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domenica 28 ottobre 2018

Il “Papa fragile” di Gianni Valente - Padre Giulio Albanese: "Attaccano Papa Francesco perché mette in discussione gerarchie e privilegi"

Il “Papa fragile”

di Gianni Valente

Mentre i detrattori si affannano a ingigantirne le “manchevolezze”, Francesco chiama la Chiesa a recitare il Rosario come protezione dalle insidie del demonio, canonizza Romero, e fa firmare l’accordo con la Cina sui vescovi. E non si tratta solo di coraggio umano



Stanno ormai scorrendo le ultime giornate del Sinodo dei vescovi dedicato ai giovani, e nella girandola di iniziative ed eventi organizzati a Roma durante più di tre settimane di lavori sinodali, solo il pellegrinaggio alla Tomba di Pietro indetto giovedì 25 ottobre dal Pontificio Consiglio per la nuova Evangelizzazione ha finalmente offerto ai membri del Sinodo l’opportunità di compiere almeno una volta insieme il gesto semplice che Papa Francesco aveva chiesto a tutti i cattolici del mondo: recitare ogni giorno del mese di ottobre il Rosario, l’invocazione mariana “Sub tuum praesidium” e la preghiera a San Michele Arcangelo per chiedere «di proteggere la Chiesa dal diavolo, che sempre mira a dividerci da Dio e tra di noi». Una richiesta di preghiere che pure rimane, per molti versi, una delle cose più rilevanti accadute nella Chiesa negli ultimi decenni.

Con l’invito a porsi “in stato di preghiera”, rivolto a tutti i cattolici, Papa Francesco ha indicato – con tono sommesso e senza allarmismi - almeno due dati di realtà che connotano il tempo presente: ha detto che la condizione in cui versa la Chiesa è grave, e che da tale stato di rischio non si esce in forza di rimedi o espedienti umani. 

La richiesta del Papa, quasi nascosta tra gli altri avvisi usciti dal Vaticano lo scorso 29 settembre, è stata raccolta al volo da milioni di battezzati che in ogni parte del mondo si incontrano in parrocchie, cappelle e case di città e villaggi a pregare insieme, o magari recitano silenziosamente il Rosario mentre percorrono le tratte del loro pendolarismo quotidiano. Lo hanno colto di meno gli apparati ecclesiastici. Lo stesso Sinodo in corso è apparso assorbito nella ricerca di tattiche social e posture volte ad intercettare presunti universi giovanili con qualche lifting che renda più accattivante l’immagine della Chiesa. Senza cogliere e abbracciare davvero la vertiginosa estraneità ai dati elementari del Vangelo e della vita ecclesiale che dilaga tra ragazzi e ragazze, per i quali il cristianesimo è sempre più «un passato che non li riguarda» (Joseph Ratzinger). 

Le pulsioni auto-referenziali dei circuiti ecclesiastici e mediatico-clericali, il loro scollamento dal sensus fidei del popolo di Dio li rendono poco avvezzi a cogliere le autentiche suggestioni profetiche dell’attuale Successore di Pietro. Anche tanti sedicenti esegeti della “linea” del pontificato hanno relegato sullo sfondo delle loro guerricciole mediatiche il suggerimento di preghiere giunto dal Papa. 

In effetti, solo quel che resta del Popolo di Dio sembra aver avvertito per istinto il cambio di passo nella crisi ecclesiale catalizzatosi anche intorno alla cosiddetta operazione-Viganò, l’ex nunzio vaticano che ha chiesto le dimissioni del Papa con l’accusa di aver protetto e favorito il cardinale Usa 86enne Theodore McCarrick, abusatore sessuale. Nel momento presente, il caso-Viganò rivela i processi di mondanizzazione e snaturamento intimo della Chiesa innescati proprio da pretese di indossare panni e maschere da difensore dell’ortodossia. Non era mai accaduto nella storia – come invece è successo con il caso Viganò – che decine di vescovi, quasi tutti negli Usa, attestassero il proprio supporto morale ad un testo scritto per chiedere le dimissioni del Successore di Pietro. 

Le manovre clerical-mediatiche costruite intorno alle esternazioni di Viganò sono il segno che settori ecclesiali influenti e ben foraggiati considerano ormai il papato e la Chiesa come proprietà privata, trasformandole in strutture di potere bisognose di una certa legittimazione ideologica. La loro hybris innesca e alimenta nei dinamismi ecclesiali il germe dell’autodistruzione. Come sempre, nella storia della Chiesa, le uniche persecuzioni davvero senza rimedio sono quelle che i cristiani infliggono a se stessi. Nel contempo, il mainstream globale mediatizzato non mette a fuoco la portata distruttiva della nuova superbia clericale. Si concentra ad inseguire storie che raccontano la Chiesa assediata da scandali sessuali e finanziari, peccati e crimini di preti, vescovi e cardinali. E suggerisce di mettere in connessione tale stato di cose anche con le responsabilità, le carenze e le inadempienze dello stesso Papa Francesco. 

I Papi “poveri cristi” e il nuovo lobbismo clericale 

Ex tifosi delusi e denigratori incalliti di Papa Francesco intonano in coro il mantra del “Papa fragile”. Registrano il calo di consensi nei sondaggi. Rinfacciano riforme annunciate e mal riuscite. Errori di gestione dei dossier. Scelte incoerenti. Soluzioni pasticciate. Ex cultori delle false retoriche del Papa “superstar”, adesso storcono il naso davanti al Papa «che delude». Mentre i manganellatori professionisti del pontificato non perdono occasione per mettere in conto al Vescovo di Roma ogni intoppo e ogni traccia di malanno nella compagine ecclesiale, eccitati come le torme di cani nelle battute di caccia alla volpe. 

Le icone contrapposte del Papa “supereroe” e del Papa “che perde colpi” si reggono l’un l’altra come due facce della stessa moneta falsa. Servono ambedue ad occultare i dati di fatto, a diffondere idee adulterate sul ruolo del Papa nella Chiesa e sulla natura stessa della Chiesa. Se si sta ai fatti, si può facilmente riconoscere che Papa Francesco non ha mai nascosto i propri limiti, le proprie insufficienze umane di anziano «peccatore a cui Cristo ha rivolto i suoi occhi». Anche da quando è sotto attacco, non si è ritirato a gestire difficoltà e inadeguatezze dietro le mura e le tende spesse del Palazzo apostolico. Non ha avuto remore a chiedere scusa in pubblico, quando si è accorto di scelte e parole sbagliate su questioni controverse. 

Se si sta ai fatti, e alla natura propria delle cose, si può facilmente riconoscere che le fragilità e i limiti umani dei Papi non sfigurano il mistero della Chiesa, ma piuttosto essi stessi lo richiamano, rinviano ad esso. La salvezza di Cristo abbraccia gli uomini e le donne così come sono, feriti dal peccato originale, e questo vale per tutti, a cominciare dai Successori di Pietro. In loro agisce la grazia di stato che accompagna l’esercizio dei ministeri in seno alla Chiesa (cfr Catechismo della Chiesa cattolica, numero 2004). Anche per questo, il riconoscimento sereno dei propri limiti personali ha connotato il magistero di molti Vescovi di Roma, anche in tempi recenti. 

«La mia persona conta niente. È un fratello che parla a voi, diventato padre per la volontà di Nostro Signore», dice Papa Giovanni XXIII nel suo famoso Discorso alla Luna; Giovanni Paolo I, nel discorso rivolto al Collegio cardinalizio dopo la sua elezione, esprime l’augurio che i «confratelli cardinali» aiuteranno «questo povero cristo, il Vicario di Cristo». Benedetto XVI, nelle sue prime parole dal Papa, si definisce un semplice «lavoratore nella vigna del Signore». E Paolo VI, il 7 dicembre 1968, incontrando gli alunni del Seminario lombardo, accenna ai tanti che «si aspettano dal Papa gesti clamorosi, interventi energici e decisivi», e aggiunge che «il Papa non ritiene di dover seguire altra linea che non sia quella della confidenza in Gesù Cristo, a cui preme la sua Chiesa più che non a chiunque altro. Sarà Lui a sedare la tempesta». 

Da San Pietro – che rinnegò Gesù – fino ad oggi, a mettere in pericolo la Chiesa non sono i limiti umani dei Papi, ma le cordate clericali che trattano l’organismo ecclesiale alla stregua di una società per azioni, e architettano operazioni mediatico lobbistiche per spingere alle dimissioni il Vescovo di Roma, trattandolo alla stregua un qualsiasi “amministratore delegato” d’azienda. 

L’audacia che viene dalla grazia 

Se si sta davvero ai fatti, è facile anche riconoscere che Papa Francesco, per quello che gli compete, sta facendo bene il compito a cui è stato chiamato. Conferma i fratelli nella fede degli apostoli. Dà a tutti l’esempio di povero peccatore che si accosta al confessionale per mendicare la liberazione dai propri peccati; suggerisce ogni giorno, opportune et importune, che i poveri di tutte le povertà sono i prediletti del Signore. 

La cortina fumogena delle polemichette pseudo-dottrinali, e l’accanita insistenza nel puntare i riflettori mediatici su minuzie e dettagli secondari del pontificato serve anche ad occultare scelte e gesti di grande momento, che stanno segnando in maniera suggestiva il cammino della Chiesa nel tempo di Papa Francesco. 

Se si considerano soltanto le ultime settimane, almeno due avvenimenti ecclesiali di primo piano testimoniano la fibra apostolica di cui è intessuto l’attuale pontificato: l’accordo con il governo della Cina popolare sulle nomine dei vescovi cinesi (22 settembre) e la canonizzazione del vescovo salvadoregno Oscar Arnulfo Romero, celebrata insieme a quella di Paolo VI (14 ottobre). 

Senza voler “sfidare” nessuno, per il bene dei cattolici cinesi, il Papa e la Santa Sede hanno condotto con pazienza un dialogo con le autorità di Pechino, mettendo in conto che la cosa poteva non piacere ad apparati militari e servizi segreti di mezzo mondo, e che qualcuno avrebbe potuto mettere in atto contromisure di sabotaggio e ritorsioni, magari servendosi di qualche apparato ecclesiastico “affiliato”. 

Nel caso di Romero, il vescovo martire trucidato sull’altare il 24 marzo del 1980, i veti e le resistenze al suo processo di canonizzazione in Salvador e nei Palazzi vaticani avevano avuto la meglio fino all’arrivo di Papa Francesco. Per decenni era risultata efficace la cortina fumogena di insinuazioni montate ad arte per accreditare la favola del Romero filo-guerrigliero, agitatore politico, influenzato e soggiogato dal marxismo. E avevano imposto la linea i cardinali e i monsignori secondo i quali portare Romero agli onori degli altari equivaleva a beatificare la Teologia della liberazione o addirittura i movimenti popolari d’ispirazione marxista e le guerriglie rivoluzionarie degli anni Settanta. Nel maggio del 2007, sul volo che da Roma lo portava in Brasile, lo stesso Benedetto XVI aveva definito la persona di Romero come «degna di beatificazione». Ma quelle parole pronunciate dal Papa davanti alle telecamere e a decine di registratori accesi erano state incredibilmente “sbianchettate” nelle trascrizioni pubblicate sui media vaticani. 

Mentre i suoi detrattori si affannano a ingigantire le sue reali o presunte “fragilità”, Papa Francesco opera scelte di questa portata: celebra la canonizzazione di Romero, e fa firmare l’accordo con il governo cinese sulle nomine dei vescovi. In questi avvenimenti ecclesiali legati alle decisioni prese da Papa Francesco si percepisce un tratto di coraggio che non è solo questione di indole o temperamento umano, e tanto meno ha a che fare con l’imprudenza. Una libertà di movimento che fa piuttosto pensare – e rende testimonianza – alla verità colta da San Tommaso d’Aquino, e da lui inserita nel suo commento alla seconda Lettera di San Paolo ai Corinti: «Dalla natura scaturisce il terrore della morte. Dalla grazia scaturisce l’audacia».

(Fonte: Vatican Insider - 26.10.2018)


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