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mercoledì 10 ottobre 2018

GIORNATA CONTRO LA PENA DI MORTE - Perché diciamo NO - Il tema del 2018: Abolizione e miglioramento condizioni di detenzione - NESSUNO PIÙ DIA MORTE di Marco Impagliazzo


Perché diciamo NO alla pena di morte

Amnesty International si oppone incondizionatamente alla pena di morte, ritenendola una punizione crudele, disumana e degradante ormai superata, abolita nella legge o nella pratica (de facto), da più della metà dei paesi nel mondo. La pena di morte viola il diritto alla vita, è irrevocabile e può essere inflitta a innocenti. Non ha effetto deterrente e il suo uso sproporzionato contro poveri ed emarginati è sinonimo di discriminazione e repressione.

Oggi, più di due terzi dei paesi al mondo ha abolito la pena capitale per legge o nella pratica. Nel 2017, sono state messe a morte almeno 993 in 23 paesi. La maggioranza delle sentenze capitali sono state eseguite nell’ordine in Cina, Iran, Arabia Saudita, Iraq e Pakistan.

La Cina rimane il maggior esecutore al mondo, ma la reale entità dell’uso della pena di morte in questo paese è sconosciuta perché i dati sono classificati come segreto di stato; per questo motivo, il dato complessivo di almeno 993 esecuzioni, non tiene in considerazione le migliaia di sentenze capitali che si ritiene siano eseguite in Cina ogni anno.



PENA DI MORTE E CONDIZIONI DI DETENZIONE

Il tema della Giornata mondiale

Come ogni anno, attivisti e organizzazioni contro la pena di morte con Amnesty International in testa si mobilitano in occasione della Giornata mondiale contro la pena di morte.

Il tema della 16° Giornata mondiale riguarda le condizioni di detenzione delle persone nel braccio della morte.

Alla fine dello scorso anno, almeno 21.919 persone erano state condannate a morte in tutto il mondo. Ma nonostante i detenuti nel braccio della morte debbano avere gli stessi diritti e condizioni di trattamento delle altre categorie di detenuti, in molti Paesi la situazione è ben diversa.

Negli Usa, in Giappone, Pakistan e Vietnam i prigionieri sono detenuti in isolamento e possono passare anche tutta la giornata nelle proprie celle senza il permesso di uscire. Per il sovraffollamento, in Malawi i prigionieri dormono a turno sul fianco, uno accanto all’altro, con la testa dell’uno dal lato dei piedi dell’altro, per mancanza di spazio.

La carenza di cibo è tale in Indonesia che le guardie spesso chiedono tangenti per consentire ai familiari di integrare le diete dei loro parenti.

La mancanza di assistenza medica è particolarmente grave in Bielorussia e qui, come anche in Giappone, Nigeria e Zimbabwe, i detenuti sono spesso tenuti in gabbia, confinati in stanze buie e tenuti vicino alla forcadove possono sentire quando i loro compagni di cella sono messi a morte.

Un caso esemplare è quello di Mohammad Reza Haddadi, condannato a morte in seguito a un processo gravemente iniquo per un reato che avrebbe compiuto quando aveva appena 15 anni. Da allora, dal 2004, Mohammad ha trascorso 14 anni nel braccio della morte, tutta la sua vita da giovane adulto, e la sua esecuzione è stata programmata almeno sei volte e posticipata, ogni volta, all’ultimo minuto, dopo una protesta pubblica: l’ultima volta, il 31 maggio 2016.

Il dover sopportare questo processo più e più volte è inumano e aggrava la crudeltà di una punizione già crudele, inumana e degradante per eccellenza, qual è la pena di morte. Non solo. La storia di Mohammad Reza Haddadi è l’esempio dell’uso abominevole della pena di morte da parte dell’Iran nei confronti di individui al di sotto dei 18 anni di età, in violazione alle norme internazionali sui diritti umani.

(fonte: Amnesty International)



GIORNATA CONTRO LA PENA CAPITALE: 
NESSUNO PIÙ DIA MORTE
di Marco Impagliazzo

Da sedici anni a questa parte la Giornata Mondiale contro la pena di morte è un'occasione di sensibilizzazione e mobilitazione a favore del più inalienabile dei diritti, quello alla vita. 
Tema di quest'anno è la salvezza delle oltre ventimila persone condannate a morte in tutto il mondo, ma anche il miglioramento delle loro condizioni di detenzione. 
In molti Paesi, infatti, la prassi è ben diversa nonostante l'obbligo a un trattamento umano di ogni prigioniero. Anche di chi è stato condannato alla pena capitale. Quasi che i condannati a morte morti già fossero per chili circonda. Negli Usa, in Giappone, in Pakistan, in Vietnam, sono spesso tenuti in isolamento e non hanno il permesso di uscire neanche per un`ora d`aria. Eppure, come scriveva Dostoevskij, «il grado di civiltà di una società si misura dalle sue prigioni». Ma è proprio di civiltà che dovremmo parlare in questa Giornata. Civiltà giuridica, senz'altro. Civiltà tout court, della mente, del cuore, della parola.

Se l'abolizione della pena capitale si fa strada nel mondo (come quest`anno è avvenuto in Burkina Faso, Paese che peraltro ha subito gravi atti terroristici), se il numero delle esecuzioni cala, ebbene, tra le opinioni pubbliche e sui media il richiamo della barbarie esercita un richiamo non residuale, anzi a volte potente. Lo abbiamo visto in diverse elezioni presidenziali, dalle Filippine al Brasile. La tentazione di una soluzione spiccia e sommaria al problema del crimine guadagna spazio nell`immaginario di tanta gente. Tutto ciò rende evidente come il problema della sensibilizzazione su un tema come questo sia sempre più importante, coinvolgendo i popoli quanto gli Stati. Preziosa, allora, è stata la netta presa di posizione di papa Francesco, che ha modificato un articolo del Catechismo della Chiesa cattolica (n. 2267), affermando, alla luce del Vangelo, «l'inammissibilità della pena di morte perché attenta all'inviolabilità e dignità della persona».

Essere contro la pena capitale si traduce, insomma, in una vigilanza continua sulla società e su noi stessi: un modo per sottrarsi al sonnambulismo che porta al disinteresse per la vita altrui o, addirittura, al desiderio di eliminazione dell`altro. In America la presa di posizione del Papa ha avuto effetti significativi: molti cattolici hanno alzato ancor più la loro voce, mentre alcune Conferenze episcopali hanno chiesto ai fedeli di attivarsi nei confronti delle autorità per fermare la mano del boia. Ma ognuno di noi può fare qualcosa, anche nei Paesi già abolizionisti. La sfida è svelenire un clima che chiede vendetta, più che giustizia; è dire "no" a una cultura dello scarto e "sì" a una cultura della riabilitazione. Si può - come già accade - mobilitarsi in difesa della vita dei condannati, riuscendo in alcuni casi a fermare l'esecuzione. Oppure si può tendere la mano alle migliaia di persone che sono nei bracci della morte, scrivendo loro lettere, alleviandone la durezza della detenzione, favorendo il loro percorso interiore, finendo per essere quell'ora d'aria che a tanti manca. Ricevere una lettera - come raccontano le centinaia di detenuti in contatto con i loro "amici di penna" di Sant'Egidio e di altre realtà di volontariato - è il segno che qualcuno ha a cuore la tua vita. È un legame con il mondo esterno. È uno spazio libero nella vita di uomini e donne in catene. Ricevere posta è un po` come allargare le sbarre. E, d'altra parte, scrivere una lettera - lo raccontano tanti che corrispondono con i condannati a morte - è rendersi conto, come ha detto suor Helen Prejean, che «un essere umano è molto di più della peggiore cosa che possa aver fatto».

Del resto, ricordiamoci che la giustizia umana può sbagliare, che tanti innocenti hanno passato anni nei bracci della morte finendo sul patibolo e ogni credente ha nel Vangelo della Passione il più chiaro esempio della fallibilità del sistema giudiziario. Questa giornata mondiale dovrebbe quindi convincerci una volta di più della necessità di mettere in soffitta i troppi ingegnosi sistemi escogitati dall'uomo per mettere a morte il proprio simile e lavorare tutti per un mondo liberato dalla pena capitale, un mondo dove vinca la vita.

(fonte: Avvenire 10/10/2018)


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