don Reno Pisaneschi
dopo l'incontro con Papa Francesco
«Ho trovato in lui un Papa che è papà»: ha ancora gli occhi bagnati di lacrime don Reno Pisaneschi, prete toscano di novantacinque anni, che stamattina ha partecipato alla messa del Pontefice a Santa Marta. Al termine del rito «Francesco mi ha benedetto — racconta all’Osservatore Romano — e ci siamo abbracciati forte. Io ho pianto dalla gioia, dalla commozione, perché ho visto come si interessa di tutte le persone presenti, delle loro esigenze, delle loro necessità. Questo è vivere insieme».
La mente lucida (cita a memoria date, nomi e circostanze), la folta barba bianca, l’anziano sacerdote che cammina accompagnandosi con un bastone è venuto in Vaticano per celebrare con il Pontefice il settantesimo dell’ordinazione, avvenuta il 27 giugno 1948 per le mani del vescovo Antonio Bagnoli, dopo gli studi nel seminario di Volterra: «la diocesi del primo successore di Pietro, il Papa san Lino», commenta.
Nella sua biografia c’è l’esperienza di tanti preti italiani che nelle regioni “rosse” del dopoguerra sono stati costretti «a una battaglia quotidiana senza fine tra annuncio del Vangelo e politica. Al punto che — spiega — dovevamo persino fare i comizi nelle piazze, durante i periodi elettorali».
Nato il 19 marzo 1924 a Castagneto Carducci, l’anno dopo essere divenuto prete viene inviato come parroco a Collalto di Casole d’Elsa, dove resta per un decennio. «Era una zona priva di acqua potabile, di negozi e di mezzi di comunicazione. C’erano più animali che abitanti», ricorda con amara ironia. Nelle cosiddette “montagnole senesi” il giovane parroco sperimenta la miseria, aiutato solo da un fattore del posto. Ma non si ferma davanti a nulla: si muove a piedi o in bicicletta, percorrendo infaticabilmente distanze chilometriche, finché, grazie a un dono di Pio XII, riesce a comprarsi una Vespa. «Avevo cinquecento parrocchiani e dicevo tre messe al giorno: una in parrocchia, una in una chiesa succursale e una in una cappella privata, ma arrivavo al massimo a sessanta presenti. Perché quella era una zona colorata di rosso e fortemente acceso», dice riferendosi all’orientamento politico degli abitanti. Al punto che, quando a pochi chilometri di distanza viene ucciso il parroco di Cevoli, in provincia di Firenze, don Reno viene convinto dai carabinieri a comprarsi una pistola per difesa personale. «Sapevano che un capo cellula locale mal sopportava che io visitassi i genitori ammalati. Ai piedi del loro letto non c’era un crocifisso, ma il quadro di Stalin. Insomma giravo con in tasca l’olio santo e l’arma. Comunque non l’ho mai usata, se non per esercitarmi», puntualizza affidandosi di nuovo al sarcasmo.
Nel lasciarsi andare ai ricordi il sacerdote è un fiume in piena. Anzi due, come fa notare lui stesso, scherzando sul proprio nome che richiama quello russo, il “Don” appunto, e quello tosco-emiliano, omonimo del grande corso d’acqua che attraversa l’Europa centrale. E così arriviamo al 1958, quando viene inviato a Cecina di Livorno, dove vive tuttora. Nominato cappellano dell’ospedale e vicario della locale parrocchia dei Santi Giuseppe e Leopoldo, «per oltre trent’anni — racconta — ho insegnato religione all’istituto magistrale, ho collaborato in parrocchia con il catechismo, le confessioni e le messe. Ancora oggi ascolto i penitenti e celebro alle 9.30 del mattino, anche se mi stanco molto». Ma è soprattutto nel presidio ospedaliero che don Pisaneschi ha esercitato il suo ministero, dal pronto soccorso alla sala operatoria, «sempre con gli ammalati, curandoli, aiutandoli nelle necessità pratiche e in quelle spirituali. Ho vestito i morti, tenuto la mano a persone cui venivano amputati gli arti, ho trascritto i referti dettati dai chirurghi dopo le operazioni; una volta ho persino partecipato a un intervento». E da quest’esperienza, aggiunge, «ho maturato il vizio santo di interessarmi degli ammalati». Per questo da tempo è anche un punto di riferimento per le iniziative in favore della sanità pubblica nella regione Toscana. E a chi gli chiede qual è il segreto di tanta energia, risponde senza esitazioni: «il Vangelo di Giovanni inizia dicendo che il verbo si fece carne e venne ad abitare “in mezzo” a noi. Quindi anche i preti devono stare “in mezzo”, tra la gente. Anche in questa maledetta crisi degli abusi sui bambini che c’è nella Chiesa, solo se stiamo con le persone, “in mezzo” a loro, possiamo invitarle a guardare verso l’alto»
(Fonte: Gianluca Biccini - L'Osservatore Romano)
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