati dall’opposizione a Diriamba, una delle roccheforti della “rivolta”. «Perché l’ho fatto? Prima Ortega voleva ridurre la pensione a mia nonna che già così non riesce a tirare avanti. Poi, i suoi uomini hanno pestato la mia sorella maggiore durante un corteo a Managua. Volevo solo fare la mia parte». Nei primi mesi, il governo, in palese difficoltà, ha tollerato i “tranques”. Poi, il 7 luglio, ha sferrato “l’operazione pulizia” per ristabilire “l’ordine”. A cominciare da Diriamba. Per due giorni, la cittadina è stata bersaglio di attacchi mirati, con almeno undici morti. Perfino il cardinale Leopoldo Brenes, il vescovo ausiliare di Managua, Silvio Báez e il nunzio Waldemar Sommertag, giunti per mediare, sono stati aggrediti. Tanti sono stati feriti. Axel è uno di questi. «Erano le 5.30 del mattino dell’8 luglio quando sono arrivati e ci hanno sparato addosso. Molti di noi li hanno portati via. A me, un proiettile ha lacerato la tibia». Nonostante la ferita, il ragazzino è riuscito a fuggire. E, da allora, continua a farlo.

Axel Molina, in marcia con il resto della Carovana
La solidarietà dei profughi

«Non voglio morire. E non voglio che muoiano i miei cari. Per questo proseguo, anche se è difficile». Il Messico non era più sicuro. «Avevano minacciato la mamma». Tentare il viaggio verso il confine Usa con qualche trafficante impossibile per la mancanza di mezzi. Oltre che troppo pericoloso. Così i Molina si sono aggregati alla Carovana. Da Tapachula, Axel è partito sulle sue stampelle. «Non avevamo i soldi per una sedia a rotelle. Gli altri profughi, però, ci hanno detto: “Venite, non preoccupatevi, cercheremo di darvi una mano. È così è stato. Quando Axel era sfinito, i ragazzi più forti lo prendevano sotto braccio e, in pratica, lo trascinavano. Lo hanno anche portato sulle spalle», afferma Idania. Così è andato avanti per 148 chilometri. «Lo vedevo arrancare, era distrutto. Pensavamo di mollare, era troppo per lui», prosegue la madre. All’arrivo a Pijijiapan, però, il presidente municipale ha donato ad Axel una sedia a rotelle. Regalo della cittadina che si era organizzata con una specie di colletta. «Quando l’ho vista, sono scoppiata a piangere. Non potevo crederci. Era la risposta alle mie preghiere», dichiara Idania. «Ora che ho il mio bolide non mi ferma più nessuno. Raggiungeremo la frontiera», le fa eco il figlio. E poi? Axel scuote le spalle mentre Idania afferma: «Presidente Trump, so che lei ha dei figli. La prego, ci faccia entrare. Non vogliamo fare male a nessuno negli Stati Uniti. Vogliamo solo trovare un luogo sicuro dove vivere. Lavoreremo sodo, non se ne pentirà».

(fonte: Avvenire, articolo di Lucia Capuzzi 1 novembre 2018)