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domenica 7 ottobre 2018

Il doppio Nobel per la pace 2018 a Nadia Murad, attivista yazida e a Denis Mukwege, medico congolese

Il doppio Nobel per la pace a un'attivista yazida e un medico congolese




Sono il ginecologo congolese Denis Mukwege e la testimone yazida Nadia Murad i vincitori del premio Nobel per la pace 2018. 
L'annuncio è stato dato a Oslo venerdì 5 ottobre alle 11 ora italiana. Il premio consiste in 9 milioni di corone svedesi, pari a circa un milione di dollari.

Il medico ginecologo congolese Mukwege cura le vittime di violenza sessuale nella Repubblica Democratica del Congo, mentre Murad è una donna yazida irachena, attivista per i diritti umani, ex schiava sessuale del Daesh, che nel suo villaggio uccise migliaia di persone.

Questa la motivazione del premi: «Per i loro sforzi per mettere fine all'uso della violenza sessuale come arma in guerre e conflitti armati».



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"Questo Premio è una luce su una piaga spesso taciuta per vergogna"

di Shirin Ebadi
attivista iraniana, Nobel per la pace 2003
(Repubblica 5/10/2018)




Il Comitato che assegna il premio Nobel per la Pace, e che nel 2003 ha conferito a me questo importante riconoscimento, quest’anno ha fatto una scelta particolarmente giusta e coraggiosa nello scegliere i premiati. Il premio è andato a due persone che sono molto attive contro lo stupro e la violenza sulle donne, ma anche a due persone che nella loro vita hanno fatto scelte difficili e non banali. 
Nadia Murad è una ragazza yazida che è stata vittima di stupro da parte degli uomini dello Stato islamico: quando è riuscita a liberarsi ha rifiutato di essere per sempre una vittima e ha lottato per far conoscere al mondo le violenze odiose che aveva subito e i tanti crimini commessi dall’Isis. 
Conosco Denis Mukwege da anni: sono stata testimone nel tempo della sua lotta contro gli stupri nel suo Paese natale, il Congo. Questo dottore avrebbe potuto approfittare dei suoi studi e della sua posizione per guadagnare molti soldi, ma senza tenere conto dei suoi interessi economici ha dedicato la propria vita a curare e aiutare le donne vittime di violenza carnale. La sua dedizione ha fatto sì che quello che accade in Congo diventasse noto in tutto il mondo e si creasse una campagna contro lo stupro come arma di guerra a cui hanno aderito migliaia di persone. 
Non posso che essere felice di scelte come questa che vanno a premiare il lavoro di persone davvero speciali come sono Nadia e Denis. So per esperienza che questo premio sarà molto importante per loro come persone ma anche, e soprattutto, per le cause per cui si battono con tanta forza: ricevere il Nobel significa, fra le altre cose, avere la possibilità di raggiungere moltissime persone, anche quelle che mai si sarebbero interessate a questo tipo di cause. Significa far ascoltare al mondo la propria voce, ma anche quella di altre persone, significa far conoscere temi non sempre noti a tutti. 
La violenza carnale contro le donne, e in misura minore contro gli uomini, è sempre esistita nella storia, ma a lungo la vergogna ha impedito alle persone di raccontare quello che avevano subito. Pian piano questa cultura sta perdendo forza e sempre più donne hanno il coraggio di raccontare quello che è accaduto loro. Non mi riferisco solo ai contesti difficili, come quelli in cui hanno vissuto e vivono Nadia e Denis, o a tutte le guerre dove la violenza contro le donne è di fatto diventata una delle armi, ma anche al resto del mondo. 
Negli ultimi mesi il movimento #MeToo ha attirato l’attenzione in molti Paesi, evidenziando quello che può accadere alle donne. Questa campagna, insieme ad altre degli ultimi anni, ad esempio quella delle donne indiane, ha avuto un grande ruolo nel mettere sul tavolo una questione che riguarda tutti noi. 
Il Nobel di quest’anno va a chi si batte contro lo stupro come arma di guerra. Un premio giusto e coraggioso. Tutti gli eventi che sono accaduti negli ultimi anni in tanti Paesi diversi hanno contribuito ad accendere le luci su questo tema e su chi ci lavora.
(Testo raccolto da Francesca Caferri Traduzione di Ella Mohammadi)

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Mukwege e Nadia, i Nobel al fianco delle vittime

di Marina Corradi
(Avvenire 5/10/2018)


Il dottor Denis Mukwege, 63 anni, congolese, detto Muganga, “il dottore”, è un gigante nero dalla faccia buona, con due enormi mani, diresti, da minatore. Nadia Murad, 25 anni, yazida irachena, porta sul volto la traccia di una innocenza calpestata, come una rosa dopo una tempesta. I due vincitori del Nobel per la Pace, a guardarli, sembrano non aver nulla in comune. Entrambi invece ricevono il premio più prestigioso d’Occidente «per le iniziative contro le violenze sessuali usate come armi di guerra» dichiara la presidente del Comitato del Nobel, Berit Reiss-Andersen.

Le loro voci sono un grido rivolto verso il nostro Primo mondo che non conosce la guerra, e spesso è assopito e distratto. Sono la testimonianza sconvolgente di un “altro” mondo, per troppi di noi inimmaginabile, in cui lo stupro non è l’atto brutale di un singolo, e nemmeno la primitiva sopraffazione praticata nei secoli da barbari e invasori, ai cui occhi le donne erano terra da occupare. Il chirurgo africano che cura le donne violentate e la ragazza yazida rapita dal Daesh in Iraq, schiavizzata e poi fuggita, denunciano una più efferata violenza: lo stupro di massa come arma da guerra. Non solo per sopraffare, ma per sterminare il nemico. Perché i suoi figli, distrutta la matrice, non nascano più.

Solo così si spiegano le atrocità di cui il dottor Mukwege è testimone dal 1999, l’anno in cui fondò il suo ospedale a Bukavu, nell’Est del Congo. Una, poi dieci, cento, e in vent’anni cinquantamila donne stuprate davanti al marito e ai figli e al villaggio, perché tutti vedano; poi, orrendamente ferite e mutilate e rese sterili. Chi ascolta dal vivo la testimonianza di Mukwege resta senza fiato. Lo stesso medico confessa di essersi trovato, a un certo punto, incapace di reggere i racconti delle sue pazienti. L’orrore lo sconvolgeva, e un chirurgo deve avere la mano ferma. Da allora Mugangadelega ai collaboratori il compito di ascoltare, e lui opera soltanto. Ricuce, tesse, e cerca di non pensare. Per non essere sopraffatto dal male.

Nadia Murad aveva 21 anni e sognava di fare la parrucchiera, quando nell’agosto del 2014 vide i soldati dello Stato islamico irrompere nel suo villaggio, Kocho, nel Nord dell’Iraq. Massacrarono davanti ai suoi occhi i suoi sei fratelli. Poi, la madre. Con altre donne, prigioniera e rapita. Schiava: violentata, venduta, picchiata. Fino a desiderare la morte. Come una liberazione. Un giorno però il carceriere si distrae, e lei fugge. Fuggire, dove? I vicini sunniti ora sono nemici degli yazidi come lei. Un secolare odio, a lungo sopito, è riemerso e divampato come un fuoco.

Ma Nadia trova chi la aiuta – i giusti ci sono sempre –, approda in un campo profughi e di lì ottiene asilo in Germania (anche da questi orrori fuggono, quelli cui ora si vorrebbero sbarrare le porte). Murad comincia far conoscere la sua storia, scrive un libro, riceve – come Mukwege due anni prima – il premio Sakharov istituito vent’anni fa dal Parlamento europeo. Con la sua voce fresca racconta all’Onu violenze che ammutoliscono l’assemblea. Una ferocia non spontanea ma pianificata, teorizzata dal Daesh, insegnata ai giovani arruolati: perché il popolo yazida deve essere cancellato.

Un medico con i capelli grigi e una ragazzina alzano la voce dal fondo del buio, e chiedono aiuto. Il premio più famoso del mondo cambierà, ora, qualcosa?

Mukwege spiega e ripiega qualcosa che i lettori di “Avvenire” sanno bene: il problema fondamentale del Congo si chiama Coltan. Columbo-tantalite, un minerale ai più sconosciuto. L’80% di Coltan del pianeta si trova nelle miniere congolesi. Fino a qualche anno fa era una inutile sabbia nera. Ma ora serve per i microchip di cellulari e computer: è il nuovo oro. Cinque eserciti si combattono per questo in Congo. Le bande armate violentano le donne sotto agli occhi dei villaggi per terrorizzare e cacciare, e impadronirsi di un nuovo territorio. Lo stupro di massa programmato come arma da guerra. Le donne attaccate sistematicamente, e nemmeno in un primitivo bestiale sfogo di istinti, ma in un disegno: annichilire le depositarie della vita, fare terra bruciata di un popolo.

È il male estremo: che noi fatichiamo a immaginare, e di cui forse non vorremmo nemmeno sentire parlare. Quando, anni fa, gli conferirono il prestigioso premio di re Baldovino del Belgio, a Bruxelles, il dottor Mukwege ebbe uno scatto: grazie, disse, ma a cosa serve, se poi nulla cambia? 

Con il Nobel il suo grido e quello della Murad vengono dal pulpito più alto. Forse, l’eco da Oslo arriva perfino nei villaggi sperduti del Kivu, Est Congo; e, da radio clandestine, alle poche giovani yazide non ancora liberate. Forse, nei più remoti e oscuri angoli del mondo delle vittime, oggi qualcuno spera più forte.