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martedì 23 ottobre 2018

I 90 anni di Vanier. «Con l’Arca accanto all’umanità ferita. Sempre»

I 90 anni di Vanier. 
«Con l’Arca accanto 
all’umanità ferita.
 Sempre»
di Daniele Zappalà
I 90 anni di Vanier che con la sua “Arca” accoglie i disabili mentali. A colloquio con il filosofo francese che negli Anni ’60 ha lanciato le comunità d’inclusione presenti anche in Italia


«Auguro ai giovani d’incontrare sulla loro strada dei preti straordinari con un carisma per l’ascolto dei loro dubbi, dei loro desideri e anche delle loro dipendenze. Preti di cui abbiamo tanto bisogno perché capaci di rivelare la vera bellezza e di renderci più umani. Preti che non dobbiamo mai lasciare soli. Quando sono amati, gli esseri umani cambiano». A parlare è un giovane nello spirito che ha appena superato la soglia dei 90 anni. JeanVanier (del quale Queriniana ha appena mandato nelle librerie il volume Le grandi domande della vita; pagine 248, euro 18,00) è solo un po’ più ricurvo che in passato, ma il suo sorriso resta quello accogliente e dolcemente invadente di sempre, con cui ha incontrato fin dagli anni Sessanta l’umanità “ferita” dall’handicap mentale. E così ha fondato l’Arca, per abbracciare i disabili psichici, che oggi è diffusa in diversi Paesi, fra cui l’Italia, come ci ricorda nella sede storica del movimento, in piena campagna, nella Piccardia francese delle cattedrali gotiche.

Per i suoi 90 anni, lei ha diffuso un video con 10 regole di vita per divenire più umani. Conservare la propria umanità è difficile?
Molte persone sono perdute. Non sanno dove andare. Il mondo politico è diviso. La Chiesa non è sempre stabile. Emerge il problema dell’ambiente: che cosa accadrà nel pianeta fra 30 anni? Resta la questione del Medio Oriente: la Siria, l’Iran, la Turchia, l’Arabia Saudita, Israele. I ricchi diventano sempre più ricchi. I poveri sempre più poveri. Tutto questo sembra dirci che il mondo perde la sua stabilità e direzione. Al contempo, abbiamo tanti nuovi strumenti di comunicazione. Mi sono espresso proprio per questo sulla nostra umanità da proteggere, sentendomi anch’io talvolta perduto in mezzo a tutti questi cambiamenti.

Lei dedicò la sua tesi di dottorato in filosofia alla felicità secondo Aristotele. Riscoprire di continuo l’umanità aiuta a sperimentare la felicità?
Per Aristotele, ciò che conta è la realtà, l’esperienza. Ha una visione profondamente umana. Per lui, l’amicizia è un frutto che contribuisce alla felicità. Ma è problematico il suo disprezzo per le persone con un handicap e per i barbari. Gli mancava una visione della comunità universale, il senso della famiglia umana. Parlare di esseri umani significa riconoscere l’umanità di ciascuno, anche al Polo Nord e di fronte a tutte le religioni. Gli immigrati, ad esempio, sono persone con nomi e storie. Aristotele non è andato fino in fondo all’idea di esperienza. Invece, ciascun essere umano è importante.

Per lei la felicità è associata al cristianesimo?
Sì e no. L’idea di amare è cristiana, sì. Ma per certi aspetti, si può ritrovare quest’idea anche altrove. Nel buddismo o in certi passaggi del Corano, ad esempio. Avevamo qui uno psichiatra che non esercitava più in ospedale perché amava giocare a pallavolo con i suoi pazienti. Per questo, certi suoi colleghi lo disprezzavano. È stato il nostro psichiatra per 31 anni. Era felice di vivere in una comunità in cui ognuno era rispettato, al di là del proprio handicap. Possiamo davvero dire di non aver mai visto un uomo tanto umano. Aveva un tale desiderio di ascolto che riusciva sempre a spingere tutti a parlare. Era felicissimo di vivere in una comunità cattolica, ma diceva di desiderare la fede e di non averla. Personalmente, lo trovavo più cristiano di tanti cristiani. Tutto il mistero del cristianesimo è di amare l’altro. Era quello che lui viveva. Ci sono cristiani che vorrebbero una Chiesa più chiusa, circondata di muri, ma il cristianesimo non è questo. Non è la paura dell’altro. È invece ciò che papa Francesco ci mostra, rivelandoci Gesù. Gesù e il cristianesimo sono l’apertura all’altro, verso ogni essere umano. S’impara così la saggezza che c’è in ogni essere umano. In Italia, mi piace oggi osservare l’esempio della Chiesa che è aperta verso chi migra, molto più dello Stato.

La Chiesa sta imparando a coltivare più che in passato la cultura dell’incontro?
Sì e no. Seguo con fervore il Papa. Lo ascolto, lo guardo. Ho trovato eccellente il film appena uscito. Il Papa mi ricorda Gesù, va incontro alle persone. Ma percepisco un doppio movimento. C’è pure una Chiesa che vuole ancora mantenere i propri muri, proprio mentre il Papa incontra tutti. Gesù promise ai poveri il Regno di Dio. Lo fece in mezzo a tante forze opposte, come ha mostrato in un suo bel libro anche il teologo José Antonio Pagola. Ancor più che Giovanni Battista, Gesù disturbava molti nel Tempio.

Certe comunità cristiane hanno conosciuto di recente delle derive anche gravi. Cosa dovrebbe essere una comunità?
Non un luogo sicuro, ma una missione nella quale le persone si amano fra loro. In questo modo, una comunità è un luogo di liberazione. Quando si vive assieme, sorgono problemi, ma si può riconoscere che gli altri, nella comunità, hanno la stessa missione. Si impara quanto sia importante aver bisogno gli uni degli altri. La comunità è una scuola per imparare ad accettare l’altro e non per coltivare una visione personale, com’è accaduto in certe comunità dove delle dipendenze, come quella sessuale, sono divenute persino degli strumenti di potere. Al contrario, quando il nostro desiderio d’umanità e di pace cresce, il nostro ego si restringe. Esiste una tensione che viene superata ricevendo i nutrimenti della Chiesa. La preghiera, l’Eucaristia, la Parola di Dio, l’esempio del Papa»
(Fonte: Avvenire - 20.10.2018)