A Genova si rientra a casa, per un po’
di Marina Corradi
Oggi gli sfollati della zona rossa di Genova potranno tornare nelle loro case, prossime alla demolizione, per portare via le loro cose. Ogni famiglia salirà con tre vigili del fuoco, cinquanta scatoloni e due ore di tempo. In alto, enorme, incombente, il moncone del ponte. Bisognerà non guardarlo. Bisognerà fare in fretta, e non pensare a quell’ombra scura di cemento armato sui tetti.
Due ore per portarsi via la propria vita. Se i sensori che controllano il Morandi continueranno a non registrare alcuna minima oscillazione, si potrà tornare altre due volte. Ma chissà se gli abitanti di via Porro e via Campasso lo faranno ancora. Due ore, e magari cinquant’anni da imballare, e un piano di evacuazione per scappare in quattro minuti, in caso di emergenza. Quelle case hanno sei piani. Già scendere sei piani a piedi, per chi non è giovane, richiede, forse, di più.
Gli sfollati sono contenti di poter rientrare finalmente a prendere le loro cose più care e preziose. Ma immaginiamoci che urto al cuore è, tornare dopo due mesi in quelle stanze abbandonate in furia, nell’eco atroce del crollo, che ancora insegue la memoria di chi c’era. Quando era parso che finisse il mondo. Quando si era scappati con un bambino in braccio, senza prendere neanche la borsetta. Ecco, oggi ritornano per due ore nelle loro case, come se il tempo che si è fermato il 14 agosto alle 11 e 36 riprendesse ad avanzare.
La chiave gira nella serratura. Una finestra è rimasta aperta. L’orologio in cucina segna la giusta ora, il bucato è ancora steso sul balcone. La caffettiera sui fornelli. Tornare, è rientrare in un istante pietrificato. Come in un doloroso sogno. Non avranno tempo però, gli abitanti di via Porro e via Campasso, per badare alle emozioni. Due ore, e i vigili del fuoco, gentili, che aiutano ed esortano a fare presto. Ma, da dove cominciare, e cosa scegliere, e cosa scartare? Certo i documenti, e i risparmi in contanti, nascosti, come fa chi di soldi ne ha pochi; e gli abiti pesanti, ora che comincia a far freddo. E poi? Non sono grandi, le case sotto il Morandi, due o tre locali modesti: case costruite fra gli anni Cinquanta e Sessanta, in pieno boom, e destinate alle famiglie dei ferrovieri dello snodo vicino a Sampierdarena. Case popolari. Nessuno protestò, quando gli costruirono il ponte sulla testa.
Ma quante cose hanno stipato in sessanta metri quadri i giovani sposi di allora, che ora sono vecchi. Andranno su, oggi, i figli, carichi di elenchi scritti a mano e di raccomandazioni. Si troveranno nel tinello dove sono cresciuti, incredibilmente uguale a sempre: piastrelle di graniglia, sul tavolo la cerata a fiori, nella credenza finto antica il servizio buono. Lì, si è raccomandata la madre, dentro a una zuppiera c’è un astuccio con un anello d’oro, ricordo di famiglia. I figli cercano in fretta, ma non trovano niente. Forse la mamma ricorda male.
Prendono la tv. Ma gli armadi traboccano, negli scaffali in alto, di vecchie care cose. Album di fotografie di famiglia. Pacchi di lettere dei bisnonni, dal Sud. E un altro pacchetto di corrispondenza, piccolo, legato con un nastro azzurro, che la madre ha ordinato di non aprire: remote lettere di innamorati. Cosa c’è appeso lassù, incellofanato? È un abito da sposa, dolcemente ingiallito. (Delle due ore, già ne è passata una. Purché il ponte, lassù, stia buono).
E nei cassetti? Nei cassetti delle case c’è un mondo. Rendiconti della banca. Tessere, chiavi, ricevute, medicine, ecografie. Indispensabili queste, per le cure di papà. Le mani raccolgono, nervose e veloci. Nel comò coi cassetti che non scorrono, e che non apre mai nessuno, sotto alle tovaglie ricamate, regalo di nozze, spuntano pacchi di quaderni a quadretti con file di "a" tonde, tracciate a matita. Questi, si può lasciarli andare in polvere con la casa? L’astuccio con l’anello non si trova, ma il tempo sta per scadere. Per ultima cosa un figlio afferra dal muro l’immagine di Padre Pio: lui, deve venire via.
Ed è l’ora, si va. Un ultimo sguardo alla finestra da cui si veniva chiamati a tavola, quando si giocava in cortile. Al tavolino, su cui si stava chini a studiare. Si potrà tornare un’altra volta? Chissà però se lo regge, il cuore. Con trenta scatole di vita scendere in strada. Sapere a memoria il punto del marciapiede, in cui a quell’ora il ponte allarga la sua ombra. Alzare lo sguardo quasi in un saluto: era in fondo anche lui, da sempre, una parte del proprio orizzonte. Ora se ne sta lì tronco, appeso al niente, assurdo. Andarsene, bisogna, come strappati, verso una nuova vita. Dove, come, chissà.
(fonte Avvenire 18/10/2018)
Genova. Lacrime e silenzio,
gli sfollati come spettri nelle case sotto il ponte
È iniziata con mezz'ora di ritardo l'operazione per far rientrare gli abitanti della zona rossa nelle abitazioni sotto i monconi del Ponte Morandi
I vigili del fuoco accompagnano uno sfollato in casa
Ci si è messo anche il vento forte, stamane, a scompigliare per un attimo di nuovo tutti i piani di Genova. Per un attimo è sembrato impossibile persino concedere agli sfollati - assiepati attorno alle tende della Protezione civile con scatoloni e valigie a rotelle - le due ore stabilite per rientrare. Poi l'allarme è rientrato, e dalle 9 di stamattina la straziante processione è cominciata.
La strada deserta, senza più auto parcheggiate ormai da settimane, i palazzi disabitati da ben oltre due mesi, alcune finestre rimaste aperte e un silenzio spettrale, se non fosse per il vociare degli sfollati che rientrano nelle case per due ore e dei cronisti e degli operatori fatti entrare a bordo di un piccolo pullman turistico aperto. Nella zona rossa di ponte Morandi, l'unica traccia che queste case fossero abitate sono le piante che resistono sui balconi. I primi cittadini a entrare sono stati alcuni inquilini dei civici 11 e 16 e 5 e 6, quelli più lontani dalla pila 10 del viadotto. Il capo protetto da un caschetto, e tre vigili del fuoco a fianco, hanno iniziato a riempire gli scatoloni forniti dal Comune, già montati per evitare di perdere tempo nelle due ore concesse, e a collocarli sulle piattaforme mobili da trasloco. In tutta la giornata, secondo i piani, entreranno 24 famiglie.
Una sfollata si sprofonda nell'abbraccio di un volontario della Protezione civile
«Andiamo a prendere le cose della nonna, 90 anni la domenica prima del guaio. Rivuole le sue cose e, alla sua età, spesso si vive di superfluo». Lucilla aspetta accanto alle tende dei volontari, in via Fillak, il suo turno di tornare nelle case di via Porro evacuate il giorno del crollo del ponte Morandi. «Sono qui per la nonna - racconta - ma lì non ci rientro, va mia nipote: un anno fa è mancato mio padre e non voglio più metterci piede». La nonna, come la chiama, è Liliana Paoli, detta Lilli, terza moglie del padre, alle spalle una vita da musicista e compositrice. «Non è famosa, sia chiaro», racconta Lucilla, in mano una lunga lista di cose da prendere, tra cui «due pianoforti in miniatura da “scollare piano” da una mensola, come mi ha detto la nonna...». Sono i ricordi di una vita, trascorsa per la maggior parte degli anni proprio sotto ponte Morandi.
Ai ricordi di una vita uno degli abitanti di via Porro ha dovuto rinunciare. Non ha potuto raccogliere le sue cose perché ha trovato la casa completamente allagata a causa dell'acqua piovana fuoriuscita dalle cisterne di raccolta situate sul tetto del palazzo. Nonostante l'aiuto dei vigili del fuoco l'uomo ha dovuto rinunciare al momento a riempire i 50 scatoloni a disposizione. Ora si teme che il problema possa essersi verificato anche in altri palazzi. Una donna, invece, non ha retto all'emozione: ha avuto un momento di sconforto, è scoppiata a piangere e ha interrotto la visita in casa. La donna poi si è ripresa.
Un altro sfollato tiene in mano una lista delle cose da recuperare in casa
«Ho una lista di cose da prendere. So già che non la rispetterò e so già che, una volta fuori, avrò dimenticato qualcosa...». Giusy Moretti, portavoce del comitato sfollati di ponte Morandi, sarà tra le ultime a rientrare nella propria casa. «Il mio turno è sabato pomeriggio - spiega - sono qui per rivedere gli amici di una vita, le persone della mia scala con cui abbiamo condiviso 50 anni». Due ore non sono tante per ritrovare le proprie cose tra quelle mura abbandonate di corsa lo scorso 14 agosto. «È il meglio che abbiamo potuto ottenere - dice - e comunque potremmo rientrare altre volte. Mia figlia vuole la sedia a dondolo, spero riusciremo a prenderla. E poi vorrei l'orologio di mio padre, quello che gli hanno regalato quando è andato in pensione dalle Ferrovie. Spero di trovarlo, perché ho un vuoto di memoria e non ricordo dove l'ho messo...». Alle sue spalle i monconi del viadotto, monumento di una tragedia che mai avrebbe immaginato. «Paura del ponte? Non l'ho mai avuta, neppure il giorno che è caduto».
(fonte Avvenire 18/10/2018)